XXIV
Non avevo ancora alcun timore della nuova vita che mi aspettava: come oggigiorno si dice, ancora non la "realizzavo". Mi attaccavo invece ai piccoli obblighi che di ora in ora mi erano imposti: e assomigliavo pressappoco a un uomo che, posto dinanzi a una imponente scalinata che egli è costretto a salire, ritiene il primo gradino quello più pericoloso.
Non avevamo più un domestico, solo una donna di servizio. Il vecchio portinaio faceva per noi le veci del domestico. Verso le nove di mattina lo mandai da mia moglie con dei fiori e una lettera. Annunciavo la mia visita per le undici, come ritenevo che si convenisse. "Feci toeletta", come ancora si usava dire ai miei tempi. I miei abiti civili erano intatti. M'incamminai a piedi. Arrivai alle undici meno un quarto e aspettai nel caffè di fronte. Alle undici, puntuale, suonai il campanello. «I signori non sono in casa!» mi fu detto. Fiori e lettera erano stati consegnati. Elisabeth aveva lasciato detto che potevo andare a trovarla subito al suo studio nella Wollzeile. Mi recai dunque nella Wollzeile.
Sì, Elisabeth era là. Sulla porta una piccola targa annunciava: Atelier Elisabeth Trotta. Arretrai spaventato davanti al mio nome.
«Servus!» disse mia moglie. E: «Lasciati guardare!». Stavo per baciarle la mano, ma lei respinse il mio braccio e questo solo gesto bastò a farmi perdere la calma. Era la prima donna che respingeva il mio braccio, ed era mia moglie! Cominciai a sentire quel certo disagio che mi ha sempre assalito alla vista di anomalie e di macchine che compiano gesti umani: per esempio di pazzi o di donne senza l'addome. Eppure era Elisabeth. Portava una blusa verde accollata, con il colletto rovesciato e una lunga cravatta maschile. Il suo viso era ancora coperto dalla stessa tenera peluria, l'arco della nuca, quando chinava la testa, lo riconoscevo ancora, e il gioco nervoso delle dita forti, sottili sul tavolo. Stava, appoggiata allo schienale, su una sedia da ufficio di legno giallo limone. Tutto là era giallo limone, il tavolo e la cornice di un quadro e l'intelaiatura delle larghe finestre e il pavimento nudo. «Siediti pure sul tavolo!» disse. «Serviti di sigarette. Ancora non mi sono sistemata del tutto». E mi raccontò che aveva fatto tutto da sé. «Con queste due mani» disse mostrando contemporaneamente tutte e due le sue belle mani. Entro quella stessa settimana poi sarebbero arrivati il resto della mobilia e una tenda arancione per le finestre, arancio e limone stavano bene insieme. Finalmente, quando ebbe terminato il suo resoconto - e parlava ancora con la sua solita voce un po' rauca che io avevo tanto amato! -, disse: «Che hai fatto tutto questo tempo?». «Ho lasciato fare agli altri!» risposi. «Grazie per i fiori» disse. «Tu mandi fiori. Perché non hai telefonato?». «Da noi non c'è il telefono!». «Allora, racconta !» ordinò - e si accese una sigaretta. Fumava, come in seguito ho visto fare a molte donne, storcendo la bocca, la sigaretta da una parte, quando la faccia assume l'espressione caratteristica di quella malattia che dai medici viene definita facies partialis, e con una faticosa noncuranza. «Più tardi, Elisabeth» dissi. «Come vuoi!» rispose. «Da' un'occhiata alla mia cartella». Mi mostrò i suoi schizzi. «Molto originali!» dissi. Progettava ogni sorta di cose: tappeti, scialli, cravatte, anelli, braccialetti, candelieri, paralumi. Tutto era ad angoli. «Capisci?» chiese. «No!». «E come potresti!» disse. E mi guardò. C'era dolore nel suo sguardo, ed ebbi la netta sensazione che pensasse alla nostra notte di nozze. D'un tratto credetti anch'io di sentire una specie di colpa. Ma, come avrei potuto manifestarlo? La porta si spalancò e qualcosa di scuro si rovesciò dentro, una folata di vento, una giovane donna con capelli neri, corti, grandi occhi neri, faccia ambrata e abbondante peluria sopra labbra rosse e robusti denti smaglianti. La donna, entrando, urlò qualcosa che io non capii, mi alzai, lei si sedette sul tavolo. «Questo è mio marito!» disse Elisabeth. Mi ci vollero un paio di minuti per capire che si trattava di "Jolanth". «Tu non conosci Jolanth Szatmary?» chiese mia moglie. Seppi così che era una donna famosa. Ancor meglio di mia moglie sapeva come progettare tutto ciò che l'artigianato industriale sembrava assolutamente richiedere. Mi scusai. In realtà, né a Wiatka, né durante il tragitto col convoglio avevo sentito fare il nome di Jolanth Szatmary.
