IX
Nel colmo dell'estate del 1914 partii dunque per Zlotogrod. Presi alloggio all'albergo dell'Orso d'oro, l'unico di quella cittadina che, a quanto mi avevano detto, si convenisse a un europeo.
La stazione era minuscola come quella di Sipolje, di cui avevo serbato scrupoloso ricordo. Tutte le stazioni della vecchia monarchia austro-ungarica si rassomigliano, le piccole stazioni delle piccole località di provincia. Gialle e minuscole, erano simili a gatti pigri che d'inverno si sdraiano nella neve, d'estate al sole, quasi protette dalla tradizionale tettoia di vetro della banchina e vigilate dalla nera aquila bicipite su fondo giallo. Ovunque, a Sipolje come a Zlotogrod, il guardasala era lo stesso, lo stesso guardasala con la pancia prominente, la pacifica uniforme turchina, la cinghia nera di traverso al petto, la cinghia dove era infilata la campanella, madre del gaio, triplice e regolamentare squillo che annunciava la partenza; anche a Zlotogrod, come a Sipolje, sulla banchina, sopra l'ingresso dell'ufficio del capostazione, era attaccato quel nero ordigno di ferro dal quale prodigiosamente veniva il lontano suono argentino del lontano telefono, segnali da altri mondi, teneri e gradevoli, tanto da meravigliarsi che avessero trovato rifugio in un involucro così greve, per quanto piccolo; alla stazione di Zlotogrod, come in quella di Sipolje, il guardasala salutava chi partiva e chi arrivava, e il suo saluto era come una specie di benedizione militaresca; alla stazione di Zlotogrod, come in quella di Sipolje, c'era la stessa "sala d'aspetto di seconda e di prima classe", lo stesso buffet con le bottiglie di grappa e la stessa cassiera bionda dal seno prorompente e i due giganteschi palmizi, a destra e a sinistra del buffet, che facevano pensare sia a piante preistoriche sia a quinte di teatro. E davanti alla stazione sostavano i tre vetturini, né più né meno come a Sipolje. E io riconobbi subito l'inconfondibile vetturino Manes Reisiger.
Fu. lui, naturalmente, a portarmi all'albergo dell'Orso d'oro. Aveva un bel fiacchere tirato da due cavalli bianchi, i raggi delle ruote erano laccati di giallo e queste erano gommate come quelle che Manes aveva visto alle vetture dette Gummiradler, a Vienna.
Per via mi confessò che, a essere sinceri, il suo fiacchere l'aveva rinnovato non tanto a causa mia, in attesa del mio arrivo, quanto per quella specie di istintiva passione che lo costringeva a tener d'occhio tutto quei che facevano i suoi colleghi, i vetturini viennesi, e a sacrificare i suoi risparmi al dio del progresso, comperando due cavalli bianchi e mettendo le gomme alle ruote.
Dalla stazione alla città la strada era molto lunga e Manes Reisiger ebbe tempo e modo di raccontarmi le storie che lo toccavano tanto da vicino. Nel frattempo teneva le redini con la sinistra. Alla sua destra la frusta era infilata nei sostegno. I cavalli conoscevano bene la strada, non era affatto necessario guidarli. Manes non aveva bisogno di occuparsi di loro e sedeva perciò a cassetta con aria noncurante, reggendo nella sinistra le briglie allentate e col busto chinato verso di me mentre mi raccontava la sua storia. Tutti e due i cavalli insieme erano costati solo centoventi-cinque corone. Erano cavalli dello Stato, ciechi entrambi dall'occhio sinistro, perciò inutilizzabili a scopi militari e ceduti a poco prezzo dal Nono dragoni di stanza a Zlotogrod. Comunque lui, il vetturino Manes Reisiger, non avrebbe mai potuto comperarli con tanta facilità se non fosse stato un beniamino del colonnello del Nono reggimento dragoni. C'erano in tutto cinque vetturini nella cittadina di Zlotogrod. Gli altri quattro, i colleghi di Reisiger, avevano carrozze sudicie, vecchie giumente pigre e sciancate, ruote sbilenche e sedili di pelle sfilacciati. I trucioli sbucavano perciò indomiti dal cuoio logoro e sforacchiato e non c'era davvero da pretendere che un signore, tanto meno un colonnello del Nono dragoni, si sedesse in un fiacchere simile.
