Ogni volta che sale le scale è convinta che è morta. È morta e non le era accanto. I gradini a due a due. In apnea. Potrebbe prendere l’ascensore ma le viene la claustrofobia… Meglio le scale. Hhhhahhh hhhahhh prim… hhhahh hhahhh second… Uffff terzo piano. Odore di varechina. Giorno di pulizie. Finalmente. Con quello che si paga. Attraversa il corridoio. È lungo. Scuro. Un merdoso color crema alle pareti che intristisce tutto. Un genio quello che ha disegnato l’arredamento. In quel corridoio ci sono 73 faretti alogeni con 63 lampadine Osram, 15 finestre e 24 prese elettriche, 36 sedie. Li ha contati la sera dell’operazione quando non tornava piú su. Quando le avevano raccontato che sarebbe stata sotto i ferri due, tre ore al massimo. Sei ore. Sei infinite ore.

Fumava e mentre sua madre era aperta come un pollo pensava a Pietro. Chissà dov’era? Perché teneva il telefonino spento? In mare aperto i telefonini non prendono. Io qui con mia madre che muore. E tu in barca con quella stronza. Si era appoggiata alla ringhiera, la sigaretta in bocca e aveva provato. Tre volte. L’utente non è al momento raggiungibile. E se avesse risposto, che gli avrebbe detto? Scusa potresti mollare la barca e venire da me che sto di merda e mia madre sta morendo. Quello si faceva il giro del mondo. Lo aveva conosciuto una settimana prima che partisse per la Grecia e due settimane prima che sua madre fosse portata in ospedale d’urgenza. Due volte. Avevano fatto l’amore due volte. E non aveva capito se per lui era sufficiente cosí o si riprendeva a settembre. Di lui le rimaneva solo uno stupido numero di un cellulare non raggiungibile.

Sua madre moriva e lei pensava a uno che probabilmente si scopava tedesche raccattate sulle spiagge di Rodi.

Ora avanza lungo il corridoio. Nella stanza delle infermiere si ride. Dev’essere la caporeparto. Gira a destra. Una specie di zombi le viene incontro ciabattando. Si trascina una gamba. Ha una sottana con sopra tanti bambi e tippete. Una fasciatura intorno alla testa gli copre un occhio. Struscia contro un muro. Lei accenna un sorriso. Lo zombi la supera come se non esistesse. Come se ci fosse un fantasma appollaiato sul distributore di caffè. Avanza. Una dorme su una barella. È quella della 124. Quella con il tumore all’esofago. La portano a operarsi? Quella con la figlia simpatica. Di Macerata. Eccoci.

