Vedendolo addormentato sul divano con un rivolo di bava che gli colava sul mento e con quella mezza bottiglia di Pampero stretta al petto, non gli avreste dato una lira. E invece quello era un uomo importante.
Nato nel 1960 a Città di Castello da una famiglia di artigiani del legno. Liceo classico a Perugia. Laurea in Medicina con centodieci e lode all’Università di Firenze. Specializzazione in Chirurgia plastica all’Università di Burlington, Master in ricostruzione maxillofacciale con il professor Roland Chateau-Beaubois a Lione. A trentacinque anni assistente primario al Bambin Gesú e a quaranta primario della clinica privata San Roberto Bellarmino alle falde di Monte Mario.
Il suo nome era Paolo Bocchi, professor Paolo Bocchi.
Il professore dormiva su un divano di un attico da cui si vedevano i mosaici di Santa Maria in Trastevere e piú in là Sant’Andrea della Valle che spuntava tra le fronde ingiallite dei platani del lungotevere.
Il telefono attaccò a suonare e ci mise circa tre minuti a eccitare il sistema nervoso centrale del professore, intasato di cocaina e rum.
Bocchi estroflesse un braccio, tastò il pavimento alla ricerca del cordless e lo afferrò emettendo un dittongo gutturale che poteva essere scambiato per un sostantivo celtico ma che voleva essere un semplice pronto.
La voce all’altro capo del filo era decisamente piú dinamica. – Professor Bocchi, sono la segretaria della clinica San Bellarmino, la chiamo solo per ricordarle che alle dieci e mezza lei avrebbe un intervento di mastoplastica additiva. Se ha problemi ad arrivare il dottor Cammarano è disponibile a sostituirla.
Bocchi di quel monologo afferrò tre concetti:
1) doveva rifare le zinne a qualcuna;
2) l’intervento non era domani ma oggi;
3) quel figlio di puttana di Cammarano era pronto a metterglielo nel culo.
Diede una risposta rapida e concisa: – Arrivo –. Abbassò il telefono e finalmente aprí gli occhi. Lo sguardo gli cadde sul tavolinetto di Gae Aulenti su cui giacevano tre piste bianche e un sacchetto di cellophane che conteneva, piú o meno, un chilo di cocaina purissima proveniente dalla Cordigliera orientale a centocinquanta chilometri da La Paz.
Col movimento plastico e sinuoso che solo un serpente corallo ha quando punta la preda, Bocchi strisciò verso il cristallo e con un sapiente colpo di narice inalò una delle tre piste.
Ora stava decisamente meglio.
Si osservò.
I mocassini di Ferragamo erano coperti di fango come il risvolto dei pantaloni. Sul maglioncino di cotone Ralph Lauren aveva decine di forasacchi e dai calzini gli usciva una pianta di ortica. Le tasche erano piene di terra.
Dove cazzo sono finito ieri sera? si domandò.
Si ricordava di essere arrivato sulla terrazza dell’Hotel ES insieme a… a quel punto la memoria s’inceppava e dopo c’era il buio.
Comunque la sensazione complessiva era di aver passato un’ottima serata.
Barcollò fino al terrazzo. Un bel sole, sopra i tetti, non aveva ancora incominciato ad arrostire la città. Giú, nel vicolo del Cinque, c’era il casino di sempre. Clacson, voci, cani. Non sopportava piú Trastevere. Una villa a Saxa Rubra era il suo prossimo obiettivo.
Si tolse tutto quello che aveva addosso e cominciò a lavarsi con la pompa per innaffiare le piante.
Dalla conformazione fisica del corpo del professor Bocchi si intuiva che in gioventú aveva fatto sport. Era stato un discreto giocatore di tennis e aveva vinto diverse volte il torneo Aureggi di Borgo Sabotino. Ora però il tono muscolare si era rilassato. L’unica tensione che gli restava era quella del ventre dilatato e ovale come un pallone da rugby. I capelli, che normalmente amava portare indietro impastati di gel, erano pieni di terriccio rosso. Gli occhi piccoli e infossati sotto la fronte squadrata come un mattone erano divisi da un naso che lui definiva importante, ma che era solo una protuberanza grossa e schiacciata.
Mentre si asciugava contro il telo dell’ombrellone, lo sguardo gli scese lungo la facciata della casa di fronte, fino all’angolo del vicolo sulla vetrina del vecchio snack-bar Quattroni. In piedi c’era un tipo che a prima vista sembrava un turista svedese. Biondo, pantaloncini corti, zainetto e Birkenstock, faceva finta di leggere una mappa di Roma.
– Bastardi! – Anche da turisti nordeuropei si travestivano. – Credete di incularmi cosí? – Quello non era un turista, ma un agente della narcotici.
Lo tenevano sotto controllo.
Nell’ultimo mese aveva già individuato almeno cinque agenti in borghese che lo spiavano da sotto il bar Quattroni: una finta massaia carica di buste della spesa, uno spazzino, un punkabbestia con tre cagnacci (chiaramente antidroga), un elettricista che fingeva di cambiare la lampadina del lampione stradale, e sicuramente Ciarin, la sua filippina a ore di cui si fidava meno di un Boeing della Egyptian Airways.
Si vestí di corsa con un completo fresco lana di Comme des Garçons. Si infilò il Rolex.
Le nove e trentacinque!
Doveva precipitarsi in clinica. Non si ricordava minimamente se oggi Ciarin sarebbe venuta a fare le pulizie. E se approfittando della sua assenza saliva con una squadra antidroga e coi cani?
Non poteva lasciare la coca a casa. Si fece le due piste, ripassò avanti e indietro il cristallo con la lingua, afferrò il pacco di cellophane, se lo mise nella tasca della giacca e uscí di casa.
Dove cazzo stava la Jaguar?
Buio.
Vide passare una Multipla con sopra la targhetta «Taxi». Sollevò una mano.
Il lungotevere era intasato come lo scolo di un cesso della stazione Tiburtina. Le mani gli sudavano. Ne sollevò una. Sembrava avesse il Parkinson.
Dietro c’era una massa compatta di lamiera strombazzante, uno scooterone si era appiccicato come un tafano al culo del taxi fin da ponte Garibaldi. Lo guidava una ragazza, cosí lontana dal classico poliziotto in borghese da essere vera. E perché non svicolava tra le macchine come ogni cristiano dovrebbe fare?
Ora però doveva bloccare il tremore che dalle mani si era diffuso alle spalle e cominciava ad azzannargli il collo. Era improrogabile l’assunzione di un’altra dose anche minima, sennò non sarebbe mai riuscito a operare.
Si accucciò e infilò una mano in tasca. Affondò la proboscide direttamente nella busta e fece un tiro deciso.
Svenne.
– Dottò? Dottò!
Il chirurgo si riprese quando il taxi lo depositò davanti alla clinica. Mollò cinquanta euro al tassista e scese.
Gli arti gli si erano inchiodati come se gli avessero iniettato del Vinavil nelle vene. Ginocchia e gomiti erano rigidi come profilati d’alluminio. Barcollò dentro la reception. Avanzava lento, ondeggiando come Robocop dopo uno scontro a fuoco.
Per darsi un tono rilassato, si era infilato tra i denti irrigiditi dal rictus un Cohiba Lanceros che casualmente si era ritrovato nel taschino della giacca. Con un saluto romano dette il buongiorno alle signorine della reception e prese l’ascensore.
Il corridoio che portava alla sala operatoria non finiva mai. Paolo Bocchi lo percorse con il cuore che gli pulsava nei timpani. In gola aveva il fiele.
Neanche un caffè ho preso, si disse incrociando un portantino nero che accompagnava una vecchia sul girello. – Buongiorno, dottore.
Con un sorriso stirato Bocchi ricambiò il saluto.
Chi cazzo è?
Un altro infiltrato.
Entrò nello spogliatoio e ci trovò Sara, la sua assistente di fiducia. – Ah, ce l’hai fatta.
– Che vuoi dire?
– Niente. Con questo traffico…
Anche Sara, con cui aveva lavorato per dieci anni, era passata dall’altra parte. Puttana! Anche lei preferiva quel frocetto di Cammarano.
Era solo, circondato da schiere di nemici.
Si sterilizzò le mani mentre l’infermiera gli infilava il camice. – Non si vuole levare la giacca, professore?
– Col cazzo –. E si toccò la tasca gonfia.
Gli misero i guanti, la mascherina e la cuffia.
Prese un bel respiro e a mani alzate entrò nella sala operatoria.
Una bella donna giaceva nuda e anestetizzata sul tavolo operatorio. Era lunga, bianca e magra.
– Chi è? – chiese Paolo Bocchi all’anestesista.
– Simona Somaini. L’attrice della televisione.
– Che problema ha col naso?
Durante il tragitto in taxi la mente del chirurgo, come uno scolapasta, non aveva trattenuto quello che gli aveva detto la segretaria della clinica.
L’équipe lo guardò imbarazzata, poi Sara gli si avvicinò. – È una mastoplastica additiva –. E indicò due enormi protesi in silicone pronte sul carrello.
Aveva poco seno in effetti, ma erano due tette niente male.
