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Il dottor Faux era legato sulla poltrona e bendato con un fazzoletto che puzzava terribilmente di pesce. Non aveva paura, ma era inquieto e irritato. Più passava il tempo, più si affievolivano le speranze di ottenere un pronto rilascio e cinquantamila dollari in contanti. Non sapeva bene che intenzioni avessero i suoi rapitori, ma conosceva la gente di Tangier Island come tendenzialmente non violenta.

Anzi, a quanto gli risultava, il peggior crimine mai commesso nella storia dell’isola era il furto di un salvadanaio dalla casa di Sallie Landon, avvenuto diversi anni prima. La donna vi conservava i risparmi di tutta la vita e ognuno dei suoi vicini ci metteva dentro qualcosa, in maniera tale che la poveretta non dipendesse solo dagli introiti delle ricette che vendeva da una cassetta di legno inchiodata a un palo del telefono vicino all’ufficio postale. Il colpevole non era mai stato identificato.

I rapitori del dottor Faux lo avevano spostato dallo studio medico in un’altra stanza all’interno dell’ambulatorio, dalla cui finestra, evidentemente aperta, sentiva passare biciclette ed entrare aria umida e zanzare. Chiedere aiuto non sarebbe servito, dal momento che tutti gli abitanti dell’isola si erano coalizzati contro di lui. Per la prima volta in quasi mezzo secolo, il dottor Faux ebbe l’agio di riflettere sulla propria vita e sospirò ripensando alle occasioni perdute e a quando aveva deciso di non fare il missionario in Congo. Dio l’aveva chiamato, e lui in pratica gli aveva sbattuto giù il telefono in malo modo. Così, adesso, Dio lo puniva. Proprio così. Si trovava prigioniero su un’isola sperduta nell’oceano, e se non si fosse fatto venire in mente una soluzione efficace i giorni del bengodi per lui sarebbero finiti.

«Scusami, Signore» pregò il dentista. «Avrei dovuto prevederlo. Mi sento come Giona, che non voleva andare a Ninive e che tu, di conseguenza, facesti finire in bocca a un grosso pesce che lo risputò proprio a Ninive. Ti scongiuro, non farmi risvegliare in Congo, Signore. O nello Zaire, come si chiama adesso. È già abbastanza difficile qui dove mi trovo adesso.»

Fonny Boy era seduto per terra con la schiena contro il muro nel magazzino dei medicinali. Aveva caldo, le punture degli insetti gli prudevano maledettamente ed era già stufo del suo turno di guardia, ma quando il dentista aveva cominciato a pregare ad alta voce, evidentemente ignaro della sua presenza, si era riscosso dalle sue fantasticherie in cui tirava su una nassa e trovava un forziere pieno d’oro e pietre preziose. La sua ossessione per i relitti in fondo al mare era probabilmente l’unico motivo per cui si alzava la mattina d’estate, quando non c’era scuola, e il sabato e la domenica, quando suo padre lo svegliava alle due e partivano per il molo sul golf-cart. Mentre mangiava pane e ostriche o pane e granchio per colazione, immaginava di tirare su una nassa per scoprire che era finita in un misterioso relitto ed era colma di monete d’oro e pietre preziose.

Nei negozi di souvenir dell’isola si vendevano libri di leggende pubblicati a livello locale, che Fonny Boy leggeva avidamente, interessato com’era alle storie di tesori sepolti. La sua preferita raccontava che nel febbraio del 1926, per una strana combinazione di venti e bassa marea, nella baia era spuntata la chiglia di un antico relitto, che Fonny Boy era certo fosse una nave pirata perché, insieme a splendide porcellane e altri manufatti rivenduti prontamente dai pescatori a un antiquario di New York, era stata rinvenuta anche un’azza.

Purtroppo la marea era salita rapidamente e il relitto non era stato mai più ritrovato. Ma Fonny Boy aveva tratto le sue conclusioni: se la nave dei bucanieri era sopravvissuta per secoli nella baia, altri venti o trent’anni non avrebbero fatto nessuna differenza. Da qualche parte doveva pur essere, anche se sfortunatamente nessuno ricordava con esattezza dove fosse stata avvistata in quel freddo inverno di tanti anni prima.

L’altra possibilità che Fonny Boy aveva preso in considerazione era che si trattasse del relitto del galeone spagnolo che nel 1611 aveva attraccato a Old Point Comfort, l’odierna Hampton, in Virginia. Alcuni storici dicevano che l’avesse mandato re Filippo III di Spagna per spiare la gente di Jamestown e riferire a Sua Maestà, altri ritenevano che fosse arrivato in Virginia dal Vecchio Continente alla ricerca di un’altra nave affondata in quei mari. Ma perché gli spagnoli si sarebbero dati tanto disturbo, se sulla nave non vi fosse stato qualche tesoro? Fonny Boy di questo era sicuro: non c’era molto da scoprire sul conto delle colonie, dove gli inglesi si barricavano nel forte perché gli indiani erano lunatici e a volte portavano loro il mais mentre altre volte li attaccavano con archi e frecce. Fonny Boy si era documentato, in proposito.

E stava dalla parte degli indiani, senza ombra di dubbio. S’immedesimava con loro e pensava che per i pellirosse i coloni dovevano essere come i forestieri che arrivavano a Tangier Island e che lui e gli altri isolani tolleravano a malapena, con diffidenza. Del resto, i forestieri avevano la cattiva abitudine di sentirsi superiori alla gente del posto. E perché, poi? In fondo erano loro ad aver bisogno dei taxi, a non sapere dove andare a mangiare o come coltivare il granoturco, per non parlare del fatto che dovevano pagare per vedere un granchio azzurro, nemmeno fossero animali esotici come i panda o gli anaconda.

Il dottor Faux si era finalmente zittito e il sole lambiva la baia. Ristoranti e negozi di souvenir stavano chiudendo perché erano le sei. Malgrado il dentista non potesse vedere nulla perché era bendato con il fazzoletto che puzzava di pesce, capiva che era sera perché la temperatura stava rapidamente calando. Era chiaro che non lo avrebbero rilasciato fino al giorno dopo almeno. Nessuno, neppure la guardia costiera andava sull’isola dopo una certa ora, quando la nebbia che arrivava dal mare nascondeva la spiaggia e la pista di atterraggio. Solo le barche dei pescatori si muovevano liberamente anche in condizioni di scarsa visibilità, ma al dottor Faux non sarebbe servito a nulla, visto che sapeva per esperienza che gli isolani erano cocciuti come muli e non cambiavano facilmente idea. Non lo avrebbero lasciato tornare a casa né quella sera né, forse, mai.

«Se mi tenete legato così, che cosa farete se vi verrà mal di denti?» chiese il dottor Faux ad alta voce, pensando di aver sentito qualcuno nella stanza pochi minuti prima. «Sei tu, Fonny Boy?»

«Sì» rispose il ragazzo, incominciando a suonare l’armonica.

«Vorrei sapere che cosa avete intenzione di fare, se non ti spiace» insistette il dentista.

«Dipende dal governatore.» Fonny Boy riferì quello che si erano detti i pescatori dopo aver preso il dentista come ostaggio. «Se non farà togliere le strisce dalle nostre strade, per lei la speranza è al lumicino. Siamo stufi della Virginia e non ne possiamo più di essere trattati a codesto modo. Non accettiamo di venire sbattuti in gattabuia perché andiamo troppo forte sui golf-cart né che il NASCAR trasformi l’isola in un circuito per fare quattrini a palate. E inoltre abbiamo in animo di vendicarci per come ci ha rovinato i denti fingendo di curarceli!»

NASCAR?» esclamò il dentista esterrefatto. «Sei mai stato a una corsa del NASCAR, Fonny Boy?»

«Sì, certo!» esclamò il ragazzo alzando gli occhi al cielo e facendo una smorfia a indicare che voleva dire il contrario.

«Be’, non so se con questo vuoi dire che ci sei stato oppure no, ma ti assicuro che il NASCAR non verrà mai su quest’isola e che a Tangier Island non farebbero quattrini a palate né le corse automobilistiche né nessun altro.»

«L’ha detto la polizia. E se il governatore non fa il suo dovere e non la smette di perseguitarci, formeremo una barriera di pescherecci intorno all’isola, bruceremo la bandiera della Virginia e ne innalzeremo una con un granchio azzurro sopra. E, comunque, lei sì che ne ha fatti di quattrini a Tangier Island!»

«Volete davvero sventolare la bandiera con il granchio azzurro e bruciare quella della Virginia?» Il dottor Faux era sbalordito e deciso a non prendere in considerazione le accuse del ragazzo sulla sua disonestà. «Scoppierebbe un’altra guerra civile, mio caro. Non capisci che conseguenze terribili avrebbe un’azione tanto ostile?»

«Capisco solo che non tollereremo altre ingiustizie» rispose Fonny Boy spaccone, con tono di sfida.

«Be’, ti dirò una cosa: vengo su quest’isola da tanti anni, ma non è un caso che non mi ci sia mai voluto trasferire» ammise il dottor Faux. «Se vuoi una chance nella tua vita, Fonny Boy, devi fare la cosa giusta. E, nel caso specifico, la cosa giusta è starmi a sentire.»

«E perché dovrei?» replicò il ragazzo riprendendo a suonare l’armonica per non far capire che era interessato a sentire che cosa aveva da dirgli il dentista.

