Cachemire se ne stava accasciato sulla poltrona del suo camerino e rifletteva che nonostante fosse da molti considerato l’unica vera alternativa alla tradizione musicale italiana e racchiudesse in sé tutte le caratteristiche piú personali di un grande compositore e di un grande interprete, di tutto ciò, detto a chiare parole, non gliene poteva fregare di meno.

Mancavano oramai poche ore all’inizio della CXXIII edizione del Festival Piú Importante Del Mondo e si sentiva depresso come poche volte gli era capitato di essere nella vita. L’esistenza della popstar lo aveva stancato.

E odiava San Geronimo con tutto il cuore. Un laido baraccone dove da piú di dieci anni inscenava la farsa del compositore latino che riesce a raggiungere un respiro internazionale rimanendo imbevuto dello spirito della sua cultura.

Ma quale cultura e cultura?

Non sopportava piú quella settimana di apnea che si doveva sciroppare ogni anno. Una tassa necessaria per poter sopravvivere. I giornalisti sempre a criticarti, il pubblico che si comporta come una banderuola. Pronti a esaltarti, a dirti che sei il piú grande di tutti e poi appena molli un attimo, appena hai una normale crisi creativa, ti buttano via come uno straccio.

E poi c’era sua madre. Aveva settantaquattro anni e viveva a Nemoli, in Basilicata. Che errore terribile aveva fatto a montarle in casa il Salvalavita Beghelli. Ma lui che ne poteva sapere, che quello era un oggetto infernale, fatto apposta per farti saltare i nervi. Gli era arrivato a casa un pacco dono dalla Beghelli, lo sponsor del Festival, e dentro c’era un Salvalavista Tv, un Salvalavista Computer 626 e il dannatissimo Salvalavita. Lo aveva regalato a sua madre, che diceva di soffrire di coronarie e quella ci si era attaccata come fosse un telecomando della Tv.

Per tre volte Cachemire si era precipitato a Nemoli per scoprire che sua madre stava benissimo, era solo in pena per quel figlio che conduceva quella vita zingara. L’ultima volta, in preda a una crisi isterica, lo aveva strappato dal telefono e lo aveva gettato dalla finestra. Ma la madre aveva spedito la garanzia e con una astuzia malvagia era riuscita a farsene rimandare uno nuovo.

Cachemire si attaccò alla bottiglia di Uliveto e poi si studiò allo specchio. Aveva le occhiaie. Aprí la bocca e tirò fuori una lingua che sembrava un calzino da tennis. Il nuovo look, capello corto, basetta alta e barba sfatta non lo convinceva completamente. Oramai aveva una certa età, non poteva continuare a fare l’adolescente. Tutta colpa di quella cretina della sua parrucchiera.

In questo oceano di dolore aveva almeno una consolazione. Quest’anno cantava Pietre di fuoco, un pezzo d’ispirazione new-age, in duo con Azam, giovane scoperta della canzone italiana di origine mediorientale, le cui doti vocali fuori dal comune ben si sposavano con la raffinata ricerca vocale da sempre al centro della sua esperienza artistica. Oltre che essere una grande interprete era anche una ragazza sensibile, non una delle migliaia di buzzicone che affollavano il palco del Festival. Praticava lo yoga ed era una buona conoscitrice della cultura orientale. Amava l’architettura e il teatro giapponese, le poesie di Emily Dickinson e la musica romantica mitteleuropea. La loro fusione avrebbe potuto far emergere una nuova linea melodica, intimista e meditata, che non aveva niente a che spartire con la merda dei Garden of Grace.

Doveva radersi. Intinse un asciugamano nell’acqua calda, lo strizzò e se lo mise in faccia per ammorbidire la pelle. Prese un bel respiro e cercò, per cinque minuti, di liberarsi la testa da tutte le preoccupazioni. Stava là là per addormentarsi quando sentí bussare alla porta.

Deve essere Azam. Poverina, sarà preoccupata, si disse, in fondo l’unica esperienza importante che ha avuto è stata alle Voci Nuove di Fabriano con Nino Salvini.

– Entra! Avanti! – fece senza levarsi il sudario caldo dalla faccia. Ma non sentí nessuno. Sarà un fan, vaffanculo a quegli imbranati della sicurezza. – Avanti! Forza! – ripeté, si levò l’asciugamano e si pisciò addosso.