Forse bisognava cercare di farla ragionare. Rischiava una lordosi con tutto quel peso davanti.
Ma ’sti cazzi.
Il chirurgo chiuse gli occhi. Le mani gli si rilassarono e tornarono agili come quelle di Glenn Gould durante le Goldberg Variations.
Le ansie, le paure, le angosce gli finirono in un cassetto della mente.
– Bisturi.
Al contatto dell’acciaio con i polpastrelli fu di nuovo il grande chirurgo, quello che aveva restituito la gioventú a schiere di babbione romane. Si muoveva agile e aggraziato come Oriella Dorella nel Lago dei cigni.
Con un colpo di fioretto incise un lungo taglio sotto il seno sinistro e incominciò a scavare la ghiandola.
Gli assistenti e le infermiere riconobbero il tocco del maestro.
Poi, cosí come era cominciato, l’incantesimo svaní. Le mani tornarono rigide e sbatté con la punta del bisturi contro una costola. Sudava e il sudore gli finiva sugli occhi accecandolo. – Infermiera, per favore, mi asciughi la fronte!
– Non è troppo larga l’incisione? Si vedrà la cicatrice… – osò domandare l’assistente.
– No, no… È meglio cosí. La protesi è grande.
Alzò lo sguardo verso l’équipe. Li guardò in faccia a uno a uno. Lo sapevano… Sapevano tutto di lui. E la cosa che piú gli fece male fu capire che avevano paura. Paura che potesse fare del male alla donna. Riprese a lavorare stringendo i denti e desiderando come mai nella sua vita un’altra striscia di cocaina.
A un tratto entrò un’infermiera, gli si avvicinò e gli disse in un orecchio: – Professore, ci sono due persone che le vogliono parlare.
– Ora? Ma non vede che sto operando? Chi sono?
Imbarazzata, l’infermiera sussurrò: – Poliziotti… Dicono che è molto urgente…
La stanza prese a ondeggiare. S’aggrappò alla coscia della paziente anestetizzata per non finire steso a terra.
– Professore, che succede?
Fece segno che andava tutto bene. Si girò verso l’infermiera: – Dica ai poliziotti che non posso…! Sto operando, cazzo…
Bocchi si rese conto di quanto aveva aspettato quel momento. Finalmente era tutto finito. Ora ci sarebbe stata solo una bella comunità dove disintossicarsi e intrecciare canestri. La cosa non gli dispiaceva neanche tanto.
Di fronte all’inevitabile è meglio disporsi bene, diceva suo padre. Sante parole.
Una vocina antipatica però gli sussurrava: Bello, dove credi di andare? Guarda che addosso hai tanta coca che come minimo ti prendi dieci anni.
– Professore che le succede? Si sente male? – Le parole dell’assistente lo risvegliarono.
– Scusatemi… mi passi la pinza numero cinque, – balbettò.
Gliela diedero e cominciò, trattenendo a stento le lacrime, a rimuovere tessuto connettivo.
Forza stronzo, fatti venire un’idea. Forza.
E l’idea venne.
Il cervello glassato di coca del chirurgo la cacciò fuori cosí, spontaneamente, quasi che la fatina buona dei tossici gliel’avesse suggerita.
Fece un bel respiro e chiese all’assistente di prendere del filo che si trovava nell’altra sala operatoria, allo strumentista disse di controllare se l’apparecchio della pressione sanguigna funzionasse bene, poi mandò l’infermiera a prendere la cartella clinica della paziente.
E ci fu un attimo, un istante, che fu solo.
Lui e l’attrice.
Prese la protesi sterili di silicone e se la cacciò nella tasca sinistra della giacca. Intanto, da quella destra, tirò fuori la busta di coca e la infilò dentro la tetta della Somaini.
Perfetta.
L’operazione proseguí rapida, senza complicazioni. Incise l’altro seno, infilò la seconda protesi, quella vera, e con mano ferma le sistemò entrambe sotto le ghiandole mammarie.
– Bene! Abbiamo finito. Suturate e portatela in sala rianimazione, – disse il chirurgo. Poi: – E ora andiamo a vedere che cosa vogliono questi signori.
Due anni dopo
Sotto un cielo pesante come una padella di ghisa, le porte del carcere di Rebibbia si aprirono e ne uscirono tre uomini.
Il primo era Abdullah-barah, uno scippatore algerino recidivo che s’era fatto sei mesi. Il secondo era Giorgio Serafini, un lavoratore della Siae che s’era stornato a suo favore i diritti d’autore della canzone Gioca Jouer del dj Claudio Cecchetto. Il terzo era un chirurgo plastico e il suo nome era Paolo Bocchi.
La cosa incredibile è che non si era fatto quei due anni per detenzione e spaccio di stupefacenti. Nel 1994 Paolo Bocchi aveva sottratto del denaro agli aiuti umanitari per i bambini mutilati della Cambogia. La cifra ammontava a diversi miliardi delle vecchie lire, che lui aveva rinvestito nell’ordine:
1) un attico a Trastevere;
2) un dammuso a Pantelleria ristrutturato dalla nota design di interni Scintilla Greco;
3) un Riva Superacquarama del ’72 che aveva affondato nel lago di Bracciano;
4) una quantità imprecisata di sostanze stupefacenti;
5) per finire, l’iscrizione vitalizia al circolo canottieri Biondo Tevere.
Dal carcere uscí pulito dalla droga e da ogni suo bene.
Era un uomo povero.
In quei due anni, mentre il chirurgo marciva in una cella che divideva con tre mafiosi cinesi, l’attrice Simona Somaini, grazie anche all’operazione al seno, era diventata un astro della fiction televisiva italiana.
È storia della recitazione la sua interpretazione di Maria Montessori nell’omonimo sceneggiato in settantasei puntate che tenne incollata una nazione per otto mesi. Grazie al piccolo televisore cinese Psaoin, Bocchi non se ne perse una. Rimaneva incollato ai seni stupefacenti dell’educatrice romana divorandoli attraverso il tubo catodico. Ma la sua non era una primitiva pulsione sessuale.
Lí dentro sballonzolava il suo tesoro.
Sopra la branda teneva appeso il calendario di «Max» dove la Somaini, senza troppe remore, mostrava il suo décolleté esagerato. Bocchi aveva cerchiato con l’evidenziatore la tetta sinistra. A Rebibbia era considerato il fan numero uno della Somaini. Tutti i detenuti gli passavano tonnellate di rotocalchi rosa dove l’attrice veniva seguita nel suo percorso sentimentale. L’unica altra lettura che si era concesso durante la prigionia era il Conte di Montecristo di Dumas.
Bocchi uscí dal carcere con addosso quindici chili in piú. La rota secca che s’era fatto in cella, il cibo di merda ed ettolitri di sakè lo avevano gonfiato. La sua pelle aveva il colore delle statue di madame Tussaud. I capelli grigi se li era rasati a zero. Indossava lo stesso completo di frescolana con cui era entrato. Ci stava dentro a malapena. Tutto quello che gli rimaneva era un biglietto dell’Atac, regalo di Ling Huao, trentamila lire, oramai fuori corso, una busta piena di «Novella 2000» ed «Eva 3000» e un piano infallibile per recuperare il suo tesoro.
Una volta rientrato in possesso di quello che gli apparteneva, si sarebbe involato verso un paradiso tropicale dove passare il resto dei suoi giorni.
Prese la metro e scese al Circo Massimo. Erano passati due anni, ma Roma faceva schifo lo stesso.
Si incamminò verso San Saba. Arrivò in via Aventina al numero 36. Sulle targhette del citofono c’erano solo gli interni, suonò al 15.
Gli rispose la voce di una filippina: – Che vole?
– Sono un amico di Flavio… è in casa?
– Flavio chi? No Flavio!
Un portiere elegante e con l’incedere aristocratico di Alec Guinness lo osservava disgustato come se fosse uno stronzo di cane.
In quello sguardo penetrante come una tomografia assiale, Paolo Bocchi vide la sua condizione.
Un dropout, un emarginato, uno che nella scala sociale era solo un gradino sopra un senegalese appena sbarcato a Lampedusa.
Lui, il chirurgo dei vip, adesso si sentiva intimorito davanti a un portiere. Mai lo avrebbe potuto immaginare.
– Posso esserle utile?
– Sono un amico di Flavio Sartoretti… – lo liquidò Bocchi.
Il portiere cominciò a ondeggiare la testa facendo segno di no.
– No che?
– Non abita piú qui… – Girò le spalle e se ne andò.
Bocchi, con un gesto oramai abituale, si aggrappò alle sbarre del cancello. – E dove abita adesso?
Il lord alzò le mani al cielo e rientrò nella guardiola.
Flavio Sartoretti era un attore comico di fama nazionale. Grande imitatore, cabarettista e attore di film impegnati, era esploso quando era diventato una colonna portante del programma Buona Domenica e mattatore indiscusso del Maurizio Costanzo Show.
Flavio Sartoretti e Paolo Bocchi si erano conosciuti frequentando il Body and Soul, un centro-benessere a Portuense, dove dietro peeling e massaggi ayurvedici si nascondeva un giro di zoccole russe, spaccio di stupefacenti e vendita abusiva di armi.