Avevo una lettera di presentazione di Chojnicki per il comandante della guarnigione, il colonnello Földes del Nono, così come per il sottoprefetto, il barone Grappik. Subito all'indomani, il giorno dopo il mio arrivo, avevo in mente di fare una visita a entrambi. Il vetturino Manes Reisiger divenne silenzioso, non aveva più nulla di importante da dire, tutto quello che aveva importanza nella sua vita l'aveva già raccontato. Eppure lasciava ancora la frusta nel sostegno, teneva ancora le briglie allentate, da cassetta volgeva ancora il busto verso di me. L'eterno sorriso della sua bocca larga coi forti denti bianchi fra il nero notturno, quasi blu, dei baffi e della barba, faceva subito pensare a una luna lattiginosa fra i boschi, fra boschi ameni, appunto. Tanta era la serenità, la bontà di questo sorriso, che vinceva perfino la forza del paesaggio sconosciuto, piatto, malinconico, che attraversavo. Vasti campi alla mia destra, vaste paludi alla mia sinistra si estendevano lungo il cammino fra la stazione di Zlotogrod e la cittadina di Zlotogrod, pareva quasi che questa fosse rimasta consapevolmente lontana, in volontaria castità, dalla stazione che la collegava al mondo. Era un pomeriggio piovoso e, come ho detto, si era all'inizio dell'autunno. Le ruote gommate del vetturino Manes rotolavano con un silenzio spettrale sulla strada maestra sterrata, inzuppata dalla pioggia, ma gli zoccoli pesanti dei robusti cavalli, già statali, battevano in cadenza quel pantano nerastro sollevando davanti a noi densi schizzi di fango. Era già scuro quando raggiungemmo le prime case. In mezzo alla piazza del mercato, dirimpetto alla chiesetta, si ergeva l'unica casa a due piani di Zlotogrod, annunciata da lontano da un solitario e triste lampione: era l'albergo dell'Orso d'oro. Quel solitario lampione, lì davanti, faceva pensare a un orfano che cerca invano di sorridere fra le lacrime.
Pure, per quanto fossi preparato all'ignoto, e anzi a qualcosa di estremamente remoto, il più mi parve consueto e familiare. Solo molto più tardi, molto tempo dopo la grande guerra che giustamente, a mio parere, viene chiamata "guerra mondiale ', e non già perché l'ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo, solo molto più tardi, dicevo, dovevo accorgermi che perfino i paesaggi, i campi, le nazioni, le razze, le capanne e i caffè del genere più diverso e della più diversa origine devono sottostare alla legge del tutto naturale di uno spirito potente che è in grado di accostare ciò che è distante, di rendere affine l'estraneo e di conciliare l'apparentemente divergente. Parlo del frainteso e anche abusato spirito della vecchia monarchia, che in questo caso faceva sì che io fossi di casa a Zlotogrod non meno che a Sipolje o a Vienna. L'unico caffè di Zlotogrod, il caffè Asburgo, al pianterreno dell'albergo dell'Orso d'oro dove io avevo preso alloggio, non mi sembrò diverso dal caffè Wimmerl nella Josefstadt, dove ero solito incontrarmi il pomeriggio coi miei amici. Anche qui, dietro il banco, sedeva la familiarissima cassiera, bionda e grassoccia