Sulla porta c’era il fan piú brutto che avesse mai visto. Era alto quasi due metri, era squamoso, aveva una testa da cavalletta, due chele coperte di bava e sei gambe da aracnide. Lo guardava con tre occhi piccoli e malvagi e apriva e chiudeva una specie di bocca ricoperta di zanne appuntite come chiodi. Cachemire balzò dalla sedia e corse alla finestra. Erano solo due piani, si sarebbe rotto l’osso del collo ma mille volte meglio vivere su una sedia a rotelle che finire in pasto a quell’aragosta. Provò ad aprire la finestra ma si rese subito conto che non ce l’avrebbe mai fatta. Era di quelle a baionetta, tentò di sradicarla dal muro quando fu avvolto dall’ombra dell’essere, si girò, digrignò i denti, impugnò il phon ma non ebbe nemmeno il tempo di azionarlo che l’insettone gli piombò addosso con le sue mascelle velenose.

E Cachemire, per la prima volta in quella giornata, si sentí leggero, ma cosí leggero che perse i sensi.

A piú di seimila parsec, tremiladuecento chilometri e non so quanti metri da San Geronimo, ai limiti della Nebulosa del Granchio, Altz se ne stava nella sua tana, felice come una Pasqua, a covare le uova, quando ricevette un segnale telepatico proveniente dal termitaio: recarsi immediatamente al settore d. sottoscala 432. buca 36/21.

Altz conosceva la buca 36/21. Ci lavorava oramai da settant’anni. Era l’ufficio della polizia federale che si occupava della ricerca e cattura di criminali pericolosi fuoriusciti dalla galassia. Altz baciò una per una tutte le uova e poi le avvolse dentro una coperta e uscí dalla tana chiedendosi che cosa diavolo volessero ancora da lui. Stava in maternità, che cavolo.

Quando fu lí, per un attimo credette che quei mattacchioni avessero organizzato una festa. Dieci aragoste se ne stavano spaparacchiate su un divano davanti a uno schermo al plasma e fumavano, bevevano e cantavano insieme a Francesco Davoli. Sul muro avevano appeso una lavagnetta con su scritti tutti i nomi dei cantanti e i punteggi. Davoli aveva addirittura 9: lí, alla buca 36/21, era molto amato.

– Ehilà, Altz, vecchio mio. Ti abbiamo chiamato per dirti che siamo molto felici, – disse il procuratore Fretsi, capo della buca 36/21, una vecchia cavalletta grigia amata e rispettata dai suoi sottoposti.

– Non sapevo che vi piacesse San Geronimo, – disse Altz estroflettendo i palpi labiali e cominciando a succhiare una bibita gasata. – Ero sicuro che foste degli appassionati del Festival delle lune di Ganimede. Chi vince?

– Sara Montroni ha buone chances. Ma non è per il Festival, che francamente quest’anno fa schifo, siamo felici per questo, guarda –. Fretsi spinse dei tasti e sullo schermo apparve Cachemire. Era sul palco e cantava insieme ad Azam. – Lo riconosci?

– Certo. È Cachemire. È molto amato dalle larve. Ha una tendenza innata a esplorare la musica con nuove frasi melodiche come vuole la tradizione italiana e nello stesso tempo è vicino allo spirito delle grandi chart internazionali.

– No, è uguale identico, ma non è Cachemire. Quello è il malefico Zingam.

A quel nome, Altz si sentí mancare gli arti distali.

Zingam. L’orrendo Zingam. Il criminale piú inafferrabile della Nebulosa. Un insettone fascista con un cordone nervoso di appena tre neuroni e le ghiandole salivari dorsali. Aveva messo a ferro e fuoco i termitai di Hoyt, ne aveva fatte piú di Carlo in Spagna e poi si era dileguato senza lasciare traccia. Era stata la sconfitta piú cocente della carriera di Altz.

– E come fate a dire che è lui?

– Il computer ha prodotto un algoritmo che prende in relazione diverse variabili tra cui il riflesso pupillare, l’estensione vocale, il livello d’istruzione e il numero di scarpa, ed è uscito fuori che poteva essere al 7% il tastierista dei 999, all’1,5% un opossum e al 91,5% Zingam. Certamente non è Cachemire.

