LA VERITÀ
A PROPOSITO
DELL’AUTOCOMBUSTIONE UMANA
di
Vigile Verità
Sebbene non vi siano prove che la gente possa davvero prendere fuoco senza l’ausilio di sostanze chimiche o mezzi meccanici, è dimostrato che l’uomo può bruciare senza prendere letteralmente fuoco. Autocombustione (composto di auto- e combustione, dal greco autós = se stesso, e dal latino combustus, participio passato di comburere = bruciare) significa combustione provocata da un’autoaccensione (composto di auto e accensione).
Il fenomeno dell’autocombustione è stato oggetto di numerosi trattati e di accesi dibattiti, anche se non sempre in maniera pertinente. Romanzieri come Melville e Dickens, per esempio, vi ricorrono per dimostrare che il male prima o poi colpisce anche chi lo compie, e che chi si comporta in modo ingiusto con gli altri prima o poi finirà bruciato nel proprio castello o nella propria casa, mentre si sta facendo egoisticamente gli affari suoi.
Ciò che forse il lettore troverà sorprendente è che esiste una spiegazione scientifica per questo fenomeno. Alcuni esperimenti condotti su cadaveri e resti umani donati alla fabbrica dei corpi di Knoxville, nel Tennessee, hanno dimostrato che è possibile, in determinate circostanze, che il corpo umano bruci fino alla quasi completa cremazione. Di norma per incenerire un corpo occorrono da una a tre ore e mezzo e temperature elevatissime, quali quelle di un forno crematorio.
Devo ammettere, pertanto, che quando l’antropologo Bill Bass mi parlò per la prima volta della tesi di una sua studentessa sul fenomeno della combustione umana spontanea, pensai che stesse scherzando.
“La gente non prende fuoco da sola” protestai a un barbecue al Calhouns di Knoxville. “Non ci credo.”
“Non prende letteralmente fuoco” mi rispose bevendo tè freddo mentre il sole tramontava dietro il Tennessee River “ma brucia per un periodo di tempo considerevole.”
Questo bizzarro colloquio avvenne la primavera scorsa, quando mi recai nella fabbrica dei corpi per chiedere ai ricercatori che vi lavorano se avevano mai fatto esperimenti di mummificazione. Ero appena tornato dall’Argentina, stavo studiando le mummie e speravo che il dottor Bass volesse tentare un’imbalsamazione alla maniera degli egizi su uno dei corpi che gli erano stati donati. Lui, però, non riteneva utile l’esperimento e oltre tutto disperava di trovare in farmacia tutto il necessario, a parte il fatto che gli sarebbe costato uno sproposito. Tuttavia, forse perché essendo un uomo sensibile non voleva che restassi troppo deluso, mi spiegò che alla fabbrica dei corpi stavano conducendo alcuni interessanti studi sull’autocombustione. Mi mostrai interessato e per qualche settimana visitai con regolarità i loro laboratori. Premesso che la fabbrica dei corpi non è un bel posto, lo descriverò brevemente per coloro che non ne hanno mai sentito parlare.
Nella University of Tennessee esiste un centro di ricerca sulla decomposizione, detta anche “fabbrica dei corpi”, che si trova in mezzo a un grande bosco recintato con il filo spinato. Lì, da circa venticinque anni antropologi ed esperti di medicina legale si dedicano allo studio della decomposizione. Le ragioni sono ovvie: se non conoscessimo le trasformazioni che avvengono in un cadavere in condizioni e tempi determinati, sarebbe impossibile stabilirne l’ora del decesso.
La fabbrica dei corpi è l’unico centro che io conosca che permette a chi studia la morte di condurre esperimenti che non si potrebbero effettuare in un normale obitorio o nelle facoltà di medicina. Quando un corpo viene donato a questo istituto, si sa che verrà utilizzato per fare ricerca. Nel caso specifico, questo voleva dire amputare una gamba e darle fuoco per vedere fino a che punto bruciava in assenza di combustibile esterno.
