– Il cobra non è un serpente, è una biscia fetente che ti appesta l’ambiente.
Sicuramente uno come Pastore avrebbe preferito passare la notte a studiarsi i poeti del dolce stil novo piuttosto che con una ragazza.
Ma siccome lui si chiamava Giovanni Minutolo e non Jacopo Pastore, se ne stava sotto la doccia e cantava la sua versione del Kobra della Rettore e si preparava spiritualmente e fisicamente a una notte di sesso.
Il mondo è bello perché esiste gente come Pastore.
Quella era la prima volta che Giovanni passava una notte con una ragazza.
Durante l’estate c’era stato qualcosa che ci si era avvicinato. Aveva conosciuto una francese, Florence, e ci aveva passato la notte sulla spiaggia, nello stesso sacco a pelo, e la francese si faceva baciare ma se provava a metterle una mano, ad esempio, su una tetta s’innervosiva parecchio e ripeteva come un disco rotto: «Voi italiani siete tutti uguali», e, niente, aveva passato una notte infernale combattendo contro zanzare, pulci d’acqua e il sergente francese.
Una vera fregatura.
Ma questa volta era diverso. Giulia non era chiacchiere e distintivo come la francese.
Era successo tutto con una rapidità assurda.
Si era imbucato a una festa di merda insieme a quel coglione di Pastore, si era scolato un paio di birre calde ed era pronto per andare a finire il maledetto capitolo d’italiano quando a un tratto era apparsa, e appena aveva cominciato a parlarci aveva capito che in realtà non era una ragazza ma il segno dell’esistenza di un principio primo, un angelo mandato da un Dio generoso per mettere uno stop alla sua verginità.
E tutto era andato come va nei sogni migliori. Giovanni aveva sparato stronzate, lei pure, si erano spaccati dalle risate, lui le aveva detto: «Ce ne andiamo?»
Lei aveva detto: «Sí». Lui aveva detto: «Dove?»
E lei: «A casa mia».
Perfetto.
Da copione di film porno. Mentre uscivano gli si era avvicinato Pastore, lo aveva preso da una parte e gli aveva mormorato: «E non studi?» «No, mi sa proprio di no. Anzi, domani, alla professoressa Minniti dille: Minutolo non ha studiato perché doveva scopare».
Ed erano andati a casa di Giulia.
I genitori non c’erano. Tutto da copione.
Avevano visto un quarto d’ora dell’Armata delle tenebre e poi avevano cominciato ad aggrovigliarsi l’uno all’altra come pupazzetti dall’anima di fildiferro.
Baci. Lingue che si annodano. Tastate. Reggipetti che non si aprono. Strusciate pericolose. Capezzoli. Fischi. Botti.
E quando finalmente stava per slacciarle il bottone del tesoro, lei gli aveva ansimato in un orecchio: «Perché non ti vai a lavare?»
Ahhh. Nooo…
L’ascellone aveva colpito ancora. Che figura di merda. L’aveva intossicata. Da quanto tempo non si dava una rinfrescata? In fondo neanche tanto.
Il giorno prima aveva avuto un rapido contatto con l’acqua, ma che cazzo ne poteva sapere che quella sera avrebbe rimorchiato.
Gli si erano annodate le viscere e aveva mugugnato con l’espressione di un cocker beccato a cacare in salotto: «Puzzo, eh?»
Non aveva aspettato la risposta ed era schizzato in bagno. Ecco perché ora si trovava sotto la doccia e cantava: – Il cobra non è un serpente, è un nanetto ignorante che odia la gente.
Giovanni studiò la lunga fila di barattoli di shampoo.
Voglio esagerare, mi lavo pure i capelli.
La famiglia di Giulia doveva avere la mania dell’igiene. Ce n’erano di tutti i tipi.
Contro la forfora, per capelli grassi, al mughetto d’Irlanda.
Scelse quello alle alghe verdi di Svezia, chiuse gli occhi e cominciò a massaggiarsi il cuoio capelluto. Musica. I Pearl Jam. Grande. Il suo gruppo preferito.
Giulia doveva aver acceso lo stereo.
Riaprí gli occhi e lei era davanti a lui. Nuda.
– Posso fare la doccia con te? – gli domandò.
Giovanni, per l’emozione, riuscí ad articolare una risposta che sembrava inglese ma non lo era.
Giulia era bellissima.
Aveva due tette che il novantanove per cento della popolazione femminile italiana avrebbe firmato un assegno in bianco per averle. Una pelle liscia che… due cosce che… Era bellissima e basta.
Sentí che qualcosa del suo corpo reagiva a quella visione.
Abbassò gli occhi e balbettò imbarazzato: – Toh! Che fenomeno singolare.
Lei sorrise, entrò nella doccia e cominciò a baciarlo e a toccarlo.
Com’è bella la vita e che posto magnifico è il mondo, si diceva Giovanni, basta pochissimo: una doccia, una donna, e sei felice come una Pasqua.