Lí i due si scopavano insieme Irina, si tiravano la qualsiasi e s’erano comprati due kalashnikov coi quali andavano a sparare alle pecore a Maccarese.
Il momento di massima popolarità, Flavio Sartoretti lo raggiunse grazie all’imitazione irresistibile del centravanti della Roma Paco Jiménez de la Frontera, comprato per trenta miliardi dal River Plate, Pallone d’oro nel 2001 e idolo indiscusso della capitale.
Poi, nel 2002, Flavio Sartoretti s’era dissolto come un calcolo renale bersagliato dai campi magnetici. E di lui non si era saputo piú niente.
Dopo una ricerca estenuante, Paolo Bocchi lesse su un trafiletto del «Gazzettino dell’Agro Pontino» che il suo vecchio amico si sarebbe esibito quella sera alla Sagra del raviolo all’astice a Nettuno.
Paolo Bocchi smontò dal pullman della Cotral giusto pochi minuti prima che il comico finisse il suo recital di fronte a una comitiva di anziani della casa di riposo Villa Mimosa.
Sartoretti non fu particolarmente felice di rivedere il suo vecchio compagno dei tempi d’oro, ma accettò di andarsi a mangiare qualcosa alla Pagoda azzurra, un ristorante cinese al centoduesimo chilometro della via Pontina. Di fronte alle zuppe agrodolci i due si guardarono. Ognuno pensò che l’altro era invecchiato malissimo.
– Ma che cazzo t’è successo? – si chiesero all’unisono.
Paolo Bocchi gli raccontò che gli ultimi due anni li aveva passati in Afghanistan, dove s’era unito a Medici Senza Frontiere per curare gli orrori della guerra. Sartoretti lo guardò. – Incredibile… anch’io! Sono partito per l’Angola per far ridere i bambini negli ospedali… ho capito che si vive solo una volta ed è importante far sorridere chi ne ha realmente bisogno…
Ordinarono pollo alle mandorle e calamari al bambú.
Mentre s’ingozzavano Bocchi decise che era arrivato il momento di passare alle cose serie. – Ho un piano… per fare un po’ di soldi… e pensavo…
– Quanto? – lo interruppe Sartoretti.
– Diecimila euro!
– Che devo fare?
– Mi devi aiutare a entrare in contatto con Simona Somaini.
– L’attrice, certo, – fece Sartoretti tirando su un anello di calamaro dalla broda calda. – Ma sai… stando in Angola i contatti…
– Basta con le cazzate! Non serve che tu la conosca! Adesso ti spiego… Ho studiato a lungo la biografia della Somaini. Ha una vita apparentemente perfetta. Successo professionale, dopo il premio Salerno per Sms dall’aldilà è la regina della fiction. È piena di soldi. Presenterà Sanremo con Samantha De Grenet. Tu dirai, cosa le manca? Non ci crederai, ma qualcosa le manca per chiudere il cerchio. Una storia sentimentale da smuovere i rotocalchi. Quella che si è fatta con Michael Simone, il pierre dell’Excalibur, è una stronzata montata dai giornali. Quella con quel playboy… Graziano Biglia, un’altra bolla di sapone. A Simona le manca solo una cosa: il calciatore! – e indicò Sartoretti.
– Che cazzo c’entro io?
Bocchi annuí sornione: – C’entri, c’entri eccome. Mi ti trasformi da Paco Jiménez de la Frontera e la inviti a cena!
Al nome del centravanti argentino, il comico per poco non si strozzò con una scaglia di bambú. – Scordatelo, – bofonchiò. – Non c’è cifra per una cosa del genere.
Flavio Sartoretti, dopo due teiere di sakè caldo, confidò all’amico che il 25 marzo 2002, alle 16,30, era andato dal suo dentista, il dottor Froreich a via Chiana, per farsi un’ortopanoramica.
Mentre era in sala d’aspetto avevano fatto irruzione nello studio quattro ultrà: il Bresaola, Pitbull, Rosario e Undertaker.
Il Bresaola, che sul bicipite destro aveva tatuata la lupa coi gemellini e su quello sinistro i primi dodici esametri dell’Eneide, l’aveva acchiappato per la collottola e sbattuto nel portabagagli di una Ford Ka. Quando l’avevano tirato fuori si era trovato sul vaporetto Civitavecchia-Olbia.
Lo avevano trascinato per i capelli sul ponte di prua e lí aveva preso la parola Rosario, il teologo del gruppo.
«L’immagine di Paco Jiménez de la Frontera non è riproducibile. Né con i disegni, né tanto meno con le tue pagliacciate. La tua imitazione è un atto blasfemo! E secondo la legge coranica vai punito!» E lí gli avevano legato la caviglia a una cima e gli avevano fatto fare, alla vecchia maniera dei bucanieri, quattro giri di chiglia.
Quando lo avevano tirato su piú morto che vivo, Undertaker, che sulla schiena aveva tatuato il grande raccordo anulare compreso di uscite e distributori, gli aveva gentilmente suggerito che l’imitazione del mitico centravanti non andava piú fatta.
Paco Jiménez non si divertiva.
«D’ora in poi dovrai essere invisibile e silenzioso come una loffa», gli aveva consigliato Rosario.
«Scordati la televisione. Manco le televendite», aveva ringhiato Pitbull.
La stella di Sartoretti da quel giorno si era eclissata.
– Cazzo… questa non ci voleva… e per ventimila euro?
– No no… io non lo posso fare. Quelli m’ammazzano.
– Ma guarda che non ti vede nessuno. La devi solo invitare a cena fuori. Poi le metti nel bicchiere una pasticca di Roipnol. Al resto ci penso io.
Il resto consisteva nell’operare l’attrice e riprendersi la sua cocaina. Dopo avrebbe acchiappato un bell’aereo e si sarebbe sbattuto per il resto della vita su una spiaggia corallina dell’arcipelago delle Mauritius, ricco e felice.
Bocchi ci mise esattamente tre ore e ventitre minuti a convincere il comico.
A venticinquemila euro Sartoretti capitolò.
Simona Somaini stava cercando di leggere la sceneggiatura di La dottoressa Cri 2, il seguito della fortunata serie televisiva che la vedeva protagonista assoluta.
Non le piaceva per niente. Troppo tecnica. Tutti quei nomi scientifici: epidurale, mammografia, cartilagini, Saridon, le facevano esplodere la testa. Mancava l’amore, il sentimento, le grandi passioni. Quello voleva il suo pubblico. Non storie di aborti, drogati e portatori di handicap.
Chiamò per la quarta volta la sua agente, Elena Paleologo Rossi Strozzi. – Ele… non va! Pare de sta’ al Cottolengo! Spastici, zoppi, mongoloidi, tossici… e che è?
– Simo, stai calma! Ho una grande notizia. Sei seduta?
L’attrice si guardò. Era sulla cyclette. Quindi era seduta.
– Sí. Dimmi! Hollywood?
– Meglio!
– Oddio il Telethon!
– Di piú…
– Ti prego dimmi! Lo sai che non mi piace stare sui rovi ardenti!
– Hai un invito a cena…
– E capirai. Chissà che mi credevo.
– Non vuoi sapere con chi? Paco Jiménez de la Frontera.
L’agente sentí un tonfo seguito da un silenzio preoccupante.
– Simo ci sei?
La Somaini, strisciando a terra, riafferrò il cordless.
– Non mi prendere mai piú per il culo! Non lo sopporto!
– È vero! Dopodomani. Simo, è fatta! Questa è la svolta! Ai fotografi ci penso io!
L’attrice scattò in piedi come se le avessero infilato un petardo su per il culo.
– Che mi metto? – urlò. – Non ho niente! Oddio!
– Simo, domani sguainiamo le carte di credito e non facciamo prigionieri!
– Va bene… va bene, – rantolò. – Mannaggia che non ho il tempo per tirarmi un po’ su gli zigomi…
Era un piano complesso, quello architettato da Bocchi.
Per prima cosa doveva recuperare una macchina di lusso degna del grande calciatore argentino.
I suoi compagni di cella cinesi lo avevano indirizzato da un certo Huy Liang, che senza una parola gli diede le chiavi di una 131 Mirafiori del ’79 verde bottiglia.
Poi Sartoretti, con la voce roca di Paco, prenotò un tavolo per due alle Regioni, il piú esclusivo locale della capitale gestito dall’imprevedibile chef bulgaro, Zóltan Patrovič, grande amico della Somaini.
Nella perfetta organizzazione incapparono in uno scoglio imprevisto: Jiménez vestiva solo Prada.
E Sartoretti nel suo monolocale a Forte Boccea possedeva solo una tuta acetata Sergio Tacchini e uno smoking tempestato di paillettes.
A quel punto il look fu studiato da Mbuma Bowanda, un pastore sudanese di sessantatre anni squamato da una devastante psoriasi, che al momento divideva con Bocchi uno scatolo abitativo sotto ponte Sisto. L’unico bene di Mbuma era il suo vestito da cerimonia di iniziazione alla vita pastorizia, stipato gelosamente in una busta del GS: una lunga tunica di cotone grezzo decorata con fantasie rupestri. Secondo Mbuma e Paolo Bocchi, Sartoretti era elegante e casual nello stesso tempo.