Altz guardò attentamente la registrazione e si rese conto che non c’era bisogno degli algoritmi per dire che quello là non era Cachemire. Stonava come una campana, sputava sul pubblico peggio di Sid Vicious, palpava il culo a Simona Somaini e prendeva a calci il direttore d’orchestra. Era chiaro: Zingam aveva sciolto l’esoscheletro e si era insediato tra gli organi interni del cantante lucano dando origine a una Jejuna, un essere ibrido e perfido. Esternamente uguale a Cachemire, ma internamente una cavalletta spietata e cafona.

Altz sentí il vecchio poliziotto che c’era in lui spingerlo a dire: – Capo, vado, lo acchiappo e torno. Intanto, per favore, potrebbe covarmi lei le uova?

A San Geronimo: Cachemire, barricato nel camerino, era indeciso su come suicidarsi. Con un colpo di fucile come Kurt Cobain o affogato nel vomito come Jimi Hendrix? Ma il vomito di chi?

No, meglio un’overdose di eroina come Janis Joplin. Era l’unica cosa che gli rimaneva da fare dopo il casino che aveva combinato sul palco. Ma che cosa gli aveva preso? Doveva avere gravi turbe della personalità, in altre parole era schizofrenico. Prima il terribile incubo dell’insettone e poi il disastro sul palco. Aveva toccato il culo alla Somaini, era caduto giú dalle scale, non si ricordava le parole della canzone. Era come se non fosse lui, come se dentro di lui ci fosse un altro che gli faceva fare un sacco di stronzate. Come se la sua mente fosse stata posseduta da un’entità maligna.

Che figura di merda!

Azam se n’era tornata in Medio Oriente, urlandogli che era un poveraccio, che le sue doti vocali erano simili a quelle di un bulldog asmatico. E ora gli toccava suicidarsi. Solo cosí avrebbe salvato la sua carriera dalla polvere, doveva fare come Tenco. Il problema era che, in fondo, a quella vitaccia di merda ci era attaccato. E sicuramente, anche se aveva fatto schifo, non poteva essere andato peggio di Debora California. Cominciò a riflettere su dove avrebbe potuto trovare l’eroina per farsi l’overdose, quando bussarono alla porta.

– Andatevene via. Lasciatemi morire in pace. Via! Via! – urlò.

– Apri, per favore, sono Frenk.

– Non posso. Mi devo suicidare con l’eroina.

– Ascoltami. Io ti posso aiutare.

Cachemire gli aprí la porta. – Ma che, hai della roba?

– No, mi spiace, non la uso.

Frenk entrò. Cachemire lo abbracciò e cominciò a piangere come una fontana. Frenk lo carezzava e gli diceva: – Caro, caro, caro. Non fare cosí.

Che peccato, ci fossero almeno state le telecamere a siglare tutto ciò.

Dario Palatone, in arte Frenk: un personaggio che per ventisette anni aveva privilegiato l’introspezione e il riserbo degli artisti autentici rispetto ai clamori dello show business, le «voci dentro» rispetto alla platealità e ai ghiribizzi del divismo. E Cachemire: un personaggio che rifuggiva dal presenzialismo gratuito ma assolutamente affabile nonostante la figura di merda che aveva fatto.

– Non so che mi è successo, Frenk. Sto tanto, tanto male. Chissà che diranno domani i giornali. E Azam se n’è andata, mi ha lasciato cosí, come uno stronzo. Quello che hai visto prima non ero io, mi credi? – frignò il cantante lucano.

Frenk si rimise a posto i boccoli da paggio timido che stimolavano il senso materno delle ammiratrici e serio serio disse: – Sí amico mio, certo che ti credo. Ora tu mi devi asc…

Ma Cachemire lo interruppe: – Allora se mi credi aiutami a scrivere una lettera d’addio. Deve essere una bomba. Deve essere scritta benissimo, tipo Bukowski per intenderci. Tutti i giornali dovranno metterla in prima pagina. Cosí poi prendo il disco di platino e mia madre a Nemoli è felice –. Corse al tavolo e accese il computer. Lo schermo s’illuminò. – Guarda Frenk, guarda che bello. Ci ho montato il Salvalavista Computer. È una luce elettronica calibrata che è stata costruita per funzionare insieme al computer e disegnata per illuminare la postazione di lavoro in accordo con il provvedimento della legge europea 90/270/eec.

Cachemire fece appena in tempo ad accenderla che Frenk cominciò a tremare come se fosse folgorato da una scossa, a sbavare una schiuma verde, a strabuzzare gli occhi e infine a saltare per il camerino rimbalzando contro le pareti come una palla magica e addosso al Salvalavista come una falena contro una lampadina. Cachemire se ne stava buttato in un angolo e si strappava i capelli piangendo disperato: – Frenk! Frenk! Che ti succede? Che ti succede?

Frenk si rotolava per terra e mugugnava: – Ssssssppeghhhhhh… ssshhhpppeeeegnn… sppp… il Salvala…

Finalmente Cachemire capí. – Vuoi che spenga il Beghelli?

Frenk fece debolmente segno di sí con la testa. Cachemire lo spense e subito il corpo del cantante di Viaggio nel mio cuore si sciolse senza piú vita a terra, apparentemente morto ma un istante dopo cominciò a tremare, come se stesse gelando. Un’espressione di agonia attraversò la faccia dell’artista, che emise un grido raccapricciante. La bocca iniziò ad allargarsi, allargarsi, allargarsi e spuntò fuori una lunga chela nera e poi un’altra e infine un’enorme cavalletta nera e lucida.

Cachemire, disperato, si era rannicchiato sotto il tavolo. Era di nuovo in preda alle allucinazioni.

La cavalletta gli si avvicinò e cominciò a parlare: – Ascoltami, non è niente di grave. Tranquillo, non sei pazzo. Frenk tra poco starà bene come prima e non ricorderà niente di tutto questo. Anche tu sei stato posseduto. È per quello che hai combinato il casino sul palco e hai cantato male. Dentro di te c’era un terribile fuorilegge, l’orrendo Zingam. Io sono Altz, un poliziotto, provengo dalla Nebulosa del Granchio e sono qui per portarmelo via. Hai capito?

Cachemire non capiva. Urlava e basta.

La cavalletta continuò: – Ascoltami, lo so che non sono bello ma tu pure non scherzi. Dimmi una cosa, per caso avevi già acceso il Salvalavista?

Cachemire fece segno di sí e poi stentatamente disse: – … dopo aver cantato la canzone sono tornato in camerino e mi volevo rivedere. Cosí ho acceso la televisione e il Salvalavista Tv. Poi non ricordo piú niente.

– Ecco qua spiegato perché non sei piú posseduto da Zingam. È scappato quando hai acceso il Salvalavista. Quell’affare deve produrre scariche elettromagnetiche con lunghezza d’onda estremamente nociva per noi alieni. Quando prima lo hai acceso mi sono sentito malissimo. Mi sembrava d’impazzire a stare dentro Frenk. Ora, scommetto una delle mie uova che Zingam sarà penetrato in un altro cantante. Aiutami a trovarlo, ti prego.

Cachemire fece segno di sí con la testa.

Il piano era semplice ma efficace. Cachemire e Altz, che si era rinfilato dentro Frenk, dovevano fare il giro dei camerini, andare da tutti i cantanti, prima dalle nuove proposte e poi dai campioni, abbagliandoli con il Salvalavista Beghelli. La scusa era che loro due erano testimoni di quel magnifico prodotto e che il cavalier Beghelli in persona gli aveva chiesto di spiegarne i pregi ai cantanti. Cominciarono subito. Altz/Frenk girava la testa quando Cachemire azionava il dispositivo. Fu veramente difficile perché la maggior parte degli artisti li mandava a quel paese. Come potevano preoccuparsi di quelle cose mentre, sul palco del Festival, si decidevano le sorti della canzone italiana? Ma i nostri eroi ribattevano che il Salvalavista Tv si accende e si spegne insieme al televisore e che la sua luce calibrata rilassa la retina e dà una sensazione di conforto agli occhi. Cosí riuscirono a illuminarli tutti, e scoprirono che Sergio Calzone era posseduto da un abitante di Andromeda ma che era innocuo e anzi lo aveva aiutato a uscire dal periodo nero e a scrivere Tulipani, la canzone che proponeva quell’anno.

Tracce dell’orrendo Zingam, nessuna.

– Secondo me o si è incarnato in un giornalista o in un ospite straniero. Non vedo altre possibilità, – fece affranto Cachemire.

– Ma li abbiamo controllati proprio tutti, non manca nessuno? – domandò sconfortato Altz/Frenk.

Cachemire consultò l’elenco. – Be’, in verità, una possibilità ci sarebbe ancora.

Il pubblico era in delirio. Mai in vita loro avevano sentito una voce cosí celestiale e profonda. Neanche Larita possedeva un’ugola cosí. Letizia D’Amore era al centro del palco e cantava. Appena ventenne, milanese di nascita, la cantante non vedente era una ragazza con le idee chiare. Sotto l’aspetto spiritoso e il sorriso sbarazzino nascondeva una determinazione e una grinta davvero sorprendenti: quelle di chi ha deciso il suo obiettivo e non si lascia sviare da incidenti di percorso.

Era chiaro che Con la forza e con il dolore, scritta e prodotta da Luca Raffelli, era destinata a vincere. Letizia era passata senza difficoltà all’ultima serata e ora gareggiava testa a testa con i big. Stava per concludere quando sul palco apparvero Cachemire e Frenk. Cachemire impugnava un Salvalavista. Il pubblico cominciò a rumoreggiare, i giornalisti, in sala stampa, a battere furiosamente sui tasti dei portatili e gli italiani, a casa, a risvegliarsi dal torpore.

Che volevano quei due? Che stavano facendo?

Le guardie, i buttafuori, il presentatore Paolo Desiati, Simona Somaini si avventarono sui due cantanti per fermarli. Frenk usando colpi di full contact li buttava giú tutti. L’unica che non si era accorta di niente era Letizia che continuava a cantare serena. Cachemire con un salto superò il direttore d’orchestra e si piazzò davanti alla cantante. Le puntò in faccia il Salvalavista Beghelli e lo accese. Letizia strillò come se le avessero gettato del vetriolo in faccia e poi disperata urlò: – Bastardo! Spegnilo subito! – Si girò e con un incredibile salto montò sulle ripide gradinate lanciando componenti dell’orchestra della Rai a destra e a sinistra. Improvvisamente sul teatro calò un silenzio innaturale. Nessuno fiatava, poi qualcuno cominciò ad applaudire, e tutti si unirono esplodendo in un boato. Una cicciona coperta di pelliccia si alzò e urlò: – Miracolo! Miracolo! Il Salvalavista Beghelli ha ridato la vista a Letizia D’Amore –. E tutti gli italiani urlarono: – Miracolo! Miracolo! Ci vede! – A casa sua il cavalier Beghelli era in un’estasi religiosa. Ma non era ancora finita. Cachemire la raggiunse e la folgorò di nuovo. Letizia cadde a terra e cominciò a tremare e a sbavare come un epilettico. Lo share stimato era del cento per cento. Le centraline dell’Auditel esplodevano. Mandarono la pubblicità. La gente a casa spaccava i mobili. Volevano sapere. Quando finalmente ritornò il collegamento videro una cosa incredibile: il palco era pieno di gente svenuta. Anche il presentatore giaceva senza sensi accanto a Frenk. Letizia D’Amore era accasciata, apparentemente morta, sulle scale. Al centro, sotto la scritta san geronimo, c’erano due enormi cavallette nere che si fronteggiavano in una danza di morte. Alla fine una fu piú rapida dell’altra. Le montò sopra e le strinse le mascelle intorno al collo sottile. Poi, una luce potentissima: centomila watt inondarono il palco. Quando si spense le due cavallette erano scomparse.

La CXXIII edizione del Festival di San Geronimo rimase memorabile, anche piú di quella dell’85, in cui vinsero gli Animal Death con Se mi vuoi bene.

Cachemire ricevette insieme ad Azam il Premio della critica e una medaglia al valore da Oscar Luigi Scalfaro. Con la sua canzone sbancò le chart internazionali.

Letizia D’Amore vinse il Festival. Divenne piú famosa di Larita, soprattutto in Nicaragua.

Il cavalier Beghelli diventò, se possibile, ancora piú ricco. Lo scultore astigiano Alex Sollima gli eresse una scultura in oro zecchino. Il Salvalavista divenne parte dell’armamentario dei due di X-Files.

L’orrendo Zingam fu condannato a scontare centomila anni di detenzione nella colonia penale di Hyperion.

Le uova di Altz si schiusero. Dodici piccole e scatenate cavallette che fecero la felicità del poliziotto.

E Frenk? Frenk se ne andò a vivere in un pianeta della Nebulosa del Granchio e vinse il Festival di Kassd.