a Stefano Massaron

La maggior parte degli inquilini del mio palazzo sono serial killer. Siamo rimasti in due a non commettere omicidi seriali al numero 117 di via Enrico Fermi.

Lo devo ammettere, non ho mai ammazzato nessuno. E nemmeno fatto a botte.

E sono sicuro, abbastanza sicuro, che neanche Giovanni Bigazzi, lo studente di Cesena che fa tanto il fichetto, abbia fatto fuori qualcuno. Quando siamo in ascensore non ci parliamo mai e ci guardiamo appena. Colpevoli tutti e due. Gli altri inquilini sono sicuramente psicopatici con gravi turbe della sfera sessuale e con problemi assai seri nelle relazioni affettive, ma noi due no.

Noi due stiamo…

Come stiamo?

Vabbè. Lasciamo perdere.

È facile capire che i miei condomini sono serial killer. Sono rispettabili. Irreprensibili. Sicuri. Padroni. Sostengono il sindaco e il Giubileo. Frequentano. Riciclano. Hanno cambiato il senso di marcia sul lungotevere. Vedono i film solo in dvd. Disprezzano i fratelli Taviani.

Sono di un’altra razza.

Non hanno niente a che fare con me e Bigazzi.

Bigazzi passa la notte sui libri studiando, mangiando polli di rosticceria. Il venerdí sera torna a Cesena. Quel testa di Bigazzi. Quanto lo odio. Quante cose abbiamo in comune, cose che disprezzo.

La mattina, dalla mia finestra, vedo i miei vicini uscire in giacca e cravatta in una nuvola di after shave, con l’occhio brillante, la frangetta senza forfora, la cartella della Bottega Veneta, montare sui loro scooter carenati per andare a lavorare in qualche agenzia di pubblicità.

Nelle loro tane hanno degli scannatoi completi di home theater e Dolby Digital 5.1. Quando tornano a casa si spogliano nudi, si fanno un bagno in una vasca piena di sangue e bagnoschiuma al ribes, si mettono al collo una collana di vertebre, inseriscono nel lettore Mega-bass Harman Kardon un cd di Donatella Rettore (introvabile per noi, sempre presente nelle loro collezioni) e con l’uccello duro e una motosega entrano in salotto dove prostitute nigeriane, zingare, operatrici ecologiche, infermiere, pranoterapiste sono legate ai termosifoni e lí si dedicano al loro studio preferito: l’anatomia aliena.

Non ho alcuna prova che Pietro Ruggero, il giovane architetto del terzo piano, sia il famoso killer delle ragazze che curano gli uffici stampa delle case editrici milanesi, ma non so perché ho la sensazione che sia proprio lui.

Pensate se vivesse nel mio palazzo. Sarebbe bello.

Cresce, il ragazzo. Sta diventando importante, incomincia a essere considerato una star nella cerchia del nostro Paese. Qualcuno dirà che il sociopatico che ammazza quelli che vanno da Gigi Marzullo, o quello che ammazza i manager proprietari di Harley-Davidson, è piú famoso. D’accordo. Ma anche Ruggero non è niente male. Veramente.

Io sono sicuro che è lui.

Una volta, per farvi un esempio, gli ho suonato a casa e quello ha aperto uno spicchio di porta, era nudo, la faccia congestionata, l’occhio acceso.

– Mi scusi, – ho detto. – Sono Riccardi…

– Riccardi?

– Riccardi. Antonio. Vivo al quinto piano. Mi scusi se la disturbo… Ho finito il limone. Sto preparando le scaloppine. Non ne avrebbe anche solo una fettina?

– No, mi dispiace. Sono a dieta. In frigo ho solo un paio di femori, una milza, due pancreas, un intestino, un feto di due mesi e uno yogurt Müller alle banane. Niente limone.

A bruciapelo, tecnico, gli ho sparato lí: – Non è che ha il numero di Alberto Bevilacqua, lo scrittore della Califfa e di GialloParma?

E da dietro, da lontano, una voce femminile incredibilmente sofferente ha sospirato: – Il numero di Roma è 06453211 ma dal mercoledí al venerdí non c’è. È a Milano. I libri bisogna mandarli alla sorella cosí lui se li prende il sabato, quando va a mangiare da lei.

Be’, piú chiaro di cosí?

1. Betta.

Il cobra non è una biscia.

DONATELLA RETTORE

Sono diventato anch’io un serial killer.

Era una cazzata grossa come il mare che bisogna essere degli eletti, dei geni, per diventare assassini seriali.

È facile. È tranquillo.

Se ce l’ho fatta io, ce la potete fare pure voi.

Basta crederci. E impegnarsi. Quel tanto che basta.

Sono troppo felice.

Pensate che sono stato invitato (viaggio e soggiorno tutto gratis!) al terzo congresso internazionale dei serial killer che si tiene a Reggio Emilia ogni novembre.

Come rosicano i miei vicini di casa.

In realtà devo tutto alla mia fidanzata, Betta, se sono diventato un serial killer di fama internazionale (o meglio, invitato ai meeting internazionali).

Una storia come tante. Ci conosciamo, ci incontriamo, andiamo al cinema, scopiamo, scopiamo di nuovo, ci fidanziamo. Stiamo insieme per qualche mese ed era abbastanza bello ma c’era un problema: lei voleva che andassi a dormire a casa sua e io che venisse lei da me.

Abitiamo lontano. E questo potrebbe pure andare. Mentre vai ti senti la musica in macchina. Che te ne frega? Ma sotto casa sua non c’è un parcheggio neanche a… Devo dire che pure sotto casa mia non è che ci sia tutto questo posto.

Quanto ci siamo litigati per ’sta storia… Alla fine abbiamo deciso di fare un giorno da lei e uno da me.

Preciso.

Niente da dire.

Quando è venuto il caldo però da lei si schiattava, viveva in un sottotetto e quindi le ho proposto di trasferirsi a casa mia. Solo fino a quando tornava il fresco. Figuriamoci. Si è incazzata come una bestia. Ha detto che se non ero capace di sopportare un po’ di caldo (cinquanta gradi) voleva dire che non l’amavo, che ero un egoista, un insensibile. E quindi, in un paio di giorni, mi ha lasciato.

– Non ti far sentire e vedere mai piú! – ha frignato sbattendomi fuori di casa.

Devo dire che non l’ho presa bene, soprattutto quando, dopo nemmeno due giorni, ho saputo che si era rifidanzata con un certo Falafel, un arabo.

Un arabo ci stava come a casa sua, in quel forno.

Per tirarmi un po’ su sono andato ad affittarmi l’ultimo lungometraggio di Aurelio Grimaldi, La donna lupo, con Loredana Cannata, da Blockbuster.

Quando sono andato a pagare, la cassiera, una ragazza cicciottella (circa due chili di sovrappeso, capelli crespi e secchi, priva di tette), mi ha fatto notare che tre cassette non erano state ancora riportate.

Da ben cinque giorni!

No! Le avevo lasciate da Betta, porca la miseria.

E ora come facevo? Che cazzata tremenda! Si può essere piú deficienti di me?

È possibile?

Niente, dovevo chiamarla e chiederle se, per favore, poteva riportarle lei; se non poteva, non importava, passavo io a casa sua e le riportavo io.

Mi costava parecchia fatica fare quella telefonata («Non mi sentirai mai piú in vita tua, troia!» le avevo detto appena una settimana prima) ma era necessaria. Ogni stramaledetto giorno che passava erano diecimila lire. Cinquantamila erano già partite.

Era imperativo bloccare lo strozzinaggio di Blockbuster.

Presi un bel respiro e chiamai.

– Pronto sono Antonio…

– Antonio chi?

Era il vecchio Falafel.

– Antonio Ricc…

– Ah, l’ex! Che fai, non ci stai? Torni alla carica? Non ti abbatti, eh?

– Come, scusa, non ho capito…

– Non ci vuoi stare che Betta ti ha mollato e che ora sta con me, con un arabo, un extracomunitario. Tu devi essere un po’ razzista… E anche mortalmente noioso, almeno da quello che dice Betta –. Falafel aveva una parlata decisamente romana.

– No. Assolutamente. Anzi. Mi potresti passare Betta?

– È uscita. Che vuoi da lei? Vuoi invitarla a cena per recuperare il disastro? Vuoi un consiglio? Lascia perdere. Sai che ho fatto? Vuoi sapere che ho fatto?

– Che hai fatto?

– Le ho regalato un Pinguino DēLonghi. Ora è felice. E si sta freschi. Sei un micragnoso… Per due miserabili milioni ti sei perso una donna eccezionale.

Pezzo di merda. – Quando torna? È abbastanza urgente.

– Puoi dire a me.

– Ascolta. Ci dovrebbero essere tre cassette di Blockbuster che ho lasciato lí…

– Che fenomeno singolare! Me ne sto vedendo una proprio adesso. Che cagata incredibile. Nove settimane e mezzo - Atto quarto. Come si fa ad affittare un film cosí schifoso? Fa cosí schifo che non te lo fa venire neanche duro, anzi. Potrebbero usarlo nei casi di priapismo. Vedi ’sta roba e ti si ammoscia. Come fai a vederla?

– È una pellicola modesta, lo so, solo che c’era Naomi Hunter… E poi, scusa, io vedo quello che mi pare.

– Mi ha detto Betta che tentavi di eccitarla con questa roba e che lei voleva vedere Lars von Trier. Ho visto che hai affittato anche Malizia 2000 e Paprika. È normale che ti mandano a cacare. Non ti lamentare, allora.

M’incominciavo a innervosire. – Quelle cassette vanno riportate subito. Oggi stesso. Sennò devo pagare un… Devo venirle a prendere. Ci sei a casa?

– No, mi dispiace, sto uscendo. Le riporto io. Tranquillo. A via Nomentana, vero?

– Sí. Quando le riporti?

– Oggi stesso.

– Sicuro?

– Fidati.

Abbassai.

Falafel non mi piaceva neanche un po’, ma almeno riportava le cassette.

Il giorno dopo sono andato da Block e ho preso Ginestra Selvatica, il remake di Orchidea Selvaggia con la nuova star cinese del softcore Mei Ling. Ho tirato fuori la tessera e la cassiera cicciottella ha scrutato come una pernice lo schermo del computer e ha scosso la testa con disappunto. – Ci sono tre cassette. Che non sono ancora state riportate… Oramai siamo a piú di settantamila!

Mi sono dovuto poggiare al bancone per non cadere. Mi girava la testa. – Scherza?

– Eh già, noi stiamo qui a divertirci.

Dio, quanto la odiavo. Le avrei infilato su per il culo quegli enormi lecca lecca a forma di dildo che stavano accanto alla cassa. Non prima di averli rigirati in un formicaio.

Ho mollato Ginestra Selvatica e sono tornato di corsa a casa.

– Falafel, sei tu?

– E chi deve essere?

– Mi passi Betta, per favore?

– Non c’è.

– Non hai riportato le cassette!

– Certo che le ho riportate…

– Giuda, non è vero!

– Te lo giuro…

– Spergiuro! Spergiuro! Non giurare che è meglio! Ci sono stato oggi!

– Mi fai finire di parlare? Sono andato verso… Che potevano essere? Circa le tre di notte. Ed era chiuso.

– Ovvio. A quell’ora. Potevi metterle nella buca… È fatta apposta! Per i ritardatari come te. Il servizio ventiquattr’ore su ventiquattro.

– Non l’ho vista. Dov’era?

– Senti, lascia perdere. Passo io a prendermele. Me le metti in ascenso…

– Mi piace Laura Antonelli.

– Laura Antonelli?

Malizia 2000.

– Hai capito? Vengo ora a prendermi le cassette.

– No, sto uscendo. Te le riporto io. Devo andare lí vicino. Veramente, per gli ex di Betta questo e altro.

– No, è meglio che lo faccio io. Sono piú tranquillo. Veramente. Queste cose mi fanno venire l’ansia.

– Veramente, non mi costa niente.

– Giuramelo.

– Te lo giuro sulla testa di Betta. Sei contento?

– No.

Sono tornato il giorno dopo da Blockbuster. Ero abbastanza felice. Veniva da me a pranzo Aurelio Picca, un noto scrittore di Velletri che ha pure vinto il premio Grinzane Cavour. Volevo fargli vedere La donna lupo con Loredana Cannata e preparare un barbecue con salsicce, fegatelli e scamorze. Sono arrivato alla cassa e la solita commessa mi ha preso la tessera, ci ha passato lo scanner e con un sospiro ha detto: – Ha trentasei cassette da riportare.

– Trentasei cassette? – Sono trasalito. – Che vuol dire?

– Ieri un suo amico, a suo nome, ha affittato trentatre cassette. Tutti i capolavori del cinema iraniano e i grandi maestri del cinema bulgaro. Ha molto gusto, il suo amico…

PERCHÉ GLIELE AVETE DATE, PERCHÉ?

– Non urli, si calmi…

IO NON MI CALMO PER NIENTE!

– Non lo sa che questo è il mese dell’amicizia?

– Cazzo significa?

– Non dica male parole. Da Blockbuster è proibito. Il mese dell’amicizia è una speciale offerta in cui gli amici degli abbonati possono prendere tutto quello che gli pare tanto pagano i titolari della tessera. Il suo amico ha usufruito della promozione e ora lei deve pagare e riportare al piú presto i supporti video noleggiati. Ogni giorno di ritardo sono seicentotrentacinquemila lire.

– Naaaaa…

2. Aurelio Picca.

Vorrei scappare, ma i peschi sono in fiore.

DONATELLA RETTORE

Lo scrittore Aurelio Picca era alto, asciutto e slanciato come un ghepardo. La fronte antica, il teschio etrusco. Parte della calotta cranica era coperta da una discreta quantità di capelli neri tenuti rigorosamente indietro con il gel. Gli occhi neri come mica, attenti a cogliere gli aspetti piú interessanti del mondo che lo circondava, erano nascosti da un paio di occhiali da sole Shaman di tartaruga e teak. «Uno scrittore si deve guardare intorno, osservare», amava ripetere. Ora si stava guardando intorno e niente, non c’era un fottuto buco dove lasciare la sua Mini Cooper.

Ogni volta che veniva a Roma a trovare il suo amico Antonio Riccardi la stessa storia.

A Velletri la macchina la lasci dove ti pare, questa è civiltà.

Alla fine piazzò il bolide davanti ai cassonetti della spazzatura. Scrisse con la sua Parker Thunderbird su un foglio: QUESTA SEMBRA UNA MACCHINA, MA NON LO È. È UN COBRA. TOCCALA E SEI MORTO.

Convincente, si disse soddisfatto.

Uscí dalla macchina, aprí il bagagliaio e tirò fuori una busta della Pork House di Ariccia (due chili di braciole di maiale, due chili di salsicce, due chili di porchetta).

Picca quel giorno indossava un completo di lino color carta da zucchero Armani, una camicia di Battistoni a righe rosse e bianche con il colletto a tre bottoni, una cravatta di Marinella di seta regimental, calzini blu Ragno e un paio di sandali di cuoio di Ferragamo.

Diceva di essere tale e quale a Pierce Brosnan, l’ultimo 007. Ma si sbagliava. Cesare Lombroso lo avrebbe classificato come «homo dei castelli». La porchetta era la sua carta d’identità, il pane cafone il suo lasciapassare.

Quando entrò in casa del suo amico, lo trovò dentro la vasca da bagno che piangeva disperato. A Picca vedere un uomo piangere gli faceva venire la gastrite. S’incupiva. – Forza, esci da quella vasca.

– Sono rovinato. Finito. Sto a pezzi. Forse devo fare una vacanza, fuggire in Messico. Betta mi ha mollato. E Blockbuster vuole la mia morte.

Picca si tirò su il fondo dei pantaloni, si sedette sul cesso e cominciò a passarsi il filo interdentale. Riusciva anche a parlare. – Premetto che secondo me stare con una donna è fico. Intanto non stai solo e poi ci esci, ci vai a mangiare fuori, ci scopi. Però danno pure un sacco di grane. Non riesci piú ad avere un attimo di pace, è impossibile scopare in giro e ti ritrovi il sabato pomeriggio a scegliere le maioliche per il cesso… No, single si sta meglio.

– Io sto di merda –. Antonio Riccardi si tirò fuori dalla vasca e si sedette su uno sgabello asciugandosi i capelli. – Ho un grave problema finanziario. Aure’, dimmi una cosa, ma tu sei mio amico?

– In che senso?

– Faresti tutto se un tuo amico è nei casini?

– Tutto.

– Veramente?

– L’amicizia è tutto, Antonio. Lo sai come la penso.

3. La scippatrice di anime.

Ti prometto che mangerò e        

non mi nutrirò solo del tuo viso.

DONATELLA RETTORE

A bordo della Mini Cooper siamo io e Aurelio Picca. Il lungotevere è un delirio. È l’ottava volta che hanno invertito il senso di marcia, i bastardi. Alla radio c’è la Rettore che canta: «Donatella è uscita e a casa non c’è!»

– Che casino, – osserva Picca senza innervosirsi. È abituato al traffico. La via dei laghi è sempre un bordello.

– Quando arriviamo lí tu mi segui. Tranquillo. Manzo. Non ti incazzi. Non fai di testa tua. Non fai un cazzo. La tua presenza deve solo incutere timore e rispetto a Falafel. Si deve cacare sotto e darci le cassette e i soldi. Non fare come al solito, mi raccomando.

– Basta che vede questo gioiellino e si caca sotto, – sghignazza e tira fuori da sotto il sedile una mitraglietta Uzi.

– D’accordo. Ma non metterti a sparare subito –. Io tiro fuori un fucile Remington a pompa e controllo che sia carico.

– Fidati.

Vorrei che le cose tra me e Betta fossero andate in modo diverso, cazzo. Ero sicuro che con lei avrei avuto un rapporto civile, non come con tutte le altre ex.

M’infilo il passamontagna.

Inchiodiamo la Mini sotto casa di Betta e proprio in quel momento si apre il portone ed escono fuori, stringendosi la mano, la mia ex e il suo nuovo fidanzato.

L’ignobile Falafel.

Centotrenta chili d’ignoranza distribuiti su una superficie di un metro e sessanta per un metro e dieci (circonferenza del punto vita). È ricoperto di peli, soprattutto sulle spalle spioventi. La testa è grossa e liscia come un’anguria. Ha uno sguardo cattivo e acido, da pantegana, da pusher di Beirut. Un naso che sembra uno stronzo di cane. Tra le labbra umide spunta uno stuzzicadenti. Addosso ha una canottiera di lana lercia, una papalina viola, un pantalone corto a rombi Sergio Tacchini da cui spuntano due zampe larghe come colonne fecali. Ai piedi calza delle ciabatte di plastica rosa De Fonseca.

Betta invece è uguale a Cameron Diaz, solo meglio. Oggi sfoggia il vestitino rosso semitrasparente che le ho regalato io quando abbiamo festeggiato un mese di fidanzamento e che fa risaltare perfettamente i suoi novanta sessanta novanta. Ai piedi dei sandali capresi.

Falafel ha un sacco dell’immondizia in mano.

Non ci hanno visto.

Slegano lo Scarabeo. E fanno tutto maledettamente in fretta. Guardandosi intorno. Cos’avranno mai da nascondere? Ho un brutto presentimento. In quel sacco ci deve essere la refurtiva.

I video di Blockbuster.

Me lo dovevo immaginare. Il vecchio Falafel vuole rivendersi i maestri del cinema bulgaro e i capolavori del cinema iraniano a qualche collezionista senza remore.

Ma si è sbagliato alla grande.

Se la dovrà vedere con me.

– Usciamo senza farci vedere, – spiego ad Aurelio che si è infilato anche lui il passamontagna ed è pronto a scattare come un toro di Pamplona dietro i cancelli. – Gli arriviamo alle spalle e li fermiamo.

– Bene. Sono pronto.

Smontiamo dalla Mini armi in mano. Passiamo, accucciati, accanto alle macchine accostate al marciapiede. Saranno a una decina di metri. Betta sta infilando la catena nel bauletto posteriore.

– Ora io m… – Non ho neanche il tempo di finire la frase, di coprirlo, che Aurelio scatta in avanti. – Aspett…

Con un balzo da giaguaro, impossibile per un normale essere umano, supera in volo una Peugeot 205. – Dove credete di andare? – Cade a terra. Rotola. Si rialza. Estrae alla velocità del suono le due Uzi con il calcio in madreperla. E gliele punta contro. – Vi consiglio di non fare mosse azzardate. Potrebbe finire male. Assai male. Dove sono le cassette?

Betta alza le mani ma Falafel non si lascia impressionare. – Quali cassette?

– Non ci fare lo gnorri. Non lo fare. Caccia fuori le cassette!

– Non ho nessuna cassetta. Se cerchi cassette ti consiglio di andare ai mercati generali.

– Falafel, il tuo senso dell’umorismo è piú scadente del latte della centrale.

Falafel allarga le braccia e con la voce di una creatura innocente dice: – Perché ce l’hai con me? Che ti ho fatto?

– Dammi i video sennò ti strappo quello stuzzicadenti da bocca e te lo appunto sulle palle. Forza.

Picca delira, crede di essere Mel Gibson. A volte gli piglia cosí. Speriamo che gli passi presto.

