III

Dovevano essere circa le sette di mattina quando entrammo nel caffè Magerl. Cominciavano ad arrivare i primi garzoni dei fornai, candidi come la neve e profumati di rosette croccanti, di trecce al papavero e panini col sale. Il primo caffè appena tostato, virgineo e aromatico, odorava come un secondo mattino. Mio cugino Joseph Branco mi sedeva accanto, nero e meridionale, allegro, vispo e sano, e io mi vergognavo del mio biondo pallore e della mia stanchezza di nottambulo. Ero anche un po' imbarazzato. Cosa potevo dirgli? Egli accrebbe dell'altro il mio imbarazzo quando disse: «Io non bevo caffè al mattino. Vorrei una zuppa». Ma certo! A Sipolje, al mattino, i contadini mangiavano una zuppa di patate.

Così ordinai una zuppa di patate. Ci volle un bel po' per averla e nel frattempo mi vergognavo di intingere il cornetto nel caffè. Finalmente arrivò la zuppa, un piatto fumante. Mio cugino Joseph Branco non sembrò prestare alcuna attenzione al cucchiaio. Con le mani brune e villose si portò alla bocca il piatto fumante. Mentre sorbiva la sua zuppa pareva che si fosse scordato anche di me. Tutto preso da questo piatto fumante, che teneva alto con le dita magre e robuste, offriva lo spettacolo di un uomo il cui appetito è in realtà un nobile impulso e, se non tocca il cucchiaio, è solo perché gli sembra più degno mangiare direttamente dal piatto. Dirò di più, mentre lo guardavo sorbire quella zuppa, mi parve pressoché incomprensibile il fatto stesso che gli uomini avessero inventato i cucchiai, ridicoli strumenti. Mio cugino posò il piatto, vidi che era bello liscio e vuoto e lustro come se fosse stato appena rigovernato.

«Questo pomeriggio» disse «ritirerò il denaro». Gli chiesi di che genere fossero quei suoi affari che aveva in mente di allargare. «Ah,» disse «una cosa da poco, che però ti procura da vivere per tutto l'inverno».

E seppi allora che mio cugino Joseph Branco in primavera, estate e autunno faceva il contadino, occupandosi del campo, e d'inverno faceva il caldarrostaio. Aveva una pelle di montone, un mulo, un carrettino, una caldaia, cinque sacchi di castagne. Così ogni anno, all'inizio di novembre, se ne andava in giro per alcuni territori della Corona. Se però in qualche posto si trovava particolarmente bene, ci passava anche tutto l'inverno, finché non arrivavano le cicogne. Allora legava i sacchi vuoti intorno alla groppa del mulo e raggiungeva la più vicina stazione ferroviaria. Caricava la bestia, partiva per il suo paese e ridiventava un contadino.

Gli chiesi in che modo si potesse dare incremento a un commercio così modesto, e lui mi spiegò che si potevano fare ancora un'infinità di cose. Per esempio, oltre alle castagne, si potevano vendere mele al forno e patate arrosto. Anche il mulo nel frattempo era diventato vecchio e debole, e si poteva comprarne uno nuovo. Duecento corone, comunque, le aveva già da parte.

Portava una giacca lucida di raso, un panciotto di felpa a fiorellini con bottoni di vetro colorati e, intorno al collo, una pesante catena d'oro da orologio preziosamente lavorata. E io che da mio padre ero stato allevato nell'amore per gli slavi del nostro impero e che di conseguenza ero incline a prendere per un simbolo ogni trappola folcloristica, m'innamorai subito di questa catena. La volevo. Chiesi a mio cugino quanto costava. «Non lo so» disse. «L'ho avuta da mio padre e lui dal suo - un'altra così non la si trova in vendita. Ma visto che tu sei mio cugino, te la vendo volentieri». «Allora quanto?» chiesi. Ma in cuor mio avevo pensato, memore degli insegnamenti di mio padre, che un contadino sloveno fosse un essere troppo nobile per dare un qualche peso a questioni di denaro. Il cugino Joseph Branco rifletté a lungo, poi disse: «Ventitré corone». Non osai chiedere come gli fosse venuta in mente proprio questa cifra. Gli detti venticinque corone. Le contò accuratamente, non fece neanche l'atto di restituirmene due, tirò fuori un grande fazzoletto rosso a quadri blu e ci nascose il denaro. Solo allora, e non prima di aver chiuso il fazzoletto con un doppio nodo, si levò la catena, tirò fuori l'orologio dal taschino del panciotto e poggiò orologio e catena sul tavolo. Era un pesante orologio d'argento fuori moda, fornito di chiavetta per la carica. Mio cugino esitò a staccarlo dalla catena, lo guardò per un po' con tenerezza, quasi con affetto e alla fine disse: «Proprio perché sei mio cugino! Se mi dai altre tre corone ti vendo anche l'orologio!». Gli detti una moneta da cinque corone. Neanche questa volta mi porse il resto. Tirò fuori daccapo il suo fazzoletto, sciolse lentamente il doppio nodo, rifece l'involto con la nuova moneta, infilò il tutto nella tasca dei pantaloni e mi fissò con uno sguardo candido.

«Anche il tuo panciotto mi piace!» dissi dopo qualche secondo. «Vorrei comprarti anche quello».

«Perché sei mio cugino,» rispose «ti venderò anche il panciotto». E senza esitare un istante si levò la giacca, si sfilò il panciotto e me lo porse al disopra del tavolo. «È stoffa buona,» disse Joseph Branco «e i bottoni sono belli. Ma siccome sei tu, costa solo due corone e cinquanta». Gli pagai tre corone e nei suoi occhi lessi chiara la delusione che non fossero state cinque anche questa volta. Sembrava seccato, non sorrideva più, ma finì col riporre questo denaro con la stessa cura e la stessa meticolosità delle precedenti monete.

Ora possedevo a parer mio l'essenziale per uno sloveno autentico: una vecchia catena, un panciotto colorato, un orologio d'argento con chiavetta, pesante come un sasso. Non aspettai un secondo di più. Me li presi subito tutti e tre, pagai e feci chiamare un fiacchere. Accompagnai mio cugino al suo albergo, abitava al Grüner Jägerhorn. Lo pregai di aspettarmi in serata, sarei passato a prenderlo. Meditavo di presentarlo ai miei amici.