Stanza 131. Centotrentuno. È morta, lo so. Apre la porta. Ed è morta. Mia madre è morta. A bocca aperta. È morta. Si avvicina. No. Non è morta. Respira. Piano. Ma respira. Ogni volta stessa storia. Ogni volta è convinta che è morta e invece respira. Fa troppo caldo in questa stanza. Bisogna aprire. Aria. Quella cretina dell’infermiera negli ultimi giorni non c’è piú con la testa. Dev’essere perché il fidanzato l’ha lasciata. Ma che vuol dire, a tutti succedono cose brutte ma non significa che ti dimentichi il tuo lavoro, no? Prima o poi deve dirglielo. Deve trovare il coraggio. Apre la vetrata. Ahhh. Le cicale. Che bella giornata. Roma è vuota. Stanno tutti al mare con questo sole. Pietro perché non chiami? Che diavolo ti costa? Si avvicina al letto. Le aggiusta il lenzuolo. Ha la fronte sudata e calda. Gliel’asciuga. La dentiera è in quel bicchiere da due giorni. Bisogna cambiare l’acqua. Anche la sacca dell’urina è quasi piena. Ma che diavolo fanno in quest’ospedale? La guarda. Poi le prende una mano. Come fa? Come fa a continuare? Le hanno tolto metà intestino. Poi le hanno tolto il settanta per cento dello stomaco. Ha un cuore che è un orologio. Il chirurgo dice che durante l’operazione non ha perso un colpo. Chissà quanti battiti ha fatto. Settantadue anni per… Quante volte al minuto batte il cuore? Se ne avesse uno piú debole forse… Prende la spazzola. Le pettina i capelli. Sono bianchi. Lunghi. Non li ha mai tenuti sciolti. A proposito dov’è la retina? Nella valigia. Bip. La macchina. Ogni tanto questa macchina che controlla le flebo fa qualche strano suono. È normale, dice l’infermiera. Da quando le hanno messo questa macchina non soffre piú. Chissà che intrugli di droghe le getta nelle vene. Solo che se n’è andata. Dorme sempre. Sembra in coma. È svenuta. Non c’è. Ma non soffre. Questa è la cosa importante. Il viso è disteso. La bocca è rilassata e tutte quelle rughe che le segnavano la faccia sono meno tirate. Che ore sono? Le due e un quarto. Non ho ancora capito se c’è il fuso in Grecia. Apre la borsa. Due bei tramezzini che sanno di cartone. Li poggia sul tavolo. Sposta la poltrona e la mette tra la stanza e il terrazzino. Un po’ di respiro. Si siede. Addenta il tramezzino. Tira fuori dalla borsa «Amica» e due libri. Li ha comprati dal giornalaio qui sotto. Ha pensato che visto che passa tutto il giorno in quella stanza almeno legge. C’era poca roba. Ha preso Kheops di Christian Jacq. Lo ha comprato perché vuole capire perché ha avuto tanto successo, e poi l’antico Egitto le piace. Dev’essere una stupidaggine ma forse ti prende. E poi ha comprato il Deserto dei tartari di Dino Buzzati in edizione tascabile. Non ha mai letto Buzzati. Qualcuno, non si ricorda chi, le ha detto che è molto bravo. Chi gliene ha parlato? Continua a pensarci. Non importa. Apre a caso e legge: «Ventidue mesi sono lunghi e possono succedere molte cose: c’è tempo perché si formino nuove famiglie, nascano bambini e incomincino anche a parlare, perché una grande casa sorga dove prima c’era soltanto prato, perché una bella donna invecchi e nessuno piú la desideri, perché una malattia, anche delle piú lunghe, si prepari (e intanto l’uomo continua a vivere spensierato), consumi lentamente il corpo, si ritiri per brevi parvenze di guarigione, riprenda piú dal fondo, succhiando le ultime speranze, rimane ancora tempo perché il morto sia sepolto e dimenticato, perché il figlio sia di nuovo capace di rider…»

Lo chiude. Quanto tempo è passato? Quando mamma ha incominciato a non mangiare? Che era? Un anno fa? Di piú. Era Natale. Alla cena di zia Enrica. Madonna mia. Sedici. Diciassette mesi. Ventidue meno diciassette. Cinque. Cinque mesi. Non vivrà ancora cinque mesi e io allora non sarò capace di ridere. È passato un mucchio di t…

– Maria? Ma…?

Si è risvegliata. È tornata. Due giorni di buio e ora è qui. A occhi chiusi. Apre e chiude la bocca. Come un pesce.

– Ho sete, – sussurra. – Tanta sete.

Le versa un bicchiere. Le alza la testa. Beve voracemente e l’acqua le cola giú, fino a bagnarle la camicia bianca.

– Piano che ti strozzi. Piano.

Poi le poggia la testa sul cuscino. E l’asciuga. E la bacia. Sulla fronte. Sulle guance. Le accarezza i capelli. – Come va? – ripete. – Come stai mammina? Come va? – e la madre indica lo stomaco.

– Fa male, vero?

Fa segno di sí con la testa e poi apre gli occhi. Non li ricordava cosí chiari. O forse si sono stinti negli ultimi due giorni. Grigi come i ciottoli della spiaggia. Sorride. Appena.

– Ti ho vista, sai? Stavi leggendo? – dice con un filo di voce.

– Sí. Leggevo.

Il telefonino squilla. Ora? Adesso!

– Scusami, mamma –. Apre la borsa. Numero non disponibile. E se…? Risponde.

– Pronto.

– Pronto Chiara!? Mi senti?

– Sí, ti sento. Pietro?

– Sono io. Sono a Rodi. Ho provato a chiamarti un sacco di volte. Non prendeva. Tutto bene?

Abbassa il tono della voce. – Sí… No, mia madre non sta tanto bene.

– Mi dispiace. Senti, io torno tra una settimana. Ci vediamo quando torno? Volevo sapere solo questo. Ti ho pensata.

– Sí… Va bene.

– Bene. Ti devo salutare, scusa… Non ho piú soldi. Ti bacio.

– Anch’io.

Abbassa.

Guarda sua madre. E sua madre è morta. È morta. No. Respira. Piano. Ma respira.

(2000)