1.Concerto di Larita live in Villa Ada
Sasà Chiatti, in vestaglia di raso, boxer a righe e occhialoni infrarossi, era in piedi al centro della terrazza della Villa Reale. Col braccio destro stringeva un fucile d’assalto TAR-21 placcato in oro, il calcio tempestato di diamanti Swarovski, e col sinistro un lanciagranate M79 con il calcio in alabastro e canna placcata in argento. Tra i denti stringeva un sigaro Cohiba Behike, rollato dalle abili mani della torcedora cubana Norma Fernández.
Si avvicinò alla grande scalinata che portava al giardino e allargò le armi in un gesto di saluto. – Benvenuti al party.
Mai poteva immaginare che avrebbero avuