XXVI

Erano le otto. Mia madre stava già facendo colazione, come tutti i giorni. Il rito del nostro incontro si compì come al solito. «Buongiorno, mamma!». Mia madre mi sorprese oggi con un: «Servus, ragazzo!». Da lungo tempo non avevo più sentito dalla sua bocca questo saluto sbarazzino. Quando poteva essere stata l'ultima volta che l'aveva usato? Dieci, forse quindici anni fa, quand'ero ancora liceale, durante le vacanze, quando mi era consentito di fare la prima colazione con i miei. Allora usava aggiungere talvolta l'innocente battuta che a lei doveva sembrare molto arguta. Diceva cioè, indicando la poltrona su cui sedevo: «E così, anche questo banco di scuola ti pesa?». Una volta avevo risposto: «Si, mamma!», e per tre giorni non avevo più avuto il permesso di sedermi a tavola.

Quella mattina si dimenticò perfino di lagnarsi della marmellata. «Io non capisco» disse «dove trovino tante barbabietole! Assaggia, ragazzo! È roba sana, hanno scritto. Che il diavolo...». S'interruppe, le maledizioni non le diceva mai per intero. Mangiai barbabietole e margarina e bevvi caffè. Il caffè era buono. Notai che la nostra domestica mi serviva da un'altra caffettiera e capii che la vecchia signora aveva serbato per me il buon caffè Meinl, faticosamente ottenuto per vie traverse, e per sé si contentava di quella robaccia amara fatta di cicoria. Ma non potevo farmi accorgere che lo sapevo. Mia madre non sopportava che si scoprissero le sue piccole mosse strategiche. Bisognava fingersi ciechi. Era tanto superba che a volte poteva perfino diventare vendicativa.

«E così hai incontrato la tua Elisabeth» disse senza preamboli. «Lo so, tuo suocero è stato qui ieri. Se mi ci metto con un po' d'impegno, lo capisco perfettamente. È stato qui circa due ore. Mi ha raccontato che hai parlato con lui. Io gli ho detto che l'avrei saputo da te, ma lui non si è lasciato scoraggiare. Dunque vuoi mettere ordine nella tua vita - ho sentito. Che ne dice Elisabeth?».

«Sono stato con lei».

«Dove? Perché non qui?».

«Non sapevo, mamma. Era troppo tardi».

«Così ti vuole tirar dentro in un qualche affare, ha detto. Tu non sei in grado di fare nulla. Tu non sei in grado di mantenere una donna. Non so in quali affari abbia intenzione di tirarti dentro, ma in tutti i casi dovresti metterci una parte di capitale. E noi non abbiamo nulla. È tutto investito nel prestito di guerra. Perso cioè, come la guerra. Ci resta questa casa. Si potrebbe, pensava lui, metterci un'ipoteca. Tu potresti parlarne col nostro dottor Kiniower. Ma poi, dove sarebbe il tuo lavoro e quale poi? Ne capisci qualcosa tu di queste arti applicate? Tuo suocero se ne intende moltissimo. La sua conferenza era ancora più dettagliata di quella della tua Elisabeth. E chi sarebbe questa professoressa Jolanth Keczkemet?»

«Szatmary, mamma!» corressi.

«Sarà Szekely» consentì mia madre. «Allora, chi è?».

«Ha i capelli corti, mamma, e io non la posso soffrire».

«E Elisabeth è sua amica?».

«Un'ottima amica!».

«Ottima, dici?».

«Sì, mamma!».

«Ah!» disse. «Allora lascia perdere, ragazzo. Conosco amicizie del genere per sentito dire. Mi basta. Ho letto molto, ragazzo! Tu non immagini quante cose so io; un amico sarebbe stato meglio. Dalle donne è quasi impossibile liberarsi. E da quando è che esistono donne che sono professori? E di che cosa è professore questa Keczkemet?».

«Szatmary, mamma!» corressi.

«Sarà Lakatos» disse mia madre dopo aver riflettuto un po'. «Allora, cosa speri di fare contro un professore donna, ragazzo? Un pugilatore, o un attore magari, sarebbe un altro discorso!».