Un vortice d’acqua e baci e alghe svedesi e musica lo avvolgeva e rendeva tutto migliore.
– Andiamo di là? – disse Giulia con una vocina da 144.
– Ok.
Giovanni uscí dalla doccia.
– Mi passi l’asciugamano? – domandò Giulia. Giovanni si avvicinò alla mensola dove erano impilati gli asciugamani. – Quale vuoi?
– Quello rosa, in alto, quello con su ricamato «B. M.».
– Baciami Molto?
– No, Beatrice Minniti. Mia madre.
La prima cosa che accadde fu che l’erezione vigorosa di Giovanni si afflosciò come un gommone squarciato, la seconda fu che la birra, le patatine e l’insalata russa che aveva mangiato alla festa stabilirono che erano stanche di essere digerite e decisero di uscire da dove erano entrate.
– Beatrice Minniti? – mormorò Giovanni.
– Sí, ma che hai? Ti senti male?
– Beatrice Minniti, professoressa d’italiano?
– Sí. Lei.
E a quel punto ci fu tutta una serie di rumori.
Scloc, scloc, gnieeeeiiii sclang. E poi oltre la porta: – Giulia? Siamo tornati!
Che fregatura è la vita e che posto schifoso è il mondo, si disse Giovanni, basta pochissimo: una doccia con la figlia della professoressa Minniti e la professoressa Minniti che rientra a casa, e sei nella merda fino al collo.
Ancora: – Giulia! Dove sei?
Giulia si infilò le mani nei capelli: – Oddio! I miei! Dovevano tornare domattina! – Si mise a saltellare per il bagno come un pugile che combatte contro lo spettro di Rocky Marciano. – Cazzo cazzo cazzo cazzo –. Poi vide Giovanni.
Era sulla tavoletta del cesso e aveva ficcato la testa e un braccio in una finestrella. – È troppo piccola! – urlò a bassa voce. – Sono fottuto! – E intanto in soggiorno: – Giulia dove sei? – Sono in bagno mamma, arrivo! – E poi a bassa voce: – Che fai? Scendi da là sopra! – Non posso! Sono incastrato! Aiutami!
Giulia strappò Giovanni dal suicidio.
Erano al terzo piano. – Sei impazzito?
Giovanni, con le pupille dilatate e un rivolo di sudore freddo che gli scendeva lungo il collo, afferrò Giulia per le spalle: – Tu non capisci! Tua madre è la mia professoressa d’italiano! Sono finito. Ho chiuso con la scuola, non mi resta che il lavoro minorile.
E intanto in cucina: – Abbiamo comprato la caciotta che piace a te. Vieni.
– Hanno comprato la caciotta che piace a te. Hanno comprato la caciotta che piace a te, – ripeteva Giovanni dando capocciate contro il muro.
– Piantala! – Giulia afferrò i vestiti di Giovanni e glieli mise in mano. Poi aprí uno spicchio di porta e guardò fuori. – Ascoltami. Vai nello studio. Vestiti. Io li trattengo in cucina e tu, senza far rumore, esci. Ce la puoi fare?
– Ci provo.
– Bene.
Giulia gli diede un bacio sulla bocca e lo spinse, come mamma lo aveva fatto, fuori dal bagno.
Sicuramente uno come Pastore non si era mai messo in una situazione cosí merdosa.
Ma siccome lui non era Jacopo Pastore ma Giovanni Minutolo, stava steso, come una mummia nel suo sarcofago, sotto il letto della sua professoressa d’italiano. Per giunta nudo.
Giulia aveva combinato un bel casino. Lui ci era andato nello studio ma dopo neanche un secondo, mentre si vestiva, si erano accese le luci e qualcuno era entrato e lui si era gettato come un portiere di calcio dietro il divano. Per un miracolo non lo avevano beccato.
Strisciando era entrato in una stanza che aveva scoperto essere la camera da letto della professoressa e si era nascosto sotto il letto.
Anche qui le luci si erano accese e il marito della professoressa si era infilato il pigiama e si era messo a letto. Quello schifoso non si era neanche andato a lavare i denti.
Poco dopo era entrata pure la professoressa e si era messa anche lei nel letto.
A quel punto Giovanni era bello che fottuto.
Se ne stava immobile, con il naso contro le molle della rete, e mentalmente bestemmiava.
Li sentiva chiacchierare. Parlavano dei programmi del giorno dopo.
Il marito diceva: – Domani ho una giornata infernale. Esco presto e torno tardi.
E la professoressa: – A chi lo dici. Io ho l’ultimo turno d’interrogazioni. Ci sono certe bestie che ti fanno uscire dai gangheri… Ma se domani mi fanno lo scherzetto di non venire li rimando, giuro su Dio li boccio.
Giovanni voleva piangere ma non poteva. Perché gli stava succedendo tutto questo?
E, colmo dei colmi, le molle cominciarono a cigolare e il letto ad agitarsi e il marito cominciò a grugnire e la prof Minniti ad ansimare.