– Ma siete sicuri? – disse osservandosi nello specchio putrido del fiume.
Oltre alla tunica africana indossava le vecchie College di Bocchi, che furono preferite a un paio di ciabatte arenatesi sull’argine del Tevere. Per finire, gli tinsero i capelli di un biondo Barbie con l’ammoniaca fregata all’addetto delle pulizie del Bambin Gesú.
Era perfetto.
Elena Paleologo Rossi Strozzi se ne stava sul divano, sommersa dallo shopping selvaggio. Come un’orda di Visigoti armati di carta di credito avevano depredato le vetrine di mezza via Condotti.
La Somaini, nuda, girava per il salotto. Chiunque con un po’ di testosterone nelle vene avrebbe massacrato la famiglia pur di stare lí.
Aveva due cosce lunghe come la tangenziale est, che terminavano in due emisferi che sembravano progettati da Renzo Piano. La vita era stretta e gli addominali sagomati proseguivano fino al pube coperto da una strisciolina di lanugine color malto scozzese. La chioma folta, lucente e ribelle incorniciava il suo viso dove risaltavano le labbra carnose color susina e gli occhi neri di una berbera.
Ma tutto questo impallidiva di fronte a quel capolavoro della chirurgia moderna che erano le sue bocce. Floride e sproporzionate, piantate sul busto come due trulli pugliesi.
Elena Paleologo Rossi Strozzi era sanamente eterosessuale, ma una cosina se la sarebbe fatta con la sua cliente preferita.
Si guardò. Magra come un mezzofondista etiope, piatta come l’elettrocardiogramma di un morto e alta come un fantino della Contrada del Bruco, si chiese perché il Padreterno, nella sua infinita perfezione, distribuiva i suoi doni a cazzo di cane.
– Allora, che mi metto? – chiese Simona alla sua agente.
– Il meno possibile, tesoro!
Alle 19,42 Sartoretti-Jiménez era pronto.
Montò sulla 131, Bocchi e Mbuma lo spinsero sul lungotevere. Ingranò la seconda e partí.
L’attico di Simona Somaini era nel prestigioso quartiere Parioli, in via Cavalier d’Arpino, che, grazie a Dio, era in discesa.
Sartoretti suonò al numero 15. Rispose la voce gracchiante di una filippina. – Pronto?
– Soy Paco.
– Siniora scende subito.
Il cuore del comico si arrampicò nell’esofago. Camminando su e giú si ripeteva: «Ce la puoi fare. Ce la puoi fare!»
Anche la Somaini in ascensore si ripeteva: «Ce la puoi fare. Ce la puoi fare!» Si diede un’ultima occhiata allo specchio. Nemmeno alle voci giovani di Castrocaro aveva osato tanto. Sotto un tubino di carta velina era praticamente nuda. Le porte dell’ascensore si spalancarono. Prese un respiro e tacchettando attraversò l’atrio di marmo e tromp l’œil.
Quando la incrociò l’ingegner Caccia, che tornava con il suo alaskan malamute dalla pisciatina serale, sbandò e per poco non gli saltò il bypass.
L’attrice aprí il cancello e uscí in strada. Non vide Paco. Davanti a lei c’era solo un uomo travestito da negro. Si chiese se fosse carnevale, ma era giugno. Eppure il viso assomigliava a quello di Jiménez. Solo che sembrava fosse reduce da un attacco di tifo petecchiale. Se lo ricordava decisamente piú attraente e in forma. E poi era sicura avesse i capelli biondo naturale, non ossigenati e cosí radi sulla fronte.
Ma non era quello il momento di farsi problemi.
Il calciatore le si avvicinò. – Olà… chica…
– Ciao Paco. Sono un po’ emozionata a conoscere un Pallone d’oro –. Gli si avvicinò per farsi dare un bacio sulla guancia. Paco si limitò a stringerle la mano.
– Tambien tambien… vamos…! – e le indicò una cosa poggiata su quattro ruote parcheggiata in seconda fila.
Simona non riuscí a mascherare lo sconforto.
– No te gusta? Es un carro vintage. Es muy de moda a Londra… saves quanto costa?
Simona scosse la testa.
– Mas… muy mas!
La Somaini salí perplessa sulla 131. Fu aggredita da un tanfo di aglio e fritto che le fece tornare su lo Jocca che aveva mangiato due giorni prima.
A motore spento Paco fece scivolare la macchina giú per la discesa. Poi con un gesto deciso ingranò la seconda. La macchina con un colpo di tosse partí e una luminaria da presepe illuminò il cruscotto e i coprisedile leopardati.
– Esto es un carro, chichita!
Paolo Bocchi era in sella al Fantic Caballero del cognato di Sartoretti e seguiva come un’ombra la 131 Mirafiori, che si infilò sputacchiando per viale Bruno Buozzi.
Il piano meditato nel buio di una cella per due anni finalmente era partito.
Il suo tesoro era lí.
Sartoretti stava andando alla grande. Anzi, alla grandissima.
Flavio Sartoretti guidava e soffriva. Mai come in quel momento la sua condizione di esiliato gli faceva male.
Per colpa di un calciatore bastardo e privo di umorismo, era stato relegato ai confini dello sfavillante mondo dello spettacolo. In quelle zone oscure si nutriva di sagre del tortello, di serate in night club di provincia e di concorsi di bellezza in paesini dell’Aspromonte.
E adesso, come una punizione dantesca, era costretto per qualche spicciolo a interpretare l’artefice della propria disgrazia.
Un tempo una come la Somaini se la sarebbe ingroppata con la facilità con cui mangiava i tramezzini di Vanni.
Si guardò, vestito come un vu cumprà, a inscenare quell’ignobile farsa.
– Chi ha disegnato il tuo abito folk, Paco? – La voce della Somaini frantumò la ragnatela dei suoi pensieri.
– Es un stilista magrebbinio. Muy famoso… – fece, impedendosi di girare la testa. Se le avesse guardato le tette, se la sarebbe scopata lí, a piazza Quadrata.
Diede una sbirciata nello specchietto retrovisore.
Bocchi, in sella al Caballero, gli stava appiccicato come una remora.
Il ristorante Le regioni era stato costruito dall’architetto giapponese Hiro Itoki come un’Italia in miniatura. Guardandolo dall’alto, il lungo edificio aveva la stessa forma e proporzioni della penisola italica, con tanto di isole.
Era suddiviso in venti stanze, che corrispondevano per forma e specialità culinarie alle regioni italiane. I tavoli avevano i nomi delle città. Sartoretti e la Somaini furono condotti nella «Sicilia», una delle regioni piú esclusive e appartate, ad appena cinque metri dalla Calabria.
La particolarità del ristorante era che nessuno ti rompeva i coglioni per autografi e foto in posa, perché la clientela era selezionata con grande attenzione.
Avevano prenotato il tavolo Siracusa, che era separato dagli altri tavoli da un gigantesco acquario marino in cui si aggiravano aragoste, cernie e murene. Li scortò una cameriera che indossava un tradizionale abito delle donne siciliane.
Il presidente del Coni, dal tavolo Catania, vide entrare Paco Jiménez de la Frontera con quella tunica e gli sparò: – Ahò, a Paco, ma che sei sbarcato a Lampedusa? – e gongolò felice del battutone insieme alla sua signora.
– Olà chico… – rispose appena Sartoretti.
Dall’alto del tavolo Caltanissetta Sergio Pariani, il titolare della maglia numero uno della Roma, vide il centravanti argentino prendere posto insieme a quel gran pezzo di figa della Somaini. Sputò sul piatto la prima forchettata di caponata di melanzane e si schiacciò sul piatto come un marine nella foresta vietnamita.
– Abbassati abbassati! – disse a Rita Baudo. – C’è Paco, porca troia!
A quel nome la nota presentatrice del Tg4 saltò sulla sedia. – Dove? – Sergio, a quattro zampe sotto il tavolo, la fermò: – Stai zitta! Lo vuoi capire che se mia moglie… E se m’ha visto?
– E certo che t’ha visto. Ha fatto finta di niente. È un signore, mica come te!
Il portiere, utilizzando l’antica tecnica respiratoria del Qi-Yi, tentò di espellere l’ansia che lo attanagliava. Rilassò la muscolatura addominale provocando un abbassamento del diaframma ed emettendo un rantolo strozzato.
– Ma che cazzo stai a fa’? – lo interruppe la giornalista.
– Ansia ansia ansia… Lo chiamo? Che faccio, lo chiamo? Lo chiamo! Sí, lo chiamo.
Afferrò il cellulare.
Era chiuso in un angolo. Non aveva piú cartucce e la torcia si era esaurita. Gli era rimasto solo il piccone. Tre infermiere zombie lo circondavano e avanzavano verso di lui. Ne colpí una, che si disintegrò. Ma le altre due oramai lo avevano azzannato.
Il telefono squillò. Paco buttò il joypad della PlayStation 2 e rispose: – Chi scassa?