– D’accordo, ecco qua le cassette –. L’arabo getta a terra il sacco che tiene in mano. – Ma che diavolo ci devi fare?

– Dimmi una cosa, Falafel, ma tua madre ha partorito anche dei figli normali? Vanno riportate immediatamente da Blockbuster. Forse al tuo Paese la gente affitta le cassette e poi se le tiene, qui non funziona cosí. Questo è un Paese civile.

Non ho detto che Picca è un po’ razzista e soprattutto non riesce mai a fare quello che gli si dice, porcalamiseria. Io mentre lui fa il gradasso continuo a starmene accucciato dietro la macchina. Non voglio fare figure di merda con la mia ex.

– Ma tu sei Aurelio Picca, il famoso scrittore? – dice Betta con la stessa voce di una fan isterica che vede Gianluca Grignani levarsi gli slip.

– Certamente. Si vede? – fa lui tronfio.

Betta gli si butta ai piedi. – Nooo, non è vero. Io ho letto tutti i tuoi libri almeno tre volte. Il tuo primo romanzo… Il capolavoro… Come si chiama, oddio?

L’esame di maturità.

– Esatto. È un libro immenso, che mi ha toccato qua. Proprio qua –. Gli prende la mano e gliela poggia sul petto generoso. – Sei il meglio di tutti. Le tue dita sono state toccate dal Signore. Se Thomas Pynchon fosse nato a Genzano non sarebbe mai riuscito a dare quello che hai dato te.

Non è vero. Lo sta fregando! Picca si sta facendo fregare da quell’infame di Betta. Betta legge solo i libri di De Carlo. Lo so benissimo. Se incominci a fargli i complimenti Aurelio si scioglie come una medusa sulla spiaggia di Fregene. È maledettamente sensibile ai complimenti. Perde di vista la situazione.

– No, è esattamente cosí. È che io sono un bisturi affilato che seziona l’animo umano. Io e Alex Baricco siamo due maledettissime realtà della letteratura italiana, ed è meglio farci i conti il prima possibile. È incredibile ma i nostri libri si leggono cosí in fretta che tu, lettore, quando lo avrai finito, non saprai mai cosa ti è successo. Semplicemente sei diventato migliore, ora sei un intellettuale. Quando ti compri un mio libro, io ti faccio un regalo superiore: ti regalo gli strumenti per interpretare questo pianeta di merda. Quand…

ra ta ta ta ta ta ta.

Falafel prova a scappare. Si tira dietro Betta come fosse una bambina. Superano le macchine posteggiate e si lanciano in mezzo alla strada. Tra le macchine, i motorini e gli autobus che suonano e inchiodano e gli automobilisti che urlano, strillano, fanno le corna.

Falafel ci punta contro il suo fucile a pompa e spara. Esplode in un miliardo di cubetti la vetrina di Mondo Cane, un negozio di animali. Un cucciolo di pitbull, un maiale pigmeo, un lemure e un paio di pappagalli dalla cresta blu scappano per strada.

Vedo Aurelio che si prepara. Gambe larghe. Ginocchia leggermente piegate. Culo in fuori. Schiena arcuata. Naso che fende l’aria come l’alettone di un sottomarino. Gli occhi due fessure buie. Le braccia in avanti, tese ma non rigide. La grossa pistola stretta tra le mani. La posizione è perfetta. Si è trasformato in uno strumento di sterminio. È un ibrido di carne e acciaio con un unico compito: togliere la vita, mettere a zero le reazioni biologiche piú elementari, trasformare materiale organico in cibo per batteri saprofaghi, per funghi, per larve e vermi. Per riportare carbonio, acqua, ammoniaca alla terra avida di sostanze chimiche.

Nutrimento per le piante. Concime.

Io vorrei dirgli di non sparare. Vorrei pregarlo di non farlo. Ma il frastuono dei colpi di Falafel mi ha reso quasi sordo e Aurelio è una bomba innescata e non ci saranno parole, preghiere, niente che gli impedirà di compiere il suo dovere.

– Nooo!!! – urlo.

Aurelio spara.

Il corpo del killer si piega un attimo per assorbire il colpo.

Vedo il proiettile esplosivo placcato in oro dalla gioielleria Rubiconi di Albano Laziale uscire dalla canna dell’Uzi e passare tra i tavolini del bar a una velocità di circa ottocento chilometri l’ora e infilarsi nel finestrino di una Regata parcheggiata, attraversare l’abitacolo, portarsi via il naso del conducente e l’Arbre Magique alla cannella e sbucare dall’altro finestrino e proseguire tra le macchine, incunearsi nello zainetto Invicta di uno studente in sella a un vespino, attraversare l’agenda Stile Libero Einaudi e l’ultimo romanzo di Massaron e rispuntare piú aggressivo che mai dall’altro lato, avanzare adesso alla velocità di seicentoquarantadue chilometri l’ora tra macchine e tram e finalmente, micidiale e stupido portatore di morte, andarsi a piantare come un meteorite infetto nella scapola di Betta e lí esplodere.

Il braccio destro, il seno destro, lo sterno, la parte destra della cassa toracica, il polmone destro, il fegato, il rene e gran parte delle viscere di Betta si disintegrano.

– Nooo!!! Cazzo, Aurelio. Hai ammazzato la mia ex!!! Sei il solito stronzo! – mi sgolo.

Però Betta continua a camminare. Nonostante le manchi la metà destra del tronco. La mano nella manona di Falafel. Negli occhi le leggo smarrimento, paura, piú che dolore. Avanza al rallentatore.