«Perché potrebbe tornarti utile, ecco perché. Facendo la cosa giusta, potresti aprirti delle strade. La vita offre tante cose, Fonny Boy, ma se resti in questo posto, con la gente che mi ha chiuso qua dentro, rischi di finire nei guai e di passare il resto dei tuoi giorni su quest’isoletta a vendere granchi e souvenir ai turisti e a suonare l’armonica a bocca. Tu mi devi aiutare a scappare. Se mi darai una mano, potrei portarti a Reedville, farti lavorare nel mio studio e insegnarti a guidare un’auto come si deve.»

«Dovrei portarla a terra per un pugno di spiccioli?» domandò Fonny Boy sarcastico, e si mise a zufolare una versione irriconoscibile di Yankee Doodle.

«Tu sai chi è un reclutatore?» gli chiese il dottor Faux con gentilezza. «Se non lo sai, te lo dico io. Potresti andare in giro a cercare bambini bisognosi di cure dentistiche che i genitori non possono permettersi e indirizzarli al mio studio di Reedville. Per ogni bambino ti darò dieci dollari. Ti farò prendere la patente, ti procurerò una macchina. E così non dovremo più tornare in questa isola misera e sperduta. Mai più.»

Fonny Boy aveva bisogno di riflettere, e comunque era ora di tornare a casa per cena. Uscì dal magazzino dei medicinali e sbatté la porta in maniera che il dottor Faux capisse che se n’era andato. Evitò di dirgli che nel giro di poco tempo qualcuno gli avrebbe portato da mangiare e da bere e, con un lieve senso di colpa, montò in bicicletta e si allontanò fischiettando Yankee Doodle. Forse avrebbe dovuto essere più gentile con il dottor Faux e avvertirlo che la cena era in arrivo. Forse avrebbe dovuto cercare di comportarsi come gli avevano insegnato in chiesa, ma essere coinvolto in attività ribelli e paramilitari lo metteva in agitazione.

Era irritabile e si sentiva in vena di trasgressione. Suonò l’armonica più forte che poté e pedalò più veloce del solito, accelerando al massimo per superare le due strisce pitturate di fresco in Janders Road. Correva nell’aria frizzante della sera, al chiarore della luna, e non riconobbe nemmeno la zia Ginny che stava andando all’ambulatorio sul golf-cart.

«Ehi!» gli gridò questa quando si incrociarono. «Non si suona a quest’ora! Infastidisci i vicini!»

Fonny Boy, per tutta risposta, aumentò ulteriormente il volume, rammaricandosi di aver di nuovo buttato giù il tamponcino di cotone del dentista. L’ultima volta era rimasto stitico una settimana: il cotone gli si era spostato nella pancia con la lenta determinazione di un ghiacciaio ed era arrivato finalmente a destinazione mentre lui era in barca con suo padre e non c’era una toilette a pagarla oro.

Quando Ginny entrò nel magazzino dei medicinali pochi minuti dopo con un piatto di pasticcio di granchio e una fetta di pane spalmata di margarina, trovò il dottor Faux intento a pregare. «E così sia, Signore. A dopo. Sei tu, Fonny Boy?» chiese il dentista speranzoso. «Signore abbi pietà di me, fa un freddo boia, qua dentro. Com’è che di colpo è venuto l’inverno?»

«È il vento di mare. Le ho portato da bere e da mangiare.»

«Devo andare in bagno.» Il dottor Faux era in imbarazzo a parlare così davanti a una signora, per quanto le avesse trapanato ed estratto denti per anni.

Ginny gli diede il permesso di andarci, ma si fece promettere di tornare a sedersi appena finito e di farsi rimettere la benda sugli occhi.

«E come faccio a mangiare, legato e bendato?» protestò lui mentre Ginny gli toglieva il fazzoletto dagli occhi. Il dentista sbatté le palpebre nella fievole luce del magazzino.

«Io resto qui in attesa. Ma si ricordi che non sono venuta qui per parlare con lei o per fare i suoi comodi, mi ha inteso?» Il senso era che lo avrebbe lasciato andare in bagno da solo, ma non si sarebbe prestata a concedergli altri favori, né tantomeno a dargli informazioni.

Mentre il dentista si avviava, Ginny si sedette su uno scatolone di campioni gratuiti di sapone antibatterico a riflettere sugli autovelox, sulle corse automobilistiche e sui commenti del vigile di quella mattina riguardo alla dentatura degli abitanti dell’isola. Ne aveva parlato con alcune sue amiche da Spanky’s e sparso la voce per l’isola lasciando messaggi davanti alle porte, nei negozi e nei ristoranti. Lo aveva detto persino ai comandanti dei traghetti, i quali le avevano promesso di riferire le ultime notizie riguardo al NASCAR e alle frodi dentistiche ai visitatori in gita turistica da Crisfield e Reedville.

Il dottor Faux tornò sulla sedia e chiese a Ginny come andava la dentiera.