– Pronto, sono Sergio…
Paco odiava essere chiamato dopo le sette e mezza. – Dimmi…
– Tu non m’hai visto!
Paco rimase interdetto. – In che senso?
– Nel senso che non mi hai visto. Se Luana lo viene a sapere…
– Ma cosa?! Abla piú forte che non sento, cabròn! Dove sei?
– Sto a Caltanissetta! Mi vedi?
– E nooo –. Paco si passò una mano sulla fronte. – Dopodomani abbiamo il derby… che ti sei fumato?
– Aspetta che sollevo la mano, cosí mi vedi… ecco, mo’ mi vedi?
Paco smozzicò un würstel che teneva accanto al divano su una graticola elettrica. – Sergio, cominci a rompere!
– Ahò, certo la Somaini… bella figa, eh?
– Sí –. Non capiva.
– Ma te rendi conto? Stiamo tutt’e due in Sicilia. Vedi alle volte la vita… Comunque questa è la regione migliore… io mi so’ fatto la caponata. Ti consiglio la pasta alla Norma.
– Sergio, hai rotto il cazzo!
– Scusami, non ti volevo disturba’… è che siccome stai a Siracusa te volevo da’ un consiglio. Ma se la prendi cosí…
I due calciatori si stavano incartando come un etto di mortadella.
Dopo un quarto d’ora la matassa cominciò a sbrogliarsi.
– Hai ragione, non puoi essere tu. Ti vedo, non hai il cellulare. E allora chi è quello?
– Fammi capire. Ci sono io al ristorante e non sono io?
– Esatto. Ma parla come te, si muove come te. Certo è vestito strano, però…
– Va bene Sergio. Ho capito. Grazie. Ci penso io –. Paco attaccò.
Simona Somaini si sentiva stanca e le si chiudevano le palpebre.
Incredibile, da due anni a questa parte dormiva appena tre ore a notte e non era mai stanca. Per essere precisi, dall’operazione al seno era pervasa da una energia incredibile, un vigore che non la faceva mai fermare e che le permetteva di affrontare orari di lavoro che avrebbero stroncato un elefante.
E invece stasera che era a cena con Paco Jiménez de la Frontera, e probabilmente la sua agente aveva già piazzato fuori dal ristorante un esercito di fotografi, desiderava solo mettersi sotto le pezze.
Non doveva addormentarsi. Non ora. Non stasera. Non con Paco.
Cosa sarà stato? Lo Chardonnay Planeta ghiacciato, lo sfincione, il pane con la meuza maritata? Flavio Sartoretti non lo sapeva. Ma non si sentiva cosí bene e a suo agio come da quando aveva vinto il Telegatto nel ’99. L’unica nota stonata era osservare la Somaini che crollava e cominciava a non ascoltarlo piú. I tre Roipnol che gli aveva sciolto nel bicchiere quando lei era andata alla toilette stavano facendo effetto.
Che peccato, stasera avrebbe pure potuto scoparsela.
Ma aveva un’urgenza da soddisfare prima che l’attrice svenisse.
– Simona, ascoltame, conosci un actor, un grande actor, un actor muy lindo che se llama Flavio Sa…
Improvvisamente si ritrovò in un ambiente diverso, liquido, davanti non c’era piú Simona Somaini, ma una cernia che lo guardava perplessa. Deformati dal vetro dell’acquario vide Rosario, Pitbull, Bresaola e Undertaker che gli facevano ciao con la mano.
Poi fu acciuffato per i capelli.
Paolo Bocchi, fuori dal ristorante, controllava nervosamente l’orologio. Erano dentro da un sacco di tempo e secondo il piano la Somaini a quest’ora doveva essere svenuta.
Da un momento all’altro Flavio sarebbe uscito con l’attrice. Entrò nella 131. Guardò l’ingresso del ristorante. Finalmente le porte si aprirono. Quattro orchi usciti dal Signore degli Anelli trascinavano un fagotto zuppo che somigliava alla tunica di Mbuma.
Bestemmiò. Il piano era andato a farsi fottere.
Vide una cosa impossibile in natura. Uno degli ultrà piegava Sartoretti come un dépliant e lo infilava, contro ogni legge della fisica dei solidi, nel bagagliaio di una Ford Ka.
Poi i quattro salirono sulla macchina e partirono.
Bocchi uscí di corsa dalla 131 e montò in sella al Caballero.
Non lo poteva abbandonare cosí.
– Te lo ricordi il film Ben-Hur con Charlton Heston? – chiese Rosario a Flavio Sartoretti, che stava per terra al centro del Circo Massimo incatenato a una Harley-Davidson Wide Glide dell’83.
Sartoretti emise un rantolo che voleva essere un sí.
Il Bresaola portò i giri del bicilindrico a quattromila con una sgasata che intossicò il comico.
– Te la ricordi la corsa delle bighe?
Sartoretti aveva capito. Quello era uno dei suoi film preferiti, insieme a Kramer contro Kramer.
– Quanti giri avevano fatto?
Sartoretti sussurrò: – Qua… ttro… come i gi… ri di chiglia…
– Bravo –. Poi Rosario si rivolse a Bresaola: – Vai va’…
Bresaola fece un burnout producendo con la ruota posteriore una fumata coreografica. Sfrizionò, sparò dentro una seconda e partí su una ruota sola.
Bocchi, dall’alto del roseto comunale, vide il suo amico trascinato per l’antico stadio romano. Si dibatteva dietro la moto come un marlin preso al traino tra i serci, le cacate di cane e i cocci di bottiglia.
L’ex chirurgo si nascose il viso tra le mani. Mentre il rombo della Harley rimbalzava contro la Domus Augustea fu assalito dalla disperazione.
Doveva trovare un altro piano!
Due mesi dopo
Furono due mesi molto duri per Paolo Bocchi.
Passò i primi quindici giorni dopo il fallimento steso nello scatolo sotto ponte Sisto a sentire le macchine che gli sfrecciavano sulla testa. Si sforzava, ma un piano alternativo proprio non gli veniva.
Mbuma tornava a tarda sera e non era di conforto, preso dalla nostalgia delle distese aride del suo Paese. Bocchi decise che era tempo di reagire.
Sartoretti, in coma clinico al Fatebenefratelli, non era piú utilizzabile.
Una mattina, mentre si guadagnava qualche euro lavando le vetrine di Trony, vide su un televisore al plasma Simona Somaini che rilasciava un’intervista alla Vita in diretta. Mollò lo straccio e si fiondò nel negozio.
– Sarò di nuovo la dottoressa Cri. Impegnata come sempre ad aiutare la gente bisognosa. Abbiamo cercato di aderire il piú possibile alla realtà. Insomma sarà esattamente come in un vero ospedale.
– Ci sono novità nel cast? – chiese l’azzimato presentatore.
– Certo. Innanzitutto un nuovo regista. Michele Morin… un maestro… e…
Bocchi ebbe un terremoto nell’emisfero destro, quello dove risiede la memoria.
Michele Morin…
Lo aveva operato cinque anni fa.
Era stato il suo capolavoro. Uno di quegli interventi che meritano di finire sui telegiornali e nelle pagine di «Nature», ma di cui non si poteva parlare. Per una cifra esagerata aveva firmato un contratto di segretezza, vista la natura estremamente intima e riservata dell’operazione. Il chirurgo aveva portato a venticinque centimetri il membro di Michele Morin, che in erezione arrivava a malapena a nove. Sette ore era durato l’intervento.
Michele Morin era alla sua mercé.
Antonella Iozzi se ne stava nuda sul divano di pelle di un appartamento di viale Angelico. Aveva una chioma biondo cenere tagliata corta. Gracile, un paio di occhiali tondi con la montatura d’oro le penzolava sulle tette mosce. Il naso curvava verso il basso e divideva gli occhi piccoli e cerulei. Era ferma come se fosse in una sala d’attesa della stazione. Di fronte a lei, in piedi a gambe larghe, coperto solo da un kimono, c’era il noto regista Michele Morin.
Morin non era particolarmente impressionato dalla bellezza della sua segretaria di edizione, ma Umberto, il capo elettricista della sua troupe, gli aveva assicurato che Antonella faceva pompini con un entusiasmo cosí sincero e totale che tutto il resto passava in secondo piano.
Per regola Michele Morin, prima di cominciare a girare, si faceva fare un pompino da tutte le donne della troupe. Non lo faceva per una squallida libidine, ma per due ragioni: una di ordine professionale, in quel modo avrebbe creato una maggiore complicità con le sue collaboratrici; l’altra di ordine personale, per gratificare i suoi venticinque centimetri.
– Spizzate ’sto cefalo de fiume! – le disse con una metafora colorita mentre tirava fuori dal kimono il suo membro eretto.
Antonella, a cui mancavano diverse diottrie, inforcò gli occhialetti e mise a fuoco. – Fischia che mafero! – esclamò con un forte accento umbro-marchigiano.
Il regista l’afferrò per i capelli come Perseo con la Medusa e la tirò a sé.
In quel momento delicato sentí a trenta metri di distanza il campanello della porta.
– Chi è che sfonda?
Però se era Grazia, la costumista, la cosa poteva farsi interessante. Rimase indeciso, poi l’idea di farsi una cosa in tre fu piú forte.