Per lei non ci saranno piú gite al lago di Martignano. Nottate sul ponte del traghetto per le Eolie. Tramezzini da Antonini. Non ci sarà piú lo shopping da Ikea, non ci saranno piú i film alle quattro con lo sconto pomeridiano, non ci saranno piú file alla segreteria della facoltà. Non ci sarà piú il cambio di guardaroba a fine stagione. Non ci sarà piú niente. Solo la glaciale e fredda incoscienza dell’eternità senza Dio.

Da qualche parte, non so da dove esattamente, appare tra le macchine un essere nero, un corvaccio nero, una specie di fantasma incappucciato che assorbe luce e che plana verso Betta, ha una falce scintillante tra le mani. Si avvinghia come un totano alla mia ex. Le squarcia il cuore, le scippa l’anima e si dilegua.

– Falafel, muoio. Falafel, amore mio. Mi raccomando, riporta le cassette da Blo… Blo… Anto… ci tien… Giuramelo… su… n… amorehhhh.

Il 58 barrato proveniente da piazzale Zama superò l’incidente e i morti e proseguí verso il Vaticano senza perdere neanche un secondo sulla tabella di marcia. I passeggeri del tram, appiccicati ai finestrini come mosche, non avvertirono neanche il rumore della plastica che si deformava e si disintegrava sotto le ruote d’acciaio.

4. Le segrete.

Io avrò una faccia nuova

grazie a un bisturi perfetto.

Invitante, tagliente,

splendido splendente.

DONATELLA RETTORE

Antonio Riccardi è in taxi. Con un occhio guarda al tassametro, con l’altro osserva affranto quello che resta dei supporti video affittati: pezzi di plastica nera, ingranaggi, molle e una matassa ingarbugliata di pellicola magnetica. Su trentasei cassette solo una se n’è salvata: Yol di Şerif Gören e Yilmaz Güney, prodotto nel 1982 in Turchia.

Riccardi è silenzioso, introspettivo, seduto sul sedile posteriore di una Fiat Marea diesel che lo sta portando da Blockbuster. Esamina la sua situazione, sonda tutto con un’obiettività fredda, matematica, con una logicità semplice e puntuale, considera le diverse possibilità che gli restano, pesa e ripesa le soluzioni, anche quelle piú strampalate, con imparzialità da giudice della corte suprema e giunge, finalmente, a una conclusione: è nella merda fino al collo.

INTERVISTA RILASCIATA AL «GAZZETTINO DI ORISTANO»

DAL FAMOSO EDITOR ANTONIO RICCARDI DIVENTATO NOTO
AL GRANDE PUBBLICO PER AVER UCCISO TUTTI I DIPENDENTI DEL BLOCKBUSTER DI VIA NOMENTANA

Allora ci racconti, brevemente, cosa le è successo appena entrato da Blockbuster.

Allora… appena ho mostrato le cassette rotte, sono apparsi due bestioni vestiti con la divisa di Blockbuster e mi hanno trascinato nell’ufficio del direttore. Non sapevo che esistesse una stanza del direttore. Una stanzetta piccola, nascosta dietro gli espositori dei film d’azione. Un ufficetto squallido con le pareti bianche e senza finestre. La moquette rossa. Al centro un tavolo, dietro cui è seduto un ometto pelato e gobbo con una divisa di Blockbuster coloniale. Era una specie di mostro, ricordo che aveva degli occhiali tondi che poggiavano su una specie di buco, e soffriva di asma e un rivolo di bava gli colava dalle labbra umidicce. Alle sue spalle c’era una bandiera su cui era ricamata una grossa aquila reale che planava davanti a un sole rosso e tra gli artigli stringeva una cassetta. Tra le nuvole c’erano i volti di Demi Moore e Sylvester Stallone.

Aveva paura?

Molta. Il direttore mi ha porto il dizionario universale dei film del Mereghetti e mi ha fatto giurare che avrei detto tutta la verità, nient’altro che la verità.

Quale edizione?

Non ricordo. Doveva essere quella del 1998. Ma non ci metterei la mano sul fuoco. Ho provato a spiegare che era stato un incidente, che non era colpa mia, che forse le cassette si potevano mettere a posto, che potevo provarci io ma loro erano sicuramente piú esperti…

E poi?

Mi ha chiesto perché di tutti i film solo Yol si era salvato. Io ho indugiato un attimo e mi ha colpito con un manrovescio che mi ha portato via un’otturazione… Ho detto, tamponandomi il sangue che mi colava dalla bocca, che Yol è uno straordinario film dove cinque prigionieri turchi, alienati dalla carcerazione, ricevono un permesso di una settimana e scoprono che anche la società turca aliena i suoi abitanti. Le storie di questi cinque uomini che tornano a casa sono cinque tragedie: uno ha una moglie infedele, e la famiglia gli ordina di ammazzarla per salvare l’onore della famiglia. Un altro è innamorato di una giovane ragazza del villaggio, ma è costretto a sposarsi la cugina. Un altro ancora non può incontrare sua figlia e sua moglie, avendo abbandonato il cognato durante una rapina in banca. Tutti questi uomini sono costretti a confrontarsi con una dura tradizione che impedisce ogni libertà e sentimento. Questo è un bellissimo e mai noioso film che è semplicemente indimenticabile.

Lo consiglia ai nostri lettori?