Giovanni si era ridotto a una sogliola per non essere schiacciato. Non è possibile, sto sentendo in diretta la copula della mia prof d’italiano.
Fortunatamente durò poco. Si spensero le luci.
– Buonanotte, – disse il signor Minniti.
– Buonanotte, – disse la professoressa Minniti.
Buonanotte al cazzo, pensò Giovanni.
Quando, la mattina dopo, uscí da sotto il letto Giovanni sembrava uno zombi. Ma non uno fresco, uno in avanzato stato di decomposizione. I capelli, dritti in testa, assomigliavano a quelli del cantante dei Sex Pistols dopo un incontro con gli alieni. Gli occhi erano biglie rosse come quelle di un topo albino. Aveva due borse che parevano due Samsonite. Non era riuscito a chiudere occhio, il signor Minniti russava peggio di un terranova col raffreddore. E aveva tutte le ossa rotte come se gli fosse passato sopra l’intercity Roma-Milano. Era rimasto rintanato fino a quando non li aveva sentiti uscire di casa.
Giovanni si trascinò verso la cucina, doveva bere una tanica d’acqua.
Trovò Giulia seduta al tavolo che faceva colazione. – Che ci fai tu qui? – disse lei stupita. – Non eri uscito?
– Zitta. Sto malissimo. Ho passato tutta la notte sotto il letto dei tuoi genitori. È stata l’esperienza piú orrenda della mia vita. Voglio solo morire.
Si attaccò alla bottiglia di Uliveto e ne fece fuori metà, poi guardò l’orologio e con una voce d’oltretomba disse: – Io devo andare, scusami. Sto facendo tardi.
– Dove vai?
– Indovina. A scuola. Dove posso andare? Tua madre mi deve interrogare. Ciao. Ci sentiamo –. E si avviò alla porta come un condannato a morte.
– Ho una bella cosa da dirti, – fece lei alzandosi e prendendogli una mano.
– Di’. Tanto non credo piú nelle cose belle.
– Stanotte ho preso il registro di mia madre e ti ho messo otto. Quindi puoi stare tranquillo. Ora fai colazione, poi ti fai un bagno caldo e poi… Io a scuola non ci vado oggi.
– Non ho capito. Puoi ripetere? Mi hai messo otto?
– Esatto.
– Otto? Otto, quello fatto con due tondi, uno sull’altro?
– Otto.
Giovanni si gettò in ginocchio, come se davanti a lui fosse apparsa la Vergine Maria, e cominciò a baciarle le mani. – Io ti stimo. Anzi, ti adoro. Tu sei la donna in assoluto migliore nella storia dell’umanità. Maria Goretti al tuo confronto è una teppista. Otto. Neanche quello stronzo di Pastore ha mai preso un otto con quella… con tua madre. Io ti amo. Io ti voglio sposare, io ti porto subito a Las Vegas…
Lei lo tirò su: – Perché non stai un po’ zitto?
– Perché non posso.
E invece poté. Lei gli aveva infilato la lingua in bocca.
Due ore dopo si trovava nel letto di Giulia, e le poggiava la testa su un seno. Il cuscino migliore del mondo. Guardavano la fine dell’Armata delle tenebre. Ora sí che stava bene.
Sentiva il sonno afferrarlo dolcemente, gli occhi che si chiudevano. Ma prima di crollare doveva farle una domanda, una domanda idiota che però continuava a infastidirlo come una zanzara assetata.
– Senti. Ti devo fare una domanda. Tu, dopo che l’ho fatta, penserai che sono un poveraccio. Se mi prometti che non lo penserai te la faccio, sennò no. È una domanda tremenda ma…
– Che cosa?
– Giuralo.
– Lo giuro.
– Come… eeehhhrrr… Ho un groppo alla gola… Come… Come sono andato? Ecco, l’ho detto. Dimmi la verità. Ho fatto schifo?
Giulia sorrise, poi si mise un paio di occhiali da vista e con un tono da maestrina disse: – Io le darei un… un… Un bell’otto signor Giovanni Lojacono. Un bell’otto pieno.
Giovanni si tirò su.
– Che c’entra Lojacono? Io mi chiamo Minutolo.
– Non ti chiami Giovanni Lojacono?
– Lo saprò come mi chiamo, no? Giovanni Lojacono è un mio compagn… Noooo –. Finalmente capí.
Una morsa terribile gli attanagliò lo stomaco. – Non dirmelo, ti prego, non dirmelo. Non dirmi che hai messo otto a quel coglione di Lojacono!
Vide Giulia abbattersi sul letto, le mani sul volto, e cominciò a ridere.
– Vaffanculo. Sono fottuto. Devo correre a scuola, forse riesco ancora…
Si alzò dal letto e si vestí in fretta e furia, poi fece un salto e disse: – Donna, tu non ti muovere, resta là. Vado, salvo una carriera scolastica e torno.
E scomparve oltre la porta.
(1999)