– Aspettami qua! Ho una sorpresa…
Quando aprí la porta rimase deluso.
Era un uomo.
– No guardi, non compro niente. E poi chi l’ha fatta entrare? – Alla prossima riunione di condominio avrebbe chiesto la testa del portiere.
– Michele! Non ti ricordi di me, vero?
Il regista fece una rapida ricerca nella sua famosa memoria fotografica, ma quella faccia non gli diceva un cazzo. Doveva essere uno dei soliti attorucoli sfigati che pietivano una comparsata.
– No. Mi scusi… sono occupato… – e fece per chiudere la porta.
Ma l’uomo infilò un vecchio mocassino di Ferragamo nello stipite. – Michele, che tono sicuro che hai. Il blocco psicologico l’hai superato, allora? – E gli guardò il membro che gli penzolava fuori dal kimono come il batacchio delle campane del Duomo di Orvieto. Michele si riannodò nervosamente la vestaglia. – Vada via! Ma che vuole?
– Quello lí è il mio capolavoro! – indicando il pube del regista.
La mente di Morin fu proiettata nel passato, cinque anni prima, quando alla clinica San Bellarmino aveva incontrato… come si chiamava… Bo… Bocchi! Paolo Bocchi. Erano nello studio del chirurgo che gli soppesava l’appendice. – Con quattro o cinque centimetri dovresti superare il problema… – No dottore. Voglio esagerare.
Se quel luminare si era scomodato, forse aveva scoperto delle controindicazioni, dei problemi, forse una crisi di rigetto incipiente.
– Professore, mi perdoni! Non l’avevo riconosciuta. Entri! – Lo fece accomodare nel suo studio.
Antonella poteva aspettare.
– Mi dica, dottore, ma c’è qualche problema?
Bocchi si accomodò e si accese una sigaretta. – Sí, in effetti qualche problema c’è!
– Oddio dottore, non mi tenga sulle spine –. Si toccò l’inguine senza rendersene conto.
– Immagini di aver girato un film… un capolavoro… che ne so? Apocalypse Now, ma di non poterlo far vedere a nessuno. Come si sentirebbe?
Dove voleva andare a parare il professore? – Ci starei male…
– È quello che dico anch’io. Quello, – e indicò nuovamente l’uccello del regista, – è il mio masterpiece. Che ne dice se cominciassi a fargli un po’ di pubblicità?
Michele Morin sbiancò. – Che… che significa?
– Lei lo sa che esiste una documentazione fotografica del prima e dopo l’operazione? Sono convinto che parecchi giornali pagherebbero profumatamente del materiale cosí! Soprattutto perché appartiene a un famoso regista.
Un’immagine passò nella mente di Morin. Centinaia di donne che sghignazzavano alle sue spalle, battute mortali. Lui appeso per il collo a una corda. Una retrospettiva delle sue opere su Rai3 alle due di notte.
Quella merda umana lo stava ricattando.
Piagnucolò. – Lei non può! È contro le leggi di Esculapio. Lei mi rovina. Lei ha firmato un contratto di segretezza e io…
– Che fa? Mi fa radiare dall’Ordine? – fece rilassato Bocchi. – Già fatto. In galera? Già stato. Una causa? Nullatenente. Come vede non ho niente da perdere. Lei invece… bella figura di merda, no?
– Ho capito. Lei è un infame senza cuore, lei si approfitta delle debolezze altrui…
– Bravo.
Non c’era via d’uscita. Quel figlio di puttana lo aveva incastrato come un Range Rover in vicolo de’ Renzi.
Morin si accasciò sconfitto sul divanetto Luigi XVI. – Quanto vuole?
Bocchi scosse la testa. – Cosa vuole? Questa è la domanda giusta.
– Va bene. Cosa vuole?
Bocchi spense la sigaretta. – Lei sta per iniziare le riprese dello sceneggiato La dottoressa Cri. La terza puntata la scrivo io.
Morin non capiva. – Perché?
– Perché sí. In questa puntata la dottoressa Cri, poverina, scoprirà un nodulo al seno sinistro e verrà operata. Da medico diventa paziente. Drammaturgicamente non fa una piega. E per operarla verrà chiamato un famoso chirurgo statunitense. Io. Accompagnato dal suo assistente afroamericano Mbuma Bowanda junior.
Morin si chiese se avesse esagerato con lo Xanax la notte prima. – Ma perché professore? Vuole fare l’attore?
– No.
– Ma io non posso… non conto un cazzo. Decide tutto la Rai. La Somaini si opporrà. Io…
– Signor Morin, io non discuto con lei. Le cose stanno cosí. Fra due giorni avrà la sceneggiatura. O la terza puntata o «Novella 2000»! La saluto.
Bocchi si alzò e uscí di casa.
SCENA 12 SALA OPERATORIA INTERNO GIORNO
La dottoressa Cri è stesa sul lettino della sala operatoria, anestetizzata. L’équipe aspetta con ansia l’arrivo del famoso chirurgo John Preston.
CLAUDIO
Ma quando arriva?
LINDA
Il suo jet privato è già atterrato all’aeroporto. Non capisco…
In quel momento si aprono le porte della sala operatoria. Entra John Preston seguito dal suo fido braccio destro Mbuma Bowanda junior. Gli assistenti sono intimoriti, hanno davanti una leggenda della medicina moderna. Le donne non possono credere alla bellezza di quell’artista del bisturi.
LINDA
Dottor Preston! È un onore…
DOTTOR PRESTON
Per prima cosa chiamatemi John. Per seconda, noi siamo una squadra e perdio qui dentro siamo tutti uguali. Voglio il meglio da voi e so che per la dottoressa Cri me lo darete.
CLAUDIO
Professore, io vorrei essere dispensato.
Per me la dottoressa Cri è…
Il dottor Preston ferma con un gesto l’assistente.
DOTTOR PRESTON
Claudio. Non mollare ora. Mi servi. Questa donna…
– Questa donna…? – Bocchi sollevò la testa dal foglio. – Questa donna…? – chiese a Mbuma che stava abbrustolendo del pane casereccio sul falò accanto al greto del fiume. L’africano guardò lontano, verso l’isola Tiberina. Il sole basso colorava d’arancio i tetti delle case e strisce di nuvole viola screziavano il cielo. Poi lento e solenne recitò: – Questa donna sarà la madre dei tuoi figli, Claudio, e porterà il tuo gregge fino al grande fiume!
– Grande, sei un grande! – E riprese a scrivere col mozzicone di matita.
Al terzo piano di viale Mazzini era in corso da tre ore e mezza una riunione straordinaria. Attorno al lungo tavolo di radica pieno di bottiglie d’acqua e bicchieri di plastica sedevano nell’ordine Ezio Mosci, capostruttura Rai, il regista Michele Morin, Francesca Vitocolonna, producer Rai, l’attrice Simona Somaini, l’agente Elena Paleologo Rossi Strozzi e il presidente della fiction Ugo Maria Rispoli.
La lettura della terza puntata era terminata.
Nessuno parlava.
Fu Mosci a rompere il silenzio. – Sei sicura Simona che vuoi mostrare il seno? Si potrebbe pensare a un calcolo renale, a una cisti sebacea…
Simona Somaini si stava asciugando le lacrime. – No! È bellissima cosí… Finalmente c’è cuore, anima, vita. È la piú bella puntata della serie. Per una puntata cosí sono piú che disposta a mostrare il seno, che è un problema di tante donne.
E da grande professionista qual era Elena Paleologo Rosso Strozzi prese la palla al balzo: – Ovviamente c’è da ritoccare il cachet della mia cliente!
– Ma certo, certo, – la liquidò infastidito Ugo Maria Rispoli. – Sí, ma la scena nella sala operatoria quando la dottoressa sta per morire non è troppo cruenta? Tutto quel sangue, i defibrillatori… Ricordatevi il nostro pubblico.
– No dottore. Lí tutti penseranno che la nostra protagonista sta morendo. Un picco di share.
– È vero, – si infervorò la Somaini, – è una scena madre. È giusto il sangue. Questo pubblico deve capire che anche la dottoressa Cri è una donna normale, e può morire sotto i ferri come chiunque altro. Ci si riconosceranno!
Ugo Maria Rispoli era dubbioso: – Vabbè. Speriamo solo che non ci rompano i coglioni le associazioni varie…
– Ma stia tranquillo. Non mostreremo tanto. Voglio commuovere, non fare macelleria, – intervenne il regista.
– Morin… lei è legato a un filo. Mi toppa questa e può scordarsi la miniserie su Pertini.
L’aria si gelò, come se avessero messo al massimo i condizionatori.
Il regista si passò la mano nei capelli e pensò: Vabbè, qua rischio il culo ma salvo il cazzo. Guardò Ugo Maria Rispoli e dondolò la testa sereno: – Non si preoccupi. Lasci fare!
– E chi avreste pensato per il ruolo di John Preston e del suo assistente… coso là… Mbuma? – chiese Francesca Vitocolonna, che stava prendendo appunti sul suo palmare.
– Ce li ho io, – intervenne Morin, – sono due attori esordienti. Vengono dal teatro.