Certo. Ma non affittatelo. Compratevelo. È piú sicuro. Comunque quei bastardi mi hanno torturato, mi hanno obbligato a trangugiarmi una pizza Buitoni Bella Napoli congelata e mi hanno fatto mettere i testicoli in una vaschetta di gelato Häagen-Dazs al gusto di pecan nut per piú di mezz’ora.

Dev’essere stata una brutta sensazione

Abbastanza sgradevole. Niente però in confronto a quando mi hanno legato i testicoli con il joypad vibrante della Sony PlayStation e si sono messi a giocare a Super Racing. Dopo mezz’ora di dolori atroci ho confessato che le avevo rotte io, per il puro gusto di distruggere la grande istituzione internazionale di Blockbuster. Ma avrei detto qualsiasi cosa, pure che amo i film di Pieraccioni, per farli smettere.

Dopo avermi torturato mi hanno trascinato nel negozio. Chiedevo aiuto, imploravo, ma nessuno degli avventori mi ha aiutato, ha fatto un gesto, tutti guardavano le custodie delle cassette e facevano finta di niente. Hanno sollevato una botola e mi ci hanno buttato dentro. Sono volato per tre metri nel buio e mi sono spiaccicato a terra, dolorante e dispe…

5. Mutanti.

Antonio Riccardi steso a terra urlava.

Gli era uscita la spalla, aveva preso un colpo sulla fronte e il sangue gli colava sugli occhi, si stemperava nelle lacrime, per poi gocciolargli, salato e metallico, sulle labbra.

Il dolore era cosí lancinante che si vomitò addosso. Si sollevò in ginocchio mentre vomitava e si afferrò con la mano sinistra il braccio destro. E grugnendo come un maiale se lo tirò. La testa dell’omero con uno schiocco di frusta rientrò all’interno della sua capsula cartilaginea e Riccardi poté di nuovo respirare.

Era successo tutto in un batter d’occhio, come in un incubo. Aveva riportato le cassette e lo avevano interrogato e lo avevano torturato e lo avevano picchiato e gli avevano fatto confessare crimini mai commessi e lo avevano gettato…

Dove?

Dove cazzo lo avevano gettato?

Cos’era quel posto? Era completamente buio. E sembrava molto vasto. Le sue urla rimbombavano contro pareti distanti. Come se fosse in una cisterna vuota, una fottuta prigione sotterranea, una di quelle segrete che stanno sotto alla Bastille.

– Aiuto! Aiuto! – urlava. – Qualcuno mi aiuti!

Era solo. E comprese che nessuno lo avrebbe mai sentito. Sopra di lui, a parecchi metri, ci doveva essere un soffitto e sopra un pavimento e sopra ancora la folta e fonoassorbente moquette di Blockbuster. In quel momento, sopra di lui, c’era gente rispettabile, brave persone che affittavano Il silenzio degli innocenti, Il buono, il brutto e il cattivo, L’ira di Khan, incoscienti che un poveraccio era stato sequestrato, gettato in una segreta.

– Vi prego… Un po’ di pietà, – mormorò disperato.

– È cosí. Sei pfinito tra i dannati. Non c’è pfietà per i dannati –. Una voce rauca e bassa gli rispose.

– C’è qualcuno? C’è qualcuno? – Riccardi cominciò a cercarsi nelle tasche. Le chiavi. Il portafoglio. Le sigarette. L’accendino.

L’accendino!

Con le mani che gli tremavano provò piú volte prima di riuscire ad accendere la fiamma.

La flebile fiammella non riuscí ad attraversare le tenebre peste. Vide solo che a terra c’era cemento.

– Chi ha parlato? Dove sei?

– Pfiamo qua. Ma ti pfego, spfenni quella luce, ci fa male agli occhi.

Antonio Riccardi avanzò verso quella voce strana. Sembrava la voce di un vecchio o di un bambino, non si capiva. Vide delle sagome emergere dal buio. Non era uno solo. Erano molti. Erano buttati a terra, uno accanto all’altro, come un branco di macachi nella gabbia di uno zoo. Appena la luce gli trafisse le pupille cominciarono a stringersi di piú e a coprirsi gli occhi con le mani.

Cos’erano? Dei mostri?

Erano completamente bianchi, albini. Avevano i capelli lunghi, sporchi, le barbe crespe, erano avvolti in panni lerci, puzzavano come carogne. Riccardi ebbe l’impressione di essere finito nella caverna dei lebbrosi. Ma non erano lebbrosi. Erano pingui, obesi. Le donne avevano le mani gonfie come cadaveri putrefatti. La maggior parte non aveva piú denti, ad alcuni ne erano rimasti un paio, ma erano marci e cariati.

– Chi siete? Che ci fate qui? – domandò Riccardi.

Il vecchio che aveva parlato prima e che sembrava il capo si mise faticosamente in piedi. Doveva pesare centocinquanta chili. – Le domande le pfacciamo noi. Tu pferché sei qui?

– Mi hanno buttato qui dentro perché ho rotto delle cassette.

– Quante?

– Una ventina…

– Grave. Molto grave. Pensa che io sono qui perché per sei volte non ho riavvolto le cassette.

Una donna accucciata disse: – Io perché il videoregistratore si è mangiato Salvate il soldato Ryan. Era una novità.

– Io perché ho riconsegnato per tre volte le scatole vuote, – disse un altro che aveva intorno agli occhi delle croste e delle perle di pus.

– Ma io ti conosco… – Riccardi fece due passi avanti.