Quanto poco conoscevo mia madre! Questa vecchia signora che solo una volta alla settimana andava ai giardini pubblici per un paio d'ore "a prendere una boccata d'aria", e che solo una volta al mese, allo stesso scopo, era solita andare in fiacchere fino al Praterspitz, era al corrente perfino delle cosiddette perversioni. Quanto doveva leggere, con quanta lucidità doveva riflettere e pensare - nelle lunghe ore solitarie che trascorreva a casa, appoggiata al suo bastone nero, vagando dall'una all'altra delle nostre camere immerse nella penombra, così sola e così ricca, così sprovveduta e così sapiente, così lontana dal mondo e così esperta del mondo! Ma io dovevo difendere Elisabeth, cosa avrebbe pensato mia madre se io non lo facevo? Era mia moglie, tornavo ora dal nostro amplesso, sentivo ancora nel cavo della mano la levigata freschezza del suo seno giovane, respiravo ancora il profumo del suo corpo, ancora si rifletteva nei miei occhi l'immagine del suo volto con gli occhi semichiusi persi nella beatitudine, e sulla mia bocca posava il sigillo delle sue labbra. Dovevo difenderla - e mentre la difendevo cominciai ad amarla di nuovo.

«Questa professoressa Szatmary» dissi «non può niente contro di me. Elisabeth mi ama, ne sono sicuro. Ieri per esempio...».

Mia madre non mi lasciò finire il discorso: «E oggi?» m'interruppe. «Oggi è daccapo dalla professoressa Halaszy!».

«Szatmary, mamma!».

«Non faccio caso a nomi simili, ragazzo, lo sai, non mi correggere continuamente! Se hai l'intenzione di vivere con Elisabeth, allora devi mantenerla. Come dice tuo suocero, devi mettere un'ipoteca sulla nostra casa. Poi devi lasciarti tirar dentro in un qualche affare, come dice tuo suocero. Che dico: la nostra casa? È la tua casa! E allora questa professoressa, come diavolo si chiama, dovrà contentarsi di fabbricare nuovi coralli con le pigne - in nome di Dio! Al pianterreno abbiamo ancora un appartamento libero, quattro stanze credo, il portiere lo sa. Io ho ancora qualcosa in banca, faccio a metà con te, chiedi al dottor Kiniower quant'è! Cucinare possiamo farlo insieme. Elisabeth sa fare cucina?».

«Non credo, mamma!».

«Un tempo io sapevo,» disse mia madre «me ne ricorderò di sicuro! La cosa più importante è che tu possa vivere con Elisabeth. E lei con te». Non diceva più: la tua Elisabeth, io lo considerai un segno di particolare benevolenza materna.

«Va' in centro, ragazzo. Vai a trovare i tuoi amici! Forse sono ancora vivi. Che ne dici? Se tu andassi in centro?».

«Sì, certo, mamma!» dissi, e andai da Stellmacher al ministero della guerra per chiedere notizie dei miei amici. Stellmacher doveva essere rimasto sempre lì. Per quanto il ministero della guerra non potesse essere ormai più di un sottosegretariato di Stato, Stellmacher era sicuramente rimasto.

Era rimasto, vecchio, canuto e curvo. Sedeva là, dietro la vecchia scrivania, nella sua vecchia stanza. Ma era in borghese, con uno strano vestito troppo largo che gli ciondolava di dosso e che per giunta era anche rivoltato. Di tanto in tanto si passava due dita fra il colletto e il collo. La stoffa rigida gli dava fastidio. I polsini gli davano fastidio. Li ricacciava di continuo nelle maniche, spingendoli contro l'orlo del tavolo. Era abbastanza informato: Chojnicki era ancora vivo, abitava nel quartiere di Wieden: Dworak, Szechenyi, Hallersberg, Lichtenthal, Strohhofer giocavano tutti i giorni a scacchi al caffè Josefinum nella Währingerstrasse. Di Stejskal, Halasz e Grünberger non si sapeva che ne fosse stato. Andai prima da Chojnicki, al Wieden.

Sedeva nel suo vecchio salone, nella sua vecchia casa. Era quasi irriconoscibile perché si era fatto tagliare i baffi. «Perché, a che scopo?» gli chiesi. «Per somigliare al mio domestico. Io sono il lacchè di me stesso. Mi apro da solo la porta. Mi pulisco da me gli stivali. Quando ho bisogno di qualcosa, suono e mi presento io stesso. Signor conte comanda? Sigarette! - Al che, mi spedisco dal tabaccaio. Mangiare posso ancora farlo gratis dalla vecchia» con questo nome s'intendeva nella nostra cerchia la signora Sacher. «Il vino me lo procuro ancora dal grassone» con questo nome s'intendeva nella nostra cerchia il Lautgartner a Hietzing. «E Xandl è pazzo a Steinhof» così concluse Chojnicki il suo triste resoconto.