«Dov'è il vecchio?» chiese Jolanth.
«Dovrebbe venire a momenti» disse Elisabeth. Il vecchio era mio suocero. Infatti arrivò poco dopo. Quando mi vide, cacciò il consueto «Ah!» e mi abbracciò. Era sano e vispo. «Ben tornato!» gridò, con un'aria così trionfante come se a portarmi a casa fosse stato lui in persona. «Tutto è bene quel che finisce bene!» disse subito dopo. Le due donne risero. Mi sentii avvampare. «Andiamo a mangiare!» ordinò. «Guarda qua,» mi disse «quello che vedi l'ho fatto tutto io con queste mani!». E mi sventolò le mani davanti al naso. Elisabeth faceva finta di cercare il suo cappotto.
Andammo dunque a mangiare, o meglio: fummo portati, perché mio suocero, s'intende, aveva la sua macchina e il suo autista. «Al solito locale!» ordinò. Non osai chiedere quale ristorante fosse il suo solito locale. Ebbene, era il mio vecchio ristorante di fiducia, dove tante volte avevo mangiato coi miei amici, una di quelle vecchie trattorie viennesi dove il padrone conosceva meglio i suoi ospiti che i suoi camerieri, e dove un ospite non era un cliente pagante ma un ospite sacro.
Ora però era tutto mutato: ci servirono dei camerieri sconosciuti che non mi avevano mai visto e ai quali il mio affabile suocero dava la mano. Qui lui aveva anche il suo tavolo "particolare". Io ero un estraneo, in quel posto, peggio che un estraneo. Perché l'ambiente mi era familiare, la tappezzeria mi era amica e così le finestre, il soffitto annerito dal fumo, la grande stufa di terracotta verde e il vaso di maiolica col bordo azzurro e i fiori appassiti sulla mensola della finestra. Ma erano estranei quelli che mi servivano, e con estranei io sedevo e mangiavo allo stesso tavolo. I loro discorsi non li capivo. Mio suocero, mia moglie Elisabeth, Jolanth Szatmary parlavano di mostre; avrebbero fondato riviste, affisso manifesti, conseguito successi internazionali - che so io! «Tiriamo dentro anche te!» mi diceva di quando in quando mio suocero; e io non avevo la più pallida idea in che cosa mi volesse «tirar dentro». Anzi, già la sola idea che io potessi essere «tirato dentro» mi angosciava.
«Il conto!» gridò mio suocero quando finimmo di mangiare. In quell'istante spuntò dietro il banco Leopold, nonno Leopold. Anche sei anni prima lo chiamavamo nonno Leopold. «Nonno!» gridai e lui venne fuori. Doveva avere già superato la settantina. Camminava sulle gambe malferme e coi piedi in fuori, che sono una caratteristica dei camerieri che hanno servito a lungo. I suoi occhi chiari, sbiaditi, cerchiati di rosso, dietro i vacillanti occhiali a molla, mi riconobbero subito. E già sorrideva la sua bocca sdentata, già si spiegavano le ali delle sue fedine bianche. Mi scivolò incontro e mi prese la mano, delicatamente, come si tiene un passero. «Oh, che bellezza che almeno lei sia qui!» strillò. «Ritorni presto! Mi terrò onorato di servire io stesso il signore!». E - senza curarsi dei clienti - gridò alla moglie dietro la cassa: «Finalmente un cliente!». Mio suocero rise.
