MUMMIE
di
Vigile Verità
Come molti, sono cresciuto pensando che le mummie fossero come appaiono nei film dell’orrore. Negli ultimi tempi, però, avendo svolto alcune ricerche archeologiche, ho constatato che sono tutt’altra cosa rispetto ai terrifici morti viventi avvolti nelle bende che si vedono al cinema.
Innanzi tutto non sono pericolose, a parte la probabilità – minima, peraltro – che diffondano malattie contagiose. Naturalmente la polvere che le ricopre e l’aria malsana dei luoghi gelidi e lugubri in cui sono conservate possono scatenare nei soggetti predisposti un attacco di asma, così come è possibile che un esploratore si faccia male urtando contro un sarcofago al buio, si perda in una piramide e muoia di fame e di sete, oppure incontri un profanatore di tombe e venga coinvolto in un alterco violento. Ma sono casi rari.
Si definiscono mummie anche i cadaveri che, in condizioni di estremo freddo o aridità – tipicamente nelle cantine o nel deserto – invece di decomporsi, seccano e si preservano per decenni, se non addirittura per secoli. Sebbene non si tratti di mummie in senso stretto, ormai anche medici e antropologi in questi casi parlano di mummificazione. Peraltro è molto più gentile definirli mummie che cadaveri raggrinziti e incartapecoriti somiglianti a scheletri ricoperti di cuoio.
La parola mummia deriva dall’arabo mumiyya, sostanza simile al bitume usata per imbalsamare, probabilmente dal persiano mum, cera, e per estensione indica qualsiasi persona o animale conservato con mezzi artificiali. Tuttavia, oggigiorno non è corretto chiamare mummia un corpo imbalsamato. Il motivo è semplice: i cadaveri imbalsamati con la formaldeide non sono necessariamente ben conservati. A distanza di un secolo, a seconda di dove è seppellito, un cadavere imbalsamato difficilmente sarà altrettanto ben conservato di una millenaria mummia egizia.
Nella nostra società non usiamo riempire il ventre del cadavere con mirra pura tritata, cassia e altri aromi, né riempiamo gli arti di bitume o sottoponiamo il corpo a un “bagno di natron” per settanta giorni prima di avvolgerlo in bende di lino spalmate poi di gomma, che gli egizi usavano per lo più al posto della colla. Un corpo imbalsamato, di questi tempi, non viene posto in un sarcofago di legno appoggiato contro il muro di un sepolcro fresco e asciutto.
Con ciò non voglio dire che non potete conservare i vostri cari in questo modo, sempre che riusciate a trovare degli scribi capaci di segnare sul corpo dove effettuare le incisioni per l’eviscerazione e dei parascisti in grado di praticarle con una pietra etiope ben affilata e disposti a vivere fuori città perché gli egizi non vedevano di buon occhio chi violava fisicamente i morti, nemmeno per mestiere, come ci spiega lo storico greco Erodoto. E se vogliamo parlare di prezzi, un’imbalsamazione di alto livello nell’antico Egitto costava un talento d’argento, cioè circa quattrocento dollari americani, a seconda del cambio e del tasso di inflazione.
Non molto tempo fa il mio interesse per le mummie mi portò in Argentina, dove alcuni scienziati stavano compiendo una serie di prove: risonanza magnetica,TAC e prelievi di tessuto per l’esame del DNA. Contattai il “National Geographic” per chiedere l’autorizzazione a visitare le mummie e ricevetti il permesso, a patto che non facessi anticipazioni di sorta prima della pubblicazione del loro servizio. Arrivai a Salta, una città nella regione nordoccidentale dell’Argentina diventata un centro di studi archeologici sulle civiltà precolombiane e inca, una mattina fresca e soleggiata. Lì mi unii agli archeologi che partecipavano alla spedizione su un vulcano andino al confine con il Cile, dove erano state portate alla luce tre mummie perfettamente conservate, risalenti a cinquecento anni prima. Si trattava di tre bambini inca che erano stati sacrificati agli dèi e seppelliti con oro, argento e vasellame pieno di cibo. Con una jeep percorremmo la strada sterrata che conduceva all’università cattolica, dove il piccolo edificio trasformato temporaneamente in laboratorio era protetto da guardie armate. I profanatori delle antiche tombe, come i pirati, restano una minaccia anche nella nostra società.