«Pazzo?».

«Pazzo da legare. Gli faccio visita tutte le settimane. Il coccodrillo» era lo zio dei fratelli Chojnicki, Sapieha «ha messo i beni sotto sequestro. È il curatore di Xandl. Io non ho alcun diritto di fare opposizione. Questa casa è pignorata. Posso restarci ancora tre settimane. E tu, Trotta?».

«Io metterò un'ipoteca sulla nostra casa. Mi sono sposato, sai. Devo mantenere una moglie». «Oh, oh, sposato!» esclamò Chojnicki. «Ne so qualcosa anch'io. Ma mia moglie è in Polonia. Che Dio ve la conservi a lungo e in salute. Io ho deciso» continuò «di rimettere tutto nelle mani dell'Onnipotente. Chi ha imbrattato, spazzi: Lui mi ha messo in questo bel pasticcio, in questo sfacelo, e io mi rifiuto di tirarmi fuori». Tacque per un po', poi picchiò il pugno sul tavolo gridando: «La colpa è tutta vostra, di voi, voi,» cercava il termine appropriato «voi canaglie,» gli venne alla fine in mente «voi avete rovinato lo Stato con le vostre frivole barzellette da caffè. Il mio Xandl l'ha sempre profetizzato. Voi non avete voluto vedere che quegli scimuniti di alpigiani e i Sudeti della Boemia, questi nibelunghi cretini, hanno offeso e infamato per tanto tempo le nostre nazionalità finché hanno cominciato a odiare e a tradire la monarchia. Non sono stati i nostri cèchi a tradire, non i nostri serbi, non i nostri polacchi, non i nostri ruteni, ma soltanto i nostri tedeschi, la maggioranza etnica».

«Ma la mia famiglia è slovena» dissi.

«Scusa» disse sottovoce. «È solo perché non ho un tedesco sotto mano. A me un tedesco dei Sudeti!» gridò di nuovo all'improvviso. «Che io lo strozzi! Andiamo, andiamo a scovarlo! Vieni! Marciamo sul Josefinum!».

Dworak, Szechenyi, Hallersberg, Lichtenthal e Strohhofer erano là, per lo più ancora in uniforme. Tutti loro appartenevano alla vecchia società. I titoli nobiliari erano proibiti, che importava? «Chi non mi conosce col nome di battesimo,» diceva Szechenyi «non ha avuto una buona educazione!». Erano instancabili nel giocare a scacchi. «Dov'è il sudeta?» gridò Chojnicki. «Son qua!» disse il sudeta. Papà Kunz era uno di quelli che assistevano alle partite prodigando i loro fastidiosi consigli: vecchio socialdemocratico, redattore dell'organo di partito, era disposto in qualsiasi momento a provare storicamente che gli austriaci erano in realtà tedeschi. «Lo provi!» esclamò Szechenyi. Papà Kunz ordinò un doppio sliwowitz e si accinse a provarlo. Nessuno gli prestava ascolto. «Iddio fulmini i Sudeti!» urlò Chojnicki che aveva appena perso una partita. Saltò su di scatto e agitando in aria i pugni chiusi si slanciò sul vecchio Kunz. Lo fermammo. Aveva la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue. «Marcomanni1 teste quadre!» gridò finalmente. Era l'apice del suo furore. Da quel momento cominciò visibilmente a rabbonirsi. (1: Popolo germanico emigrato in Boemia dopo le vittorie di Druso, 9-8 a.C.)

Mi sentivo bene, ero di nuovo a casa. Tutti noi avevamo perso rango e posizione e nome, casa e denaro e valori: passato, presente, futuro. Ogni mattina quando aprivamo gli occhi, ogni notte quando ci mettevamo a dormire imprecavamo alla morte che invano ci aveva attirato alla sua festa grandiosa. E ognuno di noi invidiava i caduti. Riposavano sotto terra e la primavera ventura dalle loro ossa sarebbero nate le violette. Noi invece eravamo tornati a casa disperatamente sterili, coi lombi fiaccati, una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnato. Il reperto della commissione di arruolamento era irrevocabile. Diceva: «Giudicati inabili alla morte».