Dovevo parlare con mio suocero. Ora scorrevo con lo sguardo, così mi pareva, tutta la scalinata davanti alla quale mi trovavo. Aveva innumerevoli scalini e diventava sempre più ripida. Si capisce, avrei potuto lasciare Elisabeth e non curarmi più di lei. Ma allora non pensai affatto a questa possibilità. Era mia moglie. (Ancora oggi vivo con la convinzione che lei è mia moglie). Forse avevo mancato nei suoi confronti; anzi, senza dubbio. O forse era il vecchio amore, solo a metà soffocato, che mi faceva credere che a guidarmi fosse unicamente la coscienza. Forse era la mia pretesa, l'assurda pretesa di tutti gli uomini giovani o rimasti giovani, di far tornare a ogni costo come era un tempo la donna che un tempo hanno amato e poi dimenticato, e che è diventata un'altra; per egoismo. Insomma, dovevo parlare con mio suocero; quindi con Elisabeth.
Incontrai mio suocero nel bar del vecchio albergo, dove dovevano conoscermi più che bene. Per esserne sicuro, una mezz'ora prima feci una specie di ricognizione. Sì, erano ancora tutti vivi, due camerieri erano rimpatriati e il barista anche. Sì, si ricordavano perfino ancora che avevo un piccolo debito - e che bene mi fece anche questo! Tutto era calmo e silenzioso. La luce del giorno scendeva morbida dal lucernario. Non c'erano finestre. C'erano ancora vecchie e buone bevande di prima della guerra. Quando arrivò mio suocero, ordinai del cognac. Mi portarono il vecchio Napoléon, come una volta. «Diavolo d'un ragazzo!» disse mio suocero. Certo, ero tutto meno che questo.
Gli dissi che ormai dovevo mettere ordine nella mia vita, anzi nella nostra vita. Non avevo, così dissi, per niente l'intenzione di rimandare questioni decisive. Dovevo sapere tutto subito. Ero un uomo sistematico, dissi.
Lui ascoltò tranquillamente fino in fondo. Poi cominciò: «Voglio essere franco con te. Primo, non so se Elisabeth sia ancora disposta a vivere con te, cioè se ti ama; questo è affare tuo, vostro. Secondo: di che cosa intendi vivere? Insomma, che cosa sai fare? Prima della guerra eri un giovane ricco della buona società, cioè di quella società a cui apparteneva il mio Bubi».
«Bubi!». Era mio cognato. Era quel Bubi che io non avevo mai potuto soffrire. Me n'ero completamente dimenticato. «Dov'è?» chiesi. «Caduto in guerra!» rispose mio suocero. Tacque e vuotò il bicchiere d'un fiato. «Nel 1916 è caduto in guerra» aggiunse. Era la prima volta che lo sentivo vicino e familiare. «Dunque,» proseguì «tu non hai nulla, tu non hai una professione. Personalmente, io sono consigliere commerciale e sono stato perfino nobilitato. Ma oggi questo non significa nulla. L'intendenza militare mi deve ancora centinaia di migliaia di corone. Non me le pagheranno. Ho solo del credito e un po' di denaro in banca. Sono ancora giovane. Posso tentare qualcosa di nuovo, qualcosa di grosso. Come vedi, ora faccio un tentativo con l'artigianato industriale. Elisabeth ha imparato da questa famosa Jolanth Szatmary. "Studio Jolanth": con questo marchio la roba potrebbe fare il giro del mondo. E oltre a ciò,» aggiunse con aria sognante «ho ancora qualche altra freccia al mio arco».
Quest'espressione fu sufficiente a rendermelo di nuovo antipatico. Se ne doveva essere accorto perché subito dopo disse: «Voi non avete più soldi, lo so, la tua signora mamma non lo sospetta ancora. Io ti posso tirar dentro in qualche affare, se vuoi. Ma prima parla con Elisabeth. Servus!».