E se…
Una delle prime cose che ho imparato facendo il mestiere dello scrittore è che i racconti non vendono, anzi i racconti non fanno una lira, visto che era il lontano 1995.
Questa terribile verità me la svelò Gian Arturo Ferrari in persona, gran capo della Mondadori, dopo un viaggio terribile.
Quella mattina ero partito in treno da Roma per Milano, tutto nervoso con la giacca buona di mio cugino. I giorni prima, tra i miei amici, c’era stata una lunga diatriba sulla cravatta.
Esistevano due scuole di pensiero: quella con cravatta, per dare l’impressione di essere una persona seria, e quella senza, per dare l’impressione di essere un artista.
Alla fine, l’importante era che gli facessi impressione. Decisi di andare senza.
Durante il viaggio ero molto agitato.
Il professor Ferrari mi voleva incontrare perché aveva deciso di ricomprare il mio primo romanzo, Branchie, pubblicato con modesto successo dalla Ediesse, una piccola casa editrice, e lanciarlo di nuovo sul mercato con la potenza di fuoco della Mondadori.
L’idea mi sembrava meravigliosa, anche se avevo parecchi dubbi che la transazione riuscisse. I vecchi compagni della Ediesse mi avevano detto: «Noi non diamo nulla a Berlusconi, tanto meno il tuo romanzo».
Io capivo il loro punto di vista, eccome se lo capivo… Però vedere il mio Branchie con la copertina dura e con le lettere d’oro in rilievo non mi faceva proprio schifo. E chi lo sa che pubblicando con un grande editore non sarei diventato uno scrittore professionista.
Comunque, tornando al viaggio, ero cosí agitato che, superata Bologna, per lo stress sono crollato in un sonno pesante e mentre dormivo mi hanno sfilato il portafoglio dalla giacca.
Quando sono sceso alla stazione di Milano (il treno aveva fatto pure ritardo) ero un uomo allo sbando. Senza cellulare, perché a quel tempo i cellulari erano incastonati nei cruscotti delle automobili di lusso, e senza una lira. Per finire, non avevo alcuna idea di dove fosse ’sta benedetta Mondadori e il capo mi aspettava da piú di un’ora.
– Scusa, hai duecento lire? – La frase classica del tossico romano è uscita anche dalla mia bocca in un giorno del 1995.
A farla breve, dopo l’elemosina ho telefonato alla Mondadori e ho chiesto di Ferrari. La centralinista mi ha detto che lí c’erano almeno sessanta Ferrari. – Con quale vuole parlare?
– Con il capo.
– Il capo di che?
– Il capo… Il capo di tutto. La persona piú importante che c’è là dentro. Il boss.
C’è stato un attimo di silenzio, poi un sussurro deferente: – Gian Arturo…?
– Sí! Esatto. Lui!
Sono passato attraverso una segretaria molto professionale e alla fine ci ho parlato. – Scusi… – ho balbettato. – Ho avuto un po’ di problemi… Il treno… Dove devo venire?
Ho preferito sorvolare sul fatto che ero stato derubato.
– E che ci vuole? Prendi un taxi. E dici che devi andare a Segrate, alla Mondadori.
– Perfetto!
Perfetto un cavolo. Non avevo un soldo.
Ho preso coraggio. – Ecco… Mi… Hanno rubato il portafoglio. A piedi è lontano?
Insomma, il taxi lo ha pagato Ferrari in persona e poi mi ha portato su nel suo ufficio all’ultimo piano.
Branchie, come immaginavo, non glielo vendevano. Mi chiese se avessi un altro romanzo.
– No… In questo momento no… – buttai lí. – Però avrei un po’ di racconti.
Gentilmente mi disse che i racconti non li voleva, non vendevano, ma che se avessi scritto un nuovo romanzo l’avrebbe letto volentieri e, se fosse stato degno, pubblicato.
Tornato a Roma scrissi L’ultimo capodanno dell’umanità, che era una via di mezzo tra un racconto lungo e un romanzo, e la Mondadori, con questa corposa aggiunta, alla fine decise di pubblicare il libro dei racconti. Il titolo era Fango. Da allora sono passati parecchi anni e Fango mi ha dato parecchie soddisfazioni. Anche se, come aveva previsto il boss, è forse quello che ha venduto meno di tutti.
Detto ciò, mi resta ancora oscura la ragione della scarsa appetibilità del genere «racconto» per i lettori.
Dormo poco.
Ho sempre dormito poco, ma ogni anno la vecchiaia si ruba un po’ del sonno che mi resta.
La sera, troppo presto, crollo in un sonno sordo, ma con il passare delle ore diventa sempre piú leggero e intermittente. Un nonnulla e gli occhi si sgranano pronti a ricominciare. Per prima cosa guardo i numeri rossi della sveglia. Le quattro e ventisette. Le quattro e cinquantatre. Le cinque e venti.