come ai miei tempi solo le cassiere potevano esserlo, una specie di candida dea dei vizio, un peccato che si rivela solo per accenni, vogliosa, corruttibile e, in pari tempo, vigile affarista. Avevo già visto lo stesso a Zagabria, a Olmtüz, a Brno, a Kecskemet, a Szombathely, a Ödenburg, a Sternberg, a Müglitz. Le scacchiere, le tessere del domino, le pareti annerite dal fumo, i lumi a gas, il tavolo da cucina nell'angolo, vicino ai gabinetti, la cameriera col grembiule azzurro, il gendarme con l'elmo giallo-argilla che entrava per un attimo, autoritario e imbarazzato allo stesso tempo, e quasi timido infilava nel portaombrelli il fucile con la baionetta inastata, e i giocatori di tarocchi, con gli scopettoni e i polsini rotondi, che si ritrovavano puntualmente ogni giorno alla stessa ora: tutto questo era patria, qualcosa di più forte che una semplice terra natale, vasto e variopinto, eppure familiare, e patria: l'imperial-regia monarchia. Il sottoprefetto barone Grappik e Földes, il colonnello del Nono dragoni, tutti e due parlavano lo stesso nasaleggiante tedesco "statale" delle classi elevate, una lingua insieme dura e dolce, quasi che i fondatori e padri di questa lingua fossero slavi e italiani, una lingua tutta ironia discreta e graziosamente disposta all'innocuità, al cicaleccio e perfino all'amabile assurdità. Non passò neanche una settimana che fui di casa a Zlotogrod come già a Sipolje, a Müglitz, a Brno e nel nostro caffè Wimmerl nella Josefstadt.
Naturalmente, ogni giorno perlustravo la zona col fiacchere del mio amico Manes Reisiger. Il paese in realtà era povero, ma si dimostrava ameno e placido. Perfino le estese, sterili paludi mi apparivano piene di buone linfe, e il coro amico delle rane, che da esse saliva, un peana di creature che meglio di me sapevano a che scopo Dio aveva creato loro e la loro patria, le paludi.
La notte sentivo talvolta i gridi rauchi, spesso interrotti, delle oche selvatiche che volavano alte. I salici e le betulle avevano ancora fronde copiose, ma dai grandi venerabili castagni cadevano già le foglie dorate, dure, dai margini ben dentellati. Le anatre schiamazzavano nel bel mezzo della strada, dove le pozze d'acqua interrompevano qua e là il fango argenteo che non si prosciugava mai.
La sera ero solito mangiare - o per essere più esatti, bere - con gli ufficiali del Nono reggimento dragoni. Sopra i calici dai quali noi bevevamo la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute. Noi non la presentivamo ancora. Talvolta si restava insieme fino a tardi. Per un'inspiegabile paura della notte aspettavamo che venisse mattina.
Per un'inspiegabile paura, lo dico adesso, perché allora ci sembrava che si spiegasse facilmente; per noi la spiegazione stava nel fatto che eravamo troppo giovani per trascurare le notti. E invece, come solo in seguito mi resi conto, era la paura del giorno, o più esattamente della mattina, le ore più limpide del giorno. Allora si vede, e anche si è visti, chiaramente. Ma noi, noi non volevamo vedere chiaramente e nemmeno volevamo esser visti chiaramente.
