XVI

Ora dovevo far visita all'amico di Chojnicki, il tenente colonnello Stellmacher del ministero della guerra. Il mio trasferimento al Trentacinquesimo della territoriale non doveva prendere più tempo dei preparativi per il mio matrimonio. Ero contento di dover compiere quasi contemporaneamente due passi diversi e anche scombussolanti. L'uno, in certo modo, accelerava l'altro. Ambedue mi stordivano, né più né meno, impedendomi comunque anche di giustificare la mia fretta con argomenti persuasivi. In quei momenti non sapevo nient'altro se non, appunto, che "tutto deve andare alla svelta". E nemmeno volevo sapere esattamente perché e a quali scopi. Ma profondo in me già stillava, come una pioggia sottile che si percepisce nel sonno, il presentimento che i miei amici Joseph Branco e Reisiger stessero chissà dove percorrendo verso occidente le fangose strade maestre della Galizia orientale, inseguiti dai cosacchi. Chissà, forse erano già feriti, o morti? E sia, allora volevo almeno onorare la loro memoria in questo modo, prestando servizio nel loro reggimento. Ero giovane, e anche della guerra noi non sapevamo proprio niente! Com'era facile soggiacere all'idea che a me spettasse il compito di raccontare ai bravi ragazzi del Trentacinquesimo aneddoti veri e anche un po' inventati sui loro compagni morti, Trotta e Reisiger, perché mai e poi mai ci si dimenticasse di loro. Bravi poveri contadini prestavano servizio nel Trentacinquesimo, furieri dal tedesco burocratico sovrapposto alle loro materne lingue slave come lo sono i gradi ai risvolti, i galloni giallo-oro sul minuscolo fondo verde scuro - e gli ufficiali non erano i figli viziati della nostra allegra società viennese, bensì figli di artigiani, portalettere, gendarmi e osti e affittuari e tabaccai. Per me allora essere accolto fra loro aveva più o meno lo stesso significato che poteva avere per uno di essi un trasferimento al Nono dragoni di Chojnicki. Era senza dubbio una di quelle idee che sprezzantemente si definiscono "romantiche". Eppure, lungi dal vergognarmene, ancora oggi insisto a dire che questo periodo della mia vita, il periodo delle idee romantiche, mi ha avvicinato alla realtà più delle rare non romantiche che ho dovuto forzatamente impormi: ma come sono assurde queste definizioni che ci hanno tramandato! Ammettiamole pure - ebbene: io credo di aver sempre osservato che il cosiddetto uomo realistico se ne sta impenetrabile su questo mondo come un muro di cinta in calcestruzzo, e il cosiddetto romantico è invece come un giardino aperto, in cui la verità entra ed esce a piacimento...

Dovevo andare dunque dal tenente colonnello Stellmacher. Nella nostra vecchia monarchia un trasferimento dalle varie armi alla territoriale, anche solo dai cacciatori alla fanteria, era una specie di affare di Stato, non più difficile ma più intricato dell'attribuzione di un comando di divisione. Pure esistevano nel mio mondo scomparso, nella vecchia monarchia appunto, le preziose, meravigliose, leggi non scritte, non note, non accessibili ma ben familiari agli iniziati, più ferree e più eterne di quelle scritte, che al proposito stabilivano che su cento postulanti solo sette, ben determinati, dovessero vedere opportunamente esauditi i loro desideri, alla svelta e in silenzio. I barbari della giustizia assoluta, lo so, se ne indignano ancora oggi. Ci biasimano, ci danno degli aristocratici e degli esteti, tuttora; eppure a ogni istante io vedo coi miei occhi come essi, i non-aristocratici e anti-esteti, abbiano spianato la strada ai barbari dell'ingiustizia ottusa, plebea, loro fratelli. Esiste anche una semenza di denti di drago della giustizia assoluta.

Ma, come ho detto, non avevo allora né voglia, né agio di riflettere. Andai da Stellmacher dritto per il corridoio dove aspettavano capitani, maggiori, colonnelli, dritto per quella porta su cui era scritto: vietato l'ingresso - io, un misero alfiere dei cacciatori. «Servus!» disse Stellmacher che sedeva chino sulle carte, prima ancora di avermi visto. Sapeva benissimo con quanta familiarità si devono salutare le persone che sono passate da un ingresso vietato. Vidi i suoi capelli grigi, ispidi come setole, la fronte giallognola percorsa da mille rughe, i minuscoli occhi infossati che sembrava non avessero palpebre, le guance magre ossute e i grandi mustacchi spioventi tinti di nero, un po' alla saracena, in cui Stellmacher sembrava aver riposto tutta la sua vanità, quasi perché essa non lo molestasse più in altro modo (né nella vita privata, né nella professione). L'ultima volta l'avevo visto alla pasticceria Dehmel, alle cinque del pomeriggio, insieme al consigliere Sorgsam della Ballhausplatz. Ancora non avevamo la più pallida idea della guerra; maggio, il maggio viennese, nuotava nelle piccole "Coppe oro" dal bordo d'argento, si librava sul tavolino, sui sottili bastoncini di cioccolata ripieni, sui pasticcini rosa e verdi alla crema che rammentavano strane gemme commestibili, e il consigliere Sorgsam disse, nel bel mezzo di quel maggio: «Non ci sarà guerra, signori miei!». - Il tenente colonnello Stellmacher alzava ora lo sguardo svagato dalle sue carte; non vide nemmeno la mia faccia, notò solo uniforme, dragona, sciabola, abbastanza per ripetere: «Servus!» e subito dopo: «Siediti, un momento!». Infine mi guardò con attenzione: «Che eleganza!» e «Quasi quasi non ti riconoscevo! Si capisce, in borghese hai l'aria un tantino rammollita!». Ma non era la voce sonora, profonda di Stellmacher che io conoscevo da anni - e anche il suo motteggio era forzato. Mai prima d'ora era uscita dalla bocca di Stellmacher una parola frivola. Si sarebbe impigliata nei folti e lucidi cespugli dei mustacchi tinti di nero per perdervisi senza suono.

Io esposi alla svelta il mio caso. Cercai anche di spiegare perché volevo andare nel Trentacinquesimo. «Ammesso che tu li trovi!» disse Stellmacher. «Brutte notizie! Due reggimenti quasi sterminati, ritirata catastrofica. I nostri signori "idioti in capo" ci hanno preparato come si deve. Benissimo! Vai pure, guarda se lo trovi il tuo Trentacinquesimo, e comprati due stellette. Sarai trasferito come sottotenente. Servus! In libertà!». Mi allungò la mano al disopra della scrivania. I suoi occhi chiari, quasi senza palpebre, dei quali non si sarebbe detto che mai soggiacessero a sonno, sopore, stanchezza, mi guardavano distanti, estranei, da una vitrea lontananza, per niente tristi, no, più che tristi, disperati. La sua grande dentatura falsa scintillò doppiamente bianca sotto i mustacchi saraceni. «Scrivimi una cartolina!» disse e si chinò daccapo sulle carte.