Riassumerò le conclusioni della brillante ricerca di Angi Christensen dicendo che, incendiati alcuni tessuti umani mediante uno stoppino di cotone, questi continuavano a bruciare per quarantacinque minuti, essendo il fuoco alimentato dal grasso corporeo che sciogliendosi intrideva lo stoppino (effetto candela). Successivi esperimenti hanno dimostrato che un osso poroso e sottile brucia più rapidamente e completamente di un osso sano e compatto. Dopo una serie di studi e calcoli matematici, Angi Christensen ha concluso che in alcuni casi il corpo di un uomo può consumarsi a fuoco molto lento in presenza di stoffe di cotone che fungono da stoppino.
Una donna anziana e obesa, affetta da osteoporosi e abituata a indossare vestiti di cotone è la vittima più probabile di questo fenomeno raro e spaventoso. A tal proposito voglio raccontarvi la storia di Ivy, di cui non specifico il cognome per motivi di privacy.
Ivy era una donna bianca di settantaquattro anni che, stando ai documenti e alle descrizioni fornite dai vicini, era alta un metro e mezzo e pesava quasi cento chili. Fino a due anni prima della sua strana e tragica morte, aveva fatto la baby-sitter a Miami per integrare la modesta pensione e la misera eredità lasciatale dal marito Wally, che era morto all’improvviso. Ivy non teneva mai gli stessi bambini per più di sei mesi, perché inevitabilmente si alienava la fiducia dei genitori creando situazioni sospette che, sebbene non lasciassero spazio a eventuali denunce, finivano per creare un clima insostenibile.
Ivy aveva un’assoluta necessità che gli altri avessero bisogno di lei e riteneva che nessuno potesse aver più bisogno di lei di un bambino malato e spaventato. Non accettava mai impieghi presso famiglie con figli abbastanza grandi da sapersi esprimere bene e quindi i genitori non sapevano che cosa facesse veramente, ma senza dubbio si preoccupavano quando, tornando a casa, trovavano il loro piccino in preda a forti dolori di stomaco, diarrea e pianto incontrollabile, se non addirittura lesioni e bruciature.
Alcuni sventurati che avevano avuto a che fare con lei l’avevano soprannominata Poison Ivy e sostenevano che somministrasse ai loro figlioli lassativi, farmaci o spezie molto forti mescolati alle pappe. Una coppia era certa che Ivy aveva bruciato la loro figlioletta di due anni con una sigaretta, anche se Ivy sosteneva che la piccina si era procurata le otto ustioni sulla pianta dei piedi prendendola dal posacenere e camminandoci sopra. Storie e scandali si sprecavano, tanto che Ivy alla fine decise di smettere di lavorare. E fu allora che cominciarono i suoi veri problemi.
Sola nella sua casetta, Ivy passava le giornate a bere porto da quattro soldi, fumare e mangiucchiare davanti alla televisione. Curva e ingobbita, soffriva di osteoporosi e di artrite cronica. Nessuno la cercava, nessuno aveva più bisogno di lei e lei odiava se stessa, la sua vita e chiunque ne avesse fatto parte. Tuttavia, non immaginava di poter diventare un importante caso di autocombustione umana.
Destino volle che Ivy fosse di umore particolarmente nero il giorno di Natale del 1987, quando indossò un vestito da casa di cotone con le maniche lunghe perché la temperatura si era un po’ abbassata, si preparò un cocktail di vodka e succo d’arancia e aprì una scatola di cioccolatini regalatale dal figlio che, pur vivendo abbastanza vicino a lei, non l’andava mai a trovare e le telefonava di rado. Coricatasi sul divano in finta pelle davanti alla televisione, bevve e fumò tutta la mattina. Fu proprio su quel divano che il suo corpo carbonizzato venne ritrovato due giorni dopo dalla signora cubana che abitava di fianco a lei, preoccupata che Ivy non avesse ritirato i giornali.