La mattina dunque, per sfuggire sia a questa chiarezza sia al sonno pesante a me ben noto, che ti assale dopo una notte passata in bianco a far baldoria, tal quale un falso amico, un cattivo guaritore, un bonaccione imbronciato, un insidioso benefattore, mi rifugiavo da Manes, il vetturino. Spesso quando arrivavo, verso le sei di mattina, lui era appena sceso dal letto. Abitava fuori di porta, vicino al cimitero. Mi ci voleva circa mezz'ora per arrivare a casa sua. Talvolta capitavo giusto quando lui si alzava. La sua casetta era isolata, circondata da campi e prati che non gli appartenevano, intonacata d'azzurro e provvista di un tetto di scandole nerastre: non dissimile da una creatura vivente, non sembrava ferma bensì in movimento. Tanto era intenso il colore azzurro cupo dei muri in mezzo al verdegiallo che le appassiva dintorno. Quando spingevo il portone rosso scuro che dava accesso all'abitazione del vetturino Manes, alle volte lo vedevo proprio mentre usciva sulla porta di casa. Si fermava lì, davanti a quella porta marrone, con una rozza camicia, rozzi mutandoni, a capo scoperto e a piedi nudi, in mano una grossa brocca di terraglia marrone. Beveva ripetute sorsate d'acqua che poi risputava di bocca in un grande arco. Con la sua potente barba nera, proprio in fronte al sole che stava sorgendo, con i suoi panni rozzi, i suoi capelli arruffati e lanosi, faceva pensare alla foresta vergine, all'uomo primitivo, a una preistoria confusa e tardiva, il perché non si sapeva. Si sfilava la camicia e si lavava alla fontana. E lì sbuffava a più non posso, sputava, squittiva, lanciava urli quasi di gioia, era una vera e propria irruzione del passato nella posterità. Poi si rimetteva la sua rozza camicia ed entrambi ci incamminavamo l'uno incontro all'altro per scambiarci i saluti. Questo scambio di saluti era allo stesso tempo solenne e affettuoso. Era una specie di cerimoniale e sebbene ci vedessimo quasi tutte le mattine, era ogni volta una muta conferma del fatto che né lui era per me semplicemente un vetturino ebreo, né io per lui semplicemente un influente giovanotto viennese. Talvolta mi pregava di leggere le rare lettere che suo figlio scriveva dal Conservatorio. Erano lettere brevissime, ma siccome lui, in primo luogo, non afferrava prontamente la lingua tedesca in cui il figlio - Dio sa per quale motivo - si sentiva in dovere di scrivergli, e secondariamente perché il suo tenero cuore di padre doveva desiderare che queste lettere non fossero troppo brevi, stava attento che io le leggessi, molto lentamente. Spesso chiedeva pure che ripetessi le frasi due o tre volte.
Le galline, nel piccolo pollaio, cominciavano a schiamazzare non appena egli usciva nel cortile. I cavalli nitrivano, con voluttà quasi, incontro al mattino e al vetturino Manes. Prima apriva la stalla, e tutti e due i cavalli bianchi allungavano contemporaneamente la testa fuori della porta. Lui li baciava entrambi, allo stesso modo in cui si baciano le donne. Poi andava nella rimessa per tirar fuori la carrozza. Quindi attaccava i cavalli. Poi apriva il pollaio e le galline si sparpagliavano fra chiocciolii e sbattere d'ali. Era come se una mano invisibile le avesse seminate per il cortile.
Conobbi anche la moglie del vetturino Manes Reisiger. Si alzava di solito una mezz'ora circa dopo di lui e mi invitava a prendere il tè. Lo bevevo nella cucina tinta d'azzurro, davanti al grande samovar di latta stagnata, mentre Manes mangiava rafano grattugiato, cetrioli, pane e cipolla. L'odore era acuto, ma familiare, quasi come di casa, sebbene io non avessi mai fatto una colazione del genere; il fatto è che allora mi piaceva tutto, ero giovane, e con ciò è detto tutto.
Mi piaceva perfino la moglie del mio amico Manes Reisiger, sebbene fosse una di quelle donne che comunemente si definiscono brutte, perché era rossa di capelli, piena di lentiggini e rassomigliava a un semel inzuppato. Pure, e nonostante le dita grasse, aveva un modo appetitoso di versare il tè, di preparare la colazione a suo marito. Gli aveva partorito tre figli. Due erano morti di vaiolo. Qualche volta parlava dei figli morti come se fossero ancora in vita. Era come se per lei non ci fosse alcuna differenza fra i figli che aveva nella tomba e quello che se n'era andato al Conservatorio di Vienna e che per lei doveva essere come morto. Perché comunque era uscito dalla sua vita.
Vivo in ogni modo e ognora presente era però per lei mio cugino, il caldarrostaio. A questo proposito, io feci ogni specie di congetture.
In capo a una settimana, mio cugino Joseph Branco Trotta doveva arrivare.