Per un periodo mi sono alzato e sono andato al computer e con la cuffia in testa ho combattuto contro orchi e elfi in un gioco on line insieme ad altri insonni sparsi per la penisola. Alle otto ero uno straccio da buttare.
Adesso non gioco piú e me ne rimango a letto. Me ne sto lí, al buio, in silenzio, il tempo non passa e spero di riaddormentarmi ma non succede quasi mai.
Durante queste ore di veglia non penso granché.
Nel caldo del letto, la nuca affondata sul cuscino, le braccia serrate al petto, i cani che mi pesano sulle gambe, ricordo un sacco di cose del passato e contemporaneamente mi stupisco di come il mio cervello, se lasciato a se stesso, indisturbato da stimoli esterni, possa tornare indietro nel tempo di decenni e mantenere inalterati (a me almeno pare cosí) ricordi che non sapevo nemmeno piú di possedere, piccoli fatti quotidiani che incrostano i neuroni come denti di cane lo scafo di una barca. Tornano su di notte, come gnocchi nell’acqua che bolle, facce di gente conosciuta in una vacanza in Grecia a diciotto anni. Mi ritrovo a tavola in un ristorantino sotto un carrubo dove tra la feta e i pomodori si muovevano pigre larve bianche. Ricordo il sapore di burro di cacao delle labbra di una di Monte Mario con cui mi sono baciato sul treno che mi portava in Inghilterra. Mi commuovo ripensando ad amici a cui avrei regalato un rene e che ero certo che niente e nessuno ci avrebbe diviso e che ora non so nemmeno piú se sono vivi.
Questo vortice che mi trascina indietro mi porta inevitabilmente a modificare i ricordi, a inventarmi nuovi terrificanti finali.
Che ne so… Mentre mi bacio con quella di Monte Mario assaporando il burro di cacao, dalla cuccetta di sotto emerge un essere sottile e lungo come un insetto stecco che ci osserva senza parlare. Gli occhi neri e senza sclera. Respira con il naso. Allunga un braccio. E in mano ha un passero morto e ce lo porge mentre un sorriso si apre sulla bocca senza labbra…
Quasi sempre queste storie con la luce del giorno, davanti allo schermo del computer, si rivelano fiacche e velleitarie. Non mi fido tanto delle trame che fioriscono dal cuore delle tenebre, sono parenti strette dei sogni, roba buona per gli psicoanalisti, ma non per scrivere qualcosa di decente.
Ma per fortuna non sempre è cosí. Ogni tanto il nucleo primordiale di un racconto, una situazione paradossale, un lato inaspettato del carattere di un personaggio mi appare chiarissimo.
Per fare un esempio, per il primo racconto, Giochiamo?, qualcuno mi aveva raccontato che al policlinico di Roma degli infermieri bastardi puntavano i vecchi in fin di vita e se vivevano soli gli rubavano le chiavi di casa. Nel momento in cui se ne andavano al creatore gli ripulivano l’appartamento.
«E se…?» Ecco come mi parte una storia. Da una semplice (e spesso inverosimile) ipotesi.
E se l’infermiere entra nella casa e dentro ci trova un mostro, un nipote mostruoso e disperato per la mancanza della nonna?
È una domanda che produce un’invenzione, la molla che mette in moto ogni racconto che scrivo.
I protagonisti sono quasi sempre persone comuni. Come reagirebbe Pennacchini, il mio vicino di casa, trovandosi di fronte un alieno? A una notte di sesso accidentale che gli ribalta tutte le certezze? Un pavido, un soggetto deriso da tutti, può salvare il mondo dalla catastrofe? E un vincente, uno che si sente un Cristo in terra, può trasformarsi in un pusillanime, può, dopo avere investito un pedone, abbandonarlo mezzo morto sul ciglio di una strada di campagna?
Improvvisamente sono quasi accecato dalle mille possibilità che mi offre una trama, mi toglie quasi il respiro. Non posso piú stare a letto e mi alzo di scatto e vado a scrivere nel buio del salotto.
Questo fenomeno notturno succede solo per i racconti. I romanzi li scrivo di giorno.
I romanzi assomigliano a montagne altissime e per affrontarli ci vuole la luce del sole. Dal fondovalle riesco a intravedere appena la cima avvolta dalle nuvole. Riconosco una possibile via di arrampicata attraverso guglie affilate e morene, poi gobbe morbide dove potrei sistemare il campo base, poi piú in alto i campi successivi.
Attacco la montagna dal basso con in testa un’idea chiara su come conquistare la cima, poi scalando scalando mi accorgo che devo variare il percorso, che certe pareti sono troppo lisce per essere affrontate di petto. Ogni tanto (raramente) ho dovuto rinunciare. Un lavoraccio, insomma.
Forse per questo amo i racconti. Sono corse a occhi chiusi. Sono scatti di potenza. Non hanno bisogno di grandi sviluppi psicologici dei caratteri, di architetture complesse, ma di colpi di scena che ribaltano il corso degli eventi.
Fioriscono di notte, ma mentre sono lí che batto furiosamente sulla tastiera, il soffitto si fa piú chiaro, gli uccelli cominciano a cinguettare, il camion della spazzatura a sbuffare all’angolo della strada e la luce smorta dell’alba inizia a premere contro i bordi degli scuri delle finestre. Il tempo per il racconto è svanito, lo riprenderò la notte successiva.
Allora mi alzo, prendo i cani e andiamo fuori a passeggiare.
In questa raccolta ci sono due racconti scritti a quattro mani con Antonio Manzini.
Antonio sa fare molte cose: è un bravo attore e sceneggiatore e un ottimo scrittore. Ha pubblicato due romanzi.
Con Antonio siamo amici da un sacco di tempo e abbiamo scritto, oltre a questi racconti, tre sceneggiature.
Perché scrivere racconti in due?
C’è solo una risposta. Perché è divertente, se hai lo stesso sense of humour e ti piace farti una chiusa in un posto per un paio di settimane.
Ci capita spesso di viaggiare assieme o per piacere o per lavoro. E dopo un po’ che si chiacchiera del piú e del meno si passa inevitabilmente a parlare dei libri e dei film che ci sono piaciuti. Da lí è un attimo… Partiamo a inventarci delle nostre storie… È come con il Lego, ognuno mette il suo mattoncino e alla fine una cosa che piú o meno si regge riusciamo a tirarla fuori. La gran parte viene scartata, ma alcune resistono al passare del tempo. Quando ci rincontriamo le rinfreschiamo, ci aggiungiamo particolari e ci prendiamo qualche giorno per buttarle giú. Scrivere racconti in due è una specie di vacanza in casa, e non ha gli inconvenienti delle sceneggiature in cui continuamente ti chiedi come verrà fuori sullo schermo, se piacerà al regista, chi saranno gli attori, se il produttore accetterà che un camion precipiti giú dalla costiera amalfitana.
Una festa, ecco cos’è lavorare con Antonio. E quindi bisogna divertirsi. I racconti devono essere commedie grottesche e un po’ caciarone. Non penso proprio che potrei scrivere in due storie drammatiche e intime. In due, certi argomenti non si toccano.
C’era una parte poco frequentata delle edicole della stazione, quasi abbandonata, quella dei tascabili.
Tra i libri accatastati, nascosti dietro un vetro, avvolti nella plastica e ricoperti di polvere cercavo le raccolte di racconti.
Era un momento tutto mio, un piacere solitario e veloce perché il treno stava partendo.
Studiavo un po’ i disegni della copertina, pagavo e infilavo il libro in tasca. Appena mi sedevo al mio posto, gli strappavo la plastica che non lo faceva respirare.
Aprivo una pagina a caso, trovavo l’inizio del racconto e attaccavo a leggere. Altre volte, invece, guardavo l’indice e sceglievo il titolo che mi ispirava di piú.
E mentre il treno mi portava via finivo su pianeti in cui c’è sempre la notte, su scale mobili che non finiscono mai e tra mogli che uccidono i mariti a colpi di cosciotti di agnello congelati.
Quella era vera goduria. E spero che la stessa goduria la possa provare anche tu, caro lettore, leggendo questa raccolta di racconti che ho scritto durante gli ultimi vent’anni. C’è un po’ di tutto. La gran parte sono usciti su riviste o giornali, e alcuni in antologie di autori vari. Non devi per forza leggerla in treno. Leggila dove ti pare e parti dall’inizio o aprendo a caso.
Ecco, se dovessi fare un paragone azzardato, il romanzo è una storia d’amore, il racconto è la passione di una notte.
Per finire, devo ringraziare il fidato Antonio Manzini, il marmoreo Aurelio Picca, la splendida Alba Parietti e la dolce Angela Rastelli per la loro disponibilità.
Ah, giusto… Un’ultima cosa. Ferrari quando gli ho proposto i racconti di Fango mi ha detto: «Caro Ammaniti lasciamo perdere, il momento è delicato». Poi sono passati gli anni e ogni volta che proponevo una nuova raccolta mi sentivo ripetere da quelli di Mondadori, e da quelli di Einaudi: «Noo… Meglio un romanzo, il momento è delicato».
Ora che viviamo un momento veramente delicato mi sembra giusto intitolare cosí questo libro.
Bene, mi pare che quello che avevo da dirvi ve l’ho detto, spero che vi divertiate.
NICCOLÒ AMMANITI
Roma, marzo 2012.