Nessuno ebbe niente da dire.
– Va bene… allora… si fa, – concluse Ugo Maria Rispoli, si accese un toscano e si alzò. – Ma mi raccomando co’ ’ste tette. Siamo in prima serata!
Al teatro di posa numero 2 di Formello, gli scenografi avevano già allestito la sala operatoria. Nel piano di lavorazione della giornata l’ultima scena da girare era la famosa operazione alla dottoressa Cri.
Nel camerino 12 Paolo Bocchi e Mbuma Bowanda erano già passati in sartoria. Bocchi, col camice verde da chirurgo, si guardò allo specchio. Quella era la sua seconda pelle. Ci si sentiva a suo agio. Mbuma un po’ meno. La truccatrice gli aveva intonacato la faccia con tre chili di cerone per nascondere la psoriasi e il suo viso aveva assunto una colorazione verde zombie.
– Questa è la volta buona. Me lo sento, Mbuma. Ce ne andiamo alle Mauritius. Spiagge bianche. Ragazzine creole. Il mare. Non facciamo una mazza tutto il giorno…
Bussarono.
Era l’assistente alla regia. – Allora, se volete scendere siamo pronti…
Bocchi guardò Mbuma, poi fece un cenno di assenso: – Pronti! – Afferrò un pacchetto e se lo infilò nella tasca dei pantaloni.
– Mettime ’na frost! ’Sta luce spara… ’nnamo un po’! – Era Marzio De Santis, il direttore della fotografia che girava come un rabdomante puntando in aria l’esposimetro. Gli elettricisti stanchi trascinavano i quarzi e i proiettori aspettando solo la fine di quella giornata infernale, in cui avevano girato diciotto scene.
– A Marzio quando finiamo? So’ le sei! Io Natale lo vorrei passa’ a casa! – fece Umberto, il capo elettricista.
Un macchinista stava finendo di montare il carrello. – A Umbe’, almeno mo’ se guardamo la Somaini… – e con le mani disegnò le generose rotondità dell’attrice.
– Ragazzi! – intervenne l’aiutoregista, un giovane col codino e il pizzetto. – Set blindato. Nessuno fra i coglioni quando giriamo. La Somaini non vuole!
– Che palle! – si sollevò un coro deluso.
– Correggi. Due e otto e siamo pronti, – fece Marzio De Santis al primo operatore, che cambiò immediatamente il diaframma alla cinepresa.
– Ci siamo? Forza che devo girare. Dài, gli attori! – Morin era davanti al monitor, accanto ad Antonella Iozzi seduta su uno sgabello col suo inseparabile blocco di edizione.
Entrò la Somaini coperta da una vestaglia. La parrucchiera continuava a domarle la chioma.
– Ciao Simona… ci siamo!
– Buonasera a tutti! – fece l’attrice alla troupe.
– Buonasera signora… – La trattavano con una certa deferenza e nello stesso tempo sbirciavano, sperando di vedere un po’ di carne.
– Chi non serve fuori dal set –. Morin s’infilò le cuffie e regolò il contrasto del monitor.
Entrò l’attore principale, Fabio Saletti, che proveniva dal reality-show Guantanamo, dove otto concorrenti vivevano incatenati per quattro mesi in una cella tre per due e una volta alla settimana erano pure torturati.
Il palestrato si avvicinò a Morin. – Cosa devo fare?
Il regista lo prese sotto il braccio e lo piazzò accanto al lettino operatorio, vicino agli altri attori già pronti per la scena. – Allora Fabio, tu ti metti qui, buono buono, stai fermo, non toccare niente e quando devi dire le battute le dici. Tranquillo. Nessuno ti mangia.
Morin tornò al monitor scuotendo la testa. Era stato piú facile dirigere lo sciame di vespe africane nel suo primo lungometraggio Puntura fatale che far dire due battute a quel decorticato di Fabio Saletti.
Bocchi e Mbuma fecero il loro ingresso. L’attrezzista si avventò su Bocchi. – Chi è il chirurgo, te o il negro?
– Io, – rispose Bocchi.
– Allora… – e gli mollò un bisturi in mano. – Mo’ ti spiego come si usa, lo prendi con due dita…
Bocchi lo fermò. – Lo so come funziona. Grazie.
Intanto la Somaini si era stesa sul lettino, si era coperta con il lenzuolo operatorio e s’era tolta la vestaglia. Sembrava che tra lei e il telo avessero poggiato due angurie mature.
– Allora, partiamo con Simona che è già anestetizzata. Dal taglio del bisturi… è pronto il sangue finto?
– Pronto! – rispose la voce dello scenografo.
– Bene, fate tutta l’operazione e andate avanti fino al mio stop. Mi raccomando, al momento della rianimazione vi voglio veri, tonici, dovete pensare che sta morendo davvero. E tu Simona, mi raccomando, devi tremare come… – Non gli veniva. – Vabbè lo sai… sei una grande attrice. Macchine pronte e ciak in campo.
– Allora, dovete stare zitti e spegnete i cellulari sennò do lo stop! – urlò Roberto, il fonico, che non ne poteva piú di quel set di cafoni.
– Ciak in campo…
Bocchi si avvicinò al lettino ed estrasse una siringa tenendola nascosta nel palmo della mano.
Quante volte aveva sognato quel momento. Il suo tesoro era lí a mezzo metro, sepolto sotto la ghiandola mammaria della Somaini. Il cuore gli galoppava come la prima volta che aveva operato. Si calmò. Doveva essere preciso e veloce. Guardò il pastore sudanese. Anche lui sembrava pronto.
– Ho chiesto ciak in campo! – urlò Morin. Bocchi si piegò sul lettino e veloce piantò la siringa sotto il seno sinistro dell’attrice.
Dentro la siringa c’era un cocktail di lidocaina, mepivacaina e benzodiazepine che le avrebbe provocato un’anestesia loco-regionale nella regione toracica, ma che lasciava comunque la Somaini sveglia e cosciente.
L’attrice sobbalzò. – Ah! Che era?
– Qui c’è uno spillo nel lenzuolo –. Bocchi mostrò solo la punta dell’ago della siringa.
– Ma state attenti! – si innervosí l’attrice.
– Allora motore!
– Partito.
– Ciak in campo.
– 12-24 prima!
– Aaaazione! – urlò Morin.
La cinepresa girava.
Bocchi si avvicinò col bisturi al seno. Lo poggiò sulla carne. Provò a incidere. La lama non aveva il filo.
Cazzo, era finto! Come aveva fatto a non pensarci?
Eppure il sangue, pompato dallo scenografo, usciva copiosamente dal seno sinistro dell’attrice.
Mbuma guardò Bocchi. S’era accorto che qualcosa era andato storto.
In quel momento la Somaini cominciò a tremare secondo copione.
– Bene, bene! – sussurrava Morin davanti al monitor. – Zoomma zoomma. Vammi sul seno, – ordinò all’operatore.
Bocchi osservò la Somaini. O la sua era una grande interpretazione, oppure… cazzo! I sintomi c’erano tutti.
Tremore muscolare. Depressione dell’attività respiratoria. Pupille a spillo. Colorito cianotico.
Overdose da cocaina!
Quando le aveva fatto l’iniezione l’ago della siringa aveva forato il sacchetto e la droga le era entrata in circolo.
Stava morendo.
Bocchi guardò il monitor dell’elettroencefalogramma. Era spento! Lo colpí con un pugno senza rendersi conto che era un elemento scenografico.
– Defibrillatori! – urlò all’attrice al suo fianco.
Lei glieli passò. Bocchi li afferrò. – Duecentocinquanta joule! Scarico!
Morin era in estasi. Una scena cosí vera non l’aveva mai girata.
La Somaini non respirava. A bocca aperta cercava di succhiare aria ma i muscoli del torace erano paralizzati. Bocchi poggiò i due elettrodi sul petto dell’attrice. Ma non accadde nulla. Li sollevò ancora e si accorse che i fili non erano attaccati a niente.
– Ma che cazzo è? – urlò verso Fabio Saletti.
– Sono finti! – gli uscí all’attore.
– Ma vaffanculo! – Bocchi li scagliò sul setto nasale del bellone.
– Ahio, cazzo! Il naso! – Si piegò in due mentre il sangue gli inzuppava il mento.
– Battute! Battute! – urlò Morin sollevandosi verso i suoi attori.
Il fonico intervenne: – Questa si doppia. Non me ne frega un cazzo!
– Presto, dottor Preston! Stiamo perdendo la dottoressa Cri, – recitò la sua battuta la finta infermiera.
Mbuma si guardò intorno e con l’antica saggezza africana si girò e scappò dalla sala operatoria.
Intanto Bocchi stava cercando di effettuare un massaggio cardiaco, ma il cuore della Somaini era lontano, spento come una stella morente.
Sanguinante, ma sempre dentro la parte, Saletti recitò la sua battuta: – Dottore dobbiamo intubarla!
– Ma con che cazzo la vuoi intubare, imbecille? Questa sta morendo!
Antonella Iozzi, imperturbabile, controllava intanto il copione. – Michele, ma questa battuta non c’è!