«Come al solito» gli rispose lei. «Mi duole un po’ dove mi ha tolto gli ultimi denti l’altra settimana. E ieri l’altro ho rigettato.»

«Se soffre di nausea e vomito, avrà l’influenza» le disse il dottor Faux, in malafede. «Ho l’impressione che la dentiera nuova faccia un po’ di rumore.»

«Sì, quando la pasta non tiene più, balla.»

«Se gliene serve un altro tubetto, lo prenda, già che è qui.» Il dottor Faux addentò famelico il pasticcio di granchio. «Sono nell’armadietto di mezzo dello studio.»

Ginny lo guardò mangiare in preda a un risentimento profondo che sconfinava nell’odio. Era una donna dai solidi principi religiosi e sapeva che odiare era peccato, ma vedendo il dentista che mangiava, così ingordo e indifferente, non riusciva a provare nulla di diverso.

«Ho sempre creduto che lei sapesse fare il suo mestiere» gli disse dopo un po’. «Ma adesso mi sono avveduta dell’errore e non mi fiderò più di un medico in vita mia. Abbiamo compreso tutti il suo inganno, sa? Mi sento così afflitta e sconsolata… Ci pensavo mentre rigovernavo prima di venire a portarle il desinare. Le abbiamo dato tutto ciò che potevamo, cibarie e buone parole, convinti com’eravamo che lei fosse qui per aiutarci. E lei ci ha ripagati con codesta moneta! Ci ha rovinato la bocca a tutti quanti per vil denaro! Per prendere più soldi dallo Stato!»

«Oh, signora mia, sa bene che non è così!» protestò il dottor Faux, cercando di blandirla. «Tanto per cominciare lo Stato non dà soldi ai medici senza prima verificare il loro operato. Sa benissimo che i controlli sono rigorosissimi. Non avrei potuto imbrogliare nessuno neanche se avessi voluto. E, comunque, giuro sulla Bibbia che non ho mai fatto niente di simile!»

«Bando alle ciance!» dichiarò Ginny, che era veramente al limite.

Che ardire! pensava amareggiata. Ma quando mai lo Stato aveva preso il traghetto per controllare come curava i denti il dottor Faux agli abitanti di Tangier Island, se quello che lui faceva era giusto o necessario? Cercò di scacciare l’odio dal proprio cuore ricordando che se non fosse stato per il dottor Faux lei non avrebbe avuto né dentiera né campioni gratuiti di pasta adesiva e collutorio. Forse sarebbe rimasta senza denti in assoluto, a parte quelli che il dottor Faux le aveva impunemente estratto con la scusa di un ascesso, problemi a una radice, smalto usurato, malocclusione e Dio sa cos’altro.

“Non voglio odiare nessuno” pregò in silenzio. Ma la verità era più pesante di un macigno.

La verità era che non si era mai accorta di avere problemi di denti tanto gravi, ma si era fidata del dottor Faux. La verità era che fino a qualche anno prima aveva denti sani e belli, e tutti si complimentavano per il suo bel sorriso. Ma se non aveva mai avuto una carie in vita sua! Com’è che, di punto in bianco, si ritrovava senza denti? Ripensandoci, mentre chiudeva a chiave l’ambulatorio e si avviava verso casa lungo la strada buia, ribolliva di rabbia. Quante volte il dottor Faux le aveva detto che gli abitanti di Tangier Island avevano i denti delicati perché si sposavano fra di loro? Quante volte aveva sentito di gente a cui erano saltate le otturazioni, era venuto un ascesso o si era rotta una corona senza nessun motivo?

Sempre più agitata e amareggiata, attraversò la strada calpestando una delle strisce appena pitturate dal vigile. Avrebbero dovuto tenere il dottor Faux prigioniero finché non fossero caduti tutti i denti pure a lui, ecco cosa avrebbero dovuto fare. Mettergli una bella dentiera che faceva rumore, ballava e gli faceva male alle gengive. Una bella dentiera che gli impediva di mangiare un sacco di cose. E poi fargli vedere una succulenta pannocchia, in maniera che gli venisse la nostalgia dei bei tempi in cui poteva ancora sgranocchiarla. Che provasse un po’ anche lui come ci si sentiva parlando al telefono e facendo clic-clac come le nacchere!

«Oh, Ginny, cosa mai ti prende? Stai piangendo!» Appena Ginny entrò in casa sbattendo la porta, suo marito si rese conto che singhiozzava.

«Rivoglio i miei denti!» gridò lei isterica.

«Non ti ricordi dove li hai messi?» chiese lui premuroso, guardandosi intorno alla ricerca del barattolo di marmellata in cui la moglie metteva a bagno la dentiera. «Perdindirindina, Ginny!» esclamò poi inforcando le lenti bifocali. «Ce li hai in bocca, moglie mia!»