A occuparsi del caso fu il capo dell’Istituto di medicina legale della Virginia, la dottoressa Kay Scarpetta, allora agli inizi della sua carriera di anatomopatologo nella contea di Dade. Periti e poliziotti non avevano mai visto una cosa simile. Questo non deve sorprenderci, giacché dal 1600 a oggi le cronache registrano soltanto duecento casi di autocombustione umana. Il torace di Ivy era carbonizzato, senza più traccia di ossa, ma nella casa non era scoppiato alcun incendio. Sebbene all’epoca la combustione umana spontanea fosse un fenomeno ancora tutto da studiare, alla luce delle informazioni che abbiamo adesso non è difficile ricostruire i fatti.
Ivy, ubriaca, si accese una sigaretta, che le cadde di mano incendiandole il vestito di cotone. Avendo cominciato a bruciare, il suo grasso si sciolse impregnando la stoffa, che agì da stoppino. Probabilmente la donna bruciò a basse temperature per diverse ore prima di spegnersi, molto dopo la morte. È una fortuna che io abbia condotto alcune ricerche su questo raro fenomeno, perché capisco almeno due cose riguardo alla misteriosa morte del pescatore Caesar Fender, il cui corpo carbonizzato è stato di recente ritrovato in Canal Street.
L’autocombustione non è un fenomeno paranormale e la morte di Caesar Fender non vi ha nulla a che vedere.
In primo luogo, i residui bianco-grigiastri ritrovati nella cavità toracica indicano che l’incendio è stato appiccato da una fonte esterna. Fender non era né vecchio né sovrappeso, e non credo che soffrisse di osteoporosi. Ancor più importante, non indossava nulla di cotone, per cui è da escludere che si sia verificato il cosiddetto “effetto candela”. Non risulta che stesse fumando al momento della sua morte, anche se un testimone, che peraltro è indagato per lo stesso omicidio, dichiara di avergli visto nel taschino un accendino Bic, di cui però non è stata rinvenuta traccia né sul luogo del delitto né in obitorio.
Secondo i dati in nostro possesso ritengo che Fender sia stato ucciso con un lanciarazzi. Ho la sensazione che anche la dottoressa Scarpetta la pensi come me. Questo renderebbe la morte di Caesar Fender ben diversa da quella di Poison Ivy, che desiderava attirare l’attenzione su di sé a spese degli altri. Ivy soffriva di quella che viene definita sindrome di Münchausen per procura, una malattia psichica che spinge un adulto affamato di attenzione a fare del male a chi non può difendersi né spiegare che cosa succede, tipicamente bambini piccoli e infermi. Spesso si tratta di madri che desiderano farsi compatire o sentirsi indispensabili.
Portano la vittima in ospedale fra i singhiozzi. “Non capisco cosa sia successo al mio bambino” dicono ai medici. “Ha una diarrea incontenibile, è disidratato, non sta in piedi dalla debolezza! Sono disperata! Gli voglio tanto bene e ho già perso due figli. Se mi succede ancora perdo anche la voglia di vivere!”
Un’altra reazione tipica è quella di prendere la vittima fra le braccia, coccolarla e piangere.
“Povero il mio bambino” dice il responsabile del suo malessere. “Poverino! Come hai fatto a bruciarti i piedini? Non ti preoccupare, adesso ci sono qua io. Non piangere, ti prego. No, non piangere. Perché ce l’hai con me? Io non ho fatto niente, piccolino.”
Il bambino grida e strepita e, in preda al dolore e alla paura, si aggrappa a chi gli sta vicino, mamma, papà o baby-sitter, che così ottiene l’attenzione che cercava.
Io credo possibile che Major Trader, oltre a essere un pirata, soffra anche della sindrome di Münchausen per procura. Avvelena per strumentalizzare la sua vittima e per sentirsi importante. Se qualcuno di voi sa dov’è o dovesse incontrarlo, chiami subito la polizia. L’ultima volta che è stato visto, stava uscendo in retromarcia dal vialetto di casa sua, mangiando un panino. Da allora è sfuggito all’arresto. È considerato pericoloso e quindi, se lo vedete, non vi avvicinate a lui, perché è un individuo violento e incapace di rimorso. Ma soprattutto non accettate cibo da lui, specie dolciumi.
Mi raccomando, occhi aperti!