Mentre osservavo gli archeologi che tiravano fuori dal congelatore il primo fagottino e lo posavano su un tavolo coperto di carta sterile mi resi conto che l’esame dei resti congelati di due bambine e un bambino inca uccisi mezzo millennio prima non era poi così diverso da quello che faccio io quando indago su un incidente d’auto o un crimine violento. La differenza principale è che nell’archeologia lo studio non è finalizzato al bisogno di assicurare i colpevoli alla giustizia, bensì al desiderio di interpretare un passato misterioso ed elusivo, che nel caso specifico riguardava un popolo che non aveva lingua scritta ma raccontava la propria storia attraverso l’arte e la tessitura. Confesso che non ero tanto interessato a malattie, dieta, usi e costumi, quanto ad accertare se, quando erano stati sepolti vivi, i bambini erano privi di conoscenza a causa dell’altitudine e delle bevande alcoliche che il rito prevedeva che assumessero, come la chicha, cioè una birra di granoturco. Volevo sapere che cosa avevano pensato i tre bambini quando erano stati vestiti con tuniche riccamente intessute, copricapi di piume e gioielli e portati in processione in cima al cerro Llullaillaco, alto 6739 metri. Mi auguravo che non fossero in grado di capire, quando erano stati avvolti in pesanti tessuti e chiusi in profondi sepolcri che gli Inca avevano poi riempito di rocce e terra nella speranza di compiacere i loro dèi.
Ricordo bene le tre piccole vittime, specialmente il maschietto, che doveva avere più o meno otto anni quando era stato adornato di mocassini foderati di pelo e bracciali d’argento e mandato all’altro mondo con una fionda e due paia di sandali di scorta. La sua espressione era disperata e accusatoria, la posizione fetale, con le ginocchia al petto e le caviglie legate. Sospetto che fosse sveglio e nient’affatto contento della parte che gli era stata affidata, e ho la sensazione che fosse cosciente quando era stato sepolto vivo e che avesse opposto resistenza. Le femmine, che dovevano avere rispettivamente otto e quattordici anni, non erano legate e avevano l’espressione tranquilla. Stranamente, tuttavia, una delle loro tombe era stata colpita da un fulmine e quando la piccola mummia era stata esposta all’aria nel laboratorio di Salta, avevo sentito odore di carne bruciata. Io penso che l’Onnipotente volesse segnalare agli Inca che a lui non faceva per niente piacere che si seppellissero vivi dei bambini.
Le cose non cambiano, temo. Continuando le mie ricerche, approdai agli scavi di Jamestown e andai in pellegrinaggio fino in Gran Bretagna, cercando un collegamento fra i primi colonizzatori e gli avventurieri rimasti bloccati alla foce del Tamigi. Esplorai l’Isle of Dogs con il suo fango, le sue paludi, bar, parcheggi e il Millennium Dome, che si alza come un gigantesco uovo in camicia circondato da gru dorate, ma non trovai traccia né di John Smith né dei suoi compagni, né nessuno che ricordasse niente.
Neanche nei pub e nelle locande che visitai trovai qualcuno anche solo lontanamente interessato al legame che esiste fra Tangier Island e l’Isle of Dogs, visto che Tangier Island fu scoperta dal capitano John Smith nel 1608.
E mi avvicino a ciò che sto per dirvi, cari lettori, e che non è piacevole.
Tangier Island è stata riscoperta, ma non dai turisti interessati ai pasticci di granchio. Pare che qualche potente abbia deciso di usarla per le sue trame politiche, e questo è ingiusto, al di là del suo passato piratesco. Adesso mi occuperò della faccenda nei particolari.
Mi raccomando, occhi aperti!