– Chissenefrega! Gira! Gira! È splendida!
Bocchi si tolse la mascherina. – È morta! – disse sconfitto. Poi notò che Mbuma si era dato alla macchia.
Voltò le spalle al set e lo imitò.
Quattro giorni dopo
Il sole sopra piazza del Popolo era già alto e arrostiva il tappeto umano che copriva il selciato. La cittadinanza romana aveva risposto commossa alla morte della grande attrice di fiction televisiva. Erano lí già dalle prime ore del mattino per darle l’estremo saluto. Troupe dei Tg spuntavano dappertutto. La polizia aveva formato un cordone per permettere alle autorità di accedere alla chiesa degli artisti. Sopra il centro storico ronzavano gli elicotteri della polizia e dei carabinieri come mosche su una carcassa. Erano misure preventive contro sommosse popolari e attacchi terroristici. Il traffico era stato deviato. E il sindaco aveva imposto la bandiera a mezz’asta in tutti gli edifici pubblici e le targhe alterne.
La chiesa, stipata all’inverosimile, attendeva in silenzio il feretro. Centinaia di corone di fiori erano addossate all’altare coperto a lutto. L’intera orchestra di Santa Cecilia accordava gli archi. Il maestro Renzo di Renzo a capo chino pregava. Dieci chierichetti con gli incensieri inondavano di folate mefitiche le navate. Seduti sulle prime panche c’erano tutti i parenti della Somaini arrivati con un pullman direttamente da Subiaco, dove la famiglia risiedeva da secoli.
– Chi si sposa? – Nonna Italia, affetta da grave arteriosclerosi, non aveva capito un cazzo.
Giovanna Somaini, la sorella maggiore di Simona, per l’ennesima volta spiegò alla nonna che era morta sua nipote. Giuliana Somaini non aveva piú lacrime e non riusciva ancora a spiegarsi il perché della morte di sua figlia, che era tutta la sua vita. Affranta poggiava il capo sulla spalla di Elena Paleologo Rossi Strozzi, che indossava uno Chanel a lutto. Poi cugini, nipoti, cognati, suocere, e mezza Subiaco. In quella folla distrutta dal dolore c’era un uomo teso e concentrato che fissava il tappeto dove avrebbero deposto la bara. Era l’ultima occasione per Paolo Bocchi di riprendersi quello che era suo.
Il piano, stavolta, era di una semplicità inquietante. Dopo la cerimonia si sarebbe impossessato, in qualche modo, del carro funebre e lo avrebbe portato nella pineta dell’Infernetto vicino Ostia, dove Mbuma, armato di pinze e martello, lo attendeva per profanare il catafalco. Da lí Fiumicino e le Mauritius erano a un passo.
Il maestro sollevò le braccia e l’orchestra cominciò a eseguire il commovente adagio di Barber.
– Sta arrivando, – mormorò la folla. Tutti si girarono verso l’entrata. Fuori era parcheggiato il lungo carro funebre Mercedes. Aprirono il portellone. Un uomo, lontano, cominciò ad avanzare marziale verso l’altare. Paolo Bocchi non capiva.
Come poteva un uomo solo caricarsi sulle spalle la bara?
Ma la bara non c’era. Portava in mano un’urna…
Quella gran puttana si era fatta cremare!
Paolo Bocchi aveva sopportato stoico due anni di carcere. Aveva visto un piano perfetto fallire per l’idiozia di un comico coglione. Era arrivato quasi a toccare quello che gli spettava di diritto, aveva superato una grave depressione, ma alla vista dell’annientamento della sua ragione di vita una rabbia antica e folle, covata per troppo tempo, gli esplose dentro come una bomba nucleare. Si sollevò in piedi sulla panca e urlò straziato: – Il mio tesoro! Ridatemi il mio tesoro!
La folla lo guardò.
Un fan impazzito che non reggeva al dolore.
– Si calmi… – Lo afferrò il cognato della Somaini.
– Un cazzo mi calmo! – e si lanciò verso il corridoio della navata centrale. Si librò con un fosbury superando due file di panche e finendo su nonna Italia che, colpita, fece due giri su se stessa e caracollò a terra.
Tac!
Il femore era partito.
– Porcoddio! – bestemmiò la vecchia coprendo l’adagio del compositore americano.
Bocchi si rialzò. Tutti gli si lanciarono addosso come in una mischia di rugby. Mollò una gomitata sul muso del piccolo Pietro incastonandogli nelle gengive l’apparecchio ortodontico.
– Ahhhh! – Il piccolo Somaini si buttò a terra in lacrime.
– Stronzo! Ti ucci… – urlò il padre. Ma Bocchi, con un rigoroso calcio nei coglioni, lo azzittí. Una foresta di mani lo stava afferrando. Con uno scarto improvviso il chirurgo strappò l’incensiere a un chierichetto e cominciò a rotearlo come una mazza ferrata falciando chiunque provava ad avvicinarsi.
– In nome della legge si fermi! – L’appuntato La Rosa estrasse la Beretta d’ordinanza. – Le intimo di fermarsi.
Bocchi, roteando la sua arma micidiale, marciava in una nuvola d’incenso come un cavaliere dell’apocalisse verso l’uomo delle pompe funebri. Lo sdraiò con un colpo preciso sulla nuca. Quando cadde, Paolo afferrò al volo l’urna come un running back dei Miami Dolphins e si involò verso la piazza.
All’uscita fu accolto da un applauso che si spense non appena Bocchi scartò di lato e si schiantò sui tavolini del caffè Rosati.
Rita Baudo e la sua troupe del Tg4 fu l’unica a riprendere il fan impazzito che si sollevava dai cocci dei Campari soda e dalle tartine al salmone.
L’appuntato La Rosa l’aveva raggiunto. A gambe larghe e a braccia tese gli puntava contro la pistola. – Si fermi! Si fermi!
Bocchi, come un ninja impazzito, afferrò un portacenere di cristallo, lo scagliò e colpí il militare sugli incisivi.
– Me li evo appena vifatti, poccatvoia! – si accasciò in ginocchio il rappresentante delle forze dell’ordine.
Il chirurgo afferrò da terra la pistola e sparò in aria tre colpi. La folla si aprí e cominciò a fuggire per le vie laterali.
Marco Civoli, delle truppe speciali antiterrorismo, penzolava con il suo fucile di precisione dall’elicottero che stazionava sopra piazza del Popolo.
– Ma che sta succedendo? – urlò ai piloti.
Duecento metri piú in basso, un uomo correva al centro di via Ferdinando di Savoia in direzione Tevere, inseguito da una folla inferocita.
La radio fece una pernacchia: – A tutte le unità, soggetto pericoloso e armato si dirige verso ponte Savoia. È pericoloso. Fermatelo!
Marco Civoli sorrise. Quanto tempo aveva passato sparando a sagome di cartone. Quella era la sua occasione.
L’elicottero picchiò deciso verso il fuggitivo.
– Dài che lo becchiamo! – fece Civoli, e mise il colpo in canna.
Bocchi sotto un braccio stringeva l’urna, e correva. Gettò la pistola. Si girò. La folla non mollava. La milza gli pulsava e non aveva piú fiato. Sopra di sé sentiva le pale degli elicotteri. Attraversò il lungotevere evitando una Micra ma non una Smart, che lo prese in pieno sfondandogli tre costole. Si risollevò a fatica e fu investito da un Burgman 250. L’urna rotolò sul ciglio del marciapiede. Bocchi aveva perso la sensibilità della gamba destra, zoppicando raggiunse il contenitore e lo raccolse.
– È mio! È mio! – bofonchiò sputando fiotti di sangue. Vedeva tutto appannato. I platani, le auto, il cielo stinto. Poi si accorse che il muretto del lungotevere, proprio lí di fronte, si apriva e una scala ripida scendeva verso il fiume. Gli sembrò che Dio l’avesse messa apposta per lui. Scese urlando di dolore a ogni gradino.
C’era un silenzio innaturale. Nelle orecchie aveva solo il suo respiro.
Il mare di fronte a lui era fermo e trasparente e i gabbiani si inseguivano planando sullo specchio d’acqua.
Le Mauritius… Era arrivato.
Alla fine ce l’aveva fatta. Era stato facile.
Fece solo un passo verso la spiaggia e il petto gli esplose. Abbassò lo sguardo. Sulla giacca fetida di fresco lana c’era un foro rosso. Ci infilò un dito.
Sangue.
Crollò sulle ginocchia sollevando le braccia al cielo. L’urna cadde davanti a lui e si aprí. Le ceneri si sparsero sul selciato. Un velo gli colorò il panorama di rosso. La testa lentamente si rovesciò indietro e in avanti e rimase come in bilico sulle ginocchia, poi cadde di faccia nella cenere.
– Il… mi… o… te… s… oro…! – rantolò e pippò l’ultimo respiro.
Civoli aveva fatto centro al primo colpo. Il tenente pilota tirò su il pollice. L’elicottero si alzò.
Il cadavere steso sulla riva del fiume, il ponte, la gente affacciata, le volanti, i tetti, Castel Sant’Angelo, San Pietro, il raccordo anulare, il mare.
Il mare.
(2005)