– Tu sei Lorenzo Pavolini… Stavamo in classe insieme al liceo. Ero convinto che fossi morto. Dicevano che eri scomparso. Hanno fatto una puntata di Chi l’ha visto? su di te. Da quanti anni stai qua?

– Non lo so. Abbiamo perso il conto del tempo. Da un’infinità.

– Perché siete ridotti cosí?

– Mangiamo solo dolciumi, merendine, biscotti al cioccolato, popcorn, lecca lecca, gelato. Ogni tanto qualche Bella Napoli. Beviamo solo Coca-Cola, Sprite e Fanta. Le cose che vendono sopra. Tutta questa roba che ci ha aumentato a livelli incredibili il tasso di glicemia e il colesterolo. I denti ci si sono cariati e sono caduti. Molti di noi sono diventati diabetici. E la mancanza di luce ci ha depigmentato la pelle. Siamo esseri mutanti, il nostro dna si è modificato. Questa è la punizione per non aver trattato bene quello che Blockbuster ci aveva dato.

Riccardi scoprí cosí che quegli esseri che prima erano stati gente normale vivevano nelle tenebre, rischiarate una volta al giorno dalle novità di Blockbuster. Una finestrella si apriva e ogni giorno veniva proiettato un nuovo film. Conoscevano tutti i film di Demi Moore, Tom Cruise, Sandra Bullock, Christian De Sica, erano i loro dèi, che pregavano chiedendo pietà. A loro si prostravano e domandavano di essere lasciati liberi. Ma gli dèi se ne fottevano. Appena finiva il film, le tenebre tornavano.

SECONDA PARTE DELL’INTERVISTA AD ANTONIO RICCARDI

RILASCIATA AL «GAZZETTINO DI ORISTANO»

E cos’ha fatto quando ha scoperto tutto questo?

Ero disperato. Mi diedero dei Mars. E per tre giorni mi rifiutai di mangiarli. Poi cedetti. Vidi molti film. Giovanna d’Arco di Luc Besson, Mission Impossible 2 e via cosí. Come gli altri cominciai a pregare le star e a ingrassare lentamente.

In quei venti mesi che fui rinchiuso là dentro mi innamorai della direttrice di un noto settimanale femminile che si era affittata Fargo, il film dei fratelli Coen, e poi era rimasta per un mese ad Alicudi. Abbiamo avuto un figlio. Lo ha generato nel buio. Era un bambino deforme di una bellezza incredibile. Con un unico occhio. Senza denti. E una grave dipendenza dai film di Scola, malattia rarissima. Ma lo amavo. Lo abbiamo chiamato Keanu Reeves. Quando si è acceso il proiettore l’ho sollevato in alto e l’ho esposto a quei pallidi raggi. Quel giorno c’era Godzilla. Lo abbiamo svezzato con la Sprite. E poi siamo passati agli Smarties.

E come avete fatto a uscire di lí?

Niente. A un certo punto è arrivato il mio migliore amico, Aurelio Picca…

Lo scrittore di Velletri?

Esatto. Lui in persona.

Stavamo lí in attesa del gelato quando si è aperta la botola ed è stato gettato il direttore mezzo morto. Quello schifoso che mi aveva torturato. Carne! Quella era la prima carne che vedevamo da mesi. Ce lo siamo mangiato vivo. Poi è sceso Aurelio Picca che ci ha dato le armi e ci ha liberato. Siamo usciti e io, personalmente, ho fatto una strage. Ho fatto fuori tre commesse e poi sono scappato, ciccione, immenso, cieco, per corso Trieste sparando ai passanti. Bellissimo.

Ora sono anch’io un vero serial killer!

E vorrei dire solo una cosa: di tutto quello che è scritto amo solo quello che si scrive con il proprio sangue. Scrivi con il sangue e apprenderai che il sangue è spirito. Non è facile comprendere il sangue altrui: odio gli oziosi che leggono. Chi conosce il lettore non fa piú nulla per il lettore.

Questo non l’ha detto Nietzsche in «Cosí parlò Zarathustra?»

Può essere, non ne ho idea.

Progetti futuri?

Intanto andare da Marzullo, poi si vedrà. Domani è un altro giorno.

PERIZIA MEDICA DI ANTONIO RICCARDI

EFFETTUATA DALLO PSICHIATRA MASSIMO AMMANITI

L’editore Saporetti mi ha chiesto di valutare lo stato mentale di Antonio Riccardi perché teme che possa essere un soggetto socialmente pericoloso e poco produttivo nell’ambito lavorativo. Nel lungo colloquio mi ha parlato dei condomini del suo palazzo, soprattutto di Blockbuster, e si è rifiutato di parlare di altro. Per questo motivo l’ho sottoposto al test di Rorschach e a tutte le tavole mi ha risposto che vedeva una macchia, tranne quella colorata in cui mi ha detto che era un nano incantatore suonatore di piffero. Si tratta di un soggetto che soffre di grave paranoia e con un importante disturbo della percezione della realtà. Com’è stato messo in luce da Cameron, il soggetto vive in due comunità paranoidi, quella della casa editrice e quella di Blockbuster, e nonostante si senta perseguitato si è oramai abituato e non ne può fare a meno. Forse ho scoperto una inusuale forma clinica di nitridatismo mentale.

Per concludere, Antonio Riccardi può continuare a lavorare con profitto perché risulta integrato nel suo ambiente lavorativo e reca danno solo ed esclusivamente a se stesso.

(2000)