IV
Per la forma, come scusa e per acquietare mia madre, mi ero iscritto a giurisprudenza. Ma naturalmente non studiavo. Dinanzi a me si stendeva l'immensa vita, un prato smaltato di fiori, appena limitato da orizzonte molto, molto lontano. Frequentavo l'allegra, anzi sfrenata compagnia di giovani aristocratici, l'ambiente che, dopo quello degli artisti, più mi era caro nel vecchio impero. Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l'arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui ancora non intuivamo l'approssimarsi. Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute. Si imprecava allegramente, si bestemmiava finanche, senza scrupolo. Vecchio e solitario, lontano e per così dire pietrificato, pure vicino a lutti noi e onnipresente nel grande e variopinto impero, viveva e regnava il vecchio imperatore Francesco Giuseppe. Forse negli strati profondi delle nostre anime erano sopite quelle certezze che la gente chiama presentimenti, prima fra tutte la certezza che il vecchio imperatore moriva, ogni giorno in più di vita era un altro passo verso la morte, e insieme con lui moriva la monarchia, non tanto la nostra patria, quanto il nostro impero, qualcosa di più grande, più vasto, più nobile che non una semplice patria. Dai nostri cuori grevi nascevano le battute spensierate, dalla sensazione di essere votati alla morte un folle desiderio di qualsiasi affermazione di vita; di balli, feste popolari, ragazze, pranzi, gite, stravaganze d'ogni genere, scappatelle assurde, di ironia suicida, di critica feroce, del Prater, della Ruota Gigante, del Teatro delle Marionette, di mascherate, di balletti, di frivoli giochi amorosi nei palchi discreti dell'Opera di Corte, di manovre militari a cui ci si sottraeva, e finanche di quelle malattie che l'amore talvolta ci largiva.
Si capirà come l'arrivo inaspettato di mio cugino mi capitasse a proposito. Nessuno dei miei frivoli amici aveva un cugino come il mio, un panciotto come il mio, una catena da orologio come la mia, né come me un così stretto legame con a terra d'origine della favolosa Sipolje in Slovenia, la patria dell'allora non ancora dimenticato e nondimeno già leggendario eroe di Solferino.
Quella sera passai a prendere mio cugino. La sua giacca lucida di raso fece un'enorme impressione su tutti i miei amici. Barbugliò un tedesco incomprensibile, non fece che ridere coi suoi denti forti e smaglianti, lasciò che pagassero per lui, promise di comprare in Slovenia altri panciotti e catene per i miei amici e accettò di buon grado degli acconti. Poiché tutti mi invidiavano panciotto, catena e orologio. Tutti, se avessero potuto, mi avrebbero comprato il cugino bell'intero, la mia parentela e la mia Sipolje.
Mio cugino promise di ritornare in autunno. Lo accompagnammo tutti alla stazione, e gli acquistai un biglietto di seconda classe. Lo prese, andò agli sportelli e gli riuscì di cambiarlo con un biglietto di terza.
Da là ci fece ancora cenno con la mano. E a noi tutti si spezzò il cuore quando il treno lasciò con fracasso la stazione; poiché amavamo la mestizia con la stessa leggerezza con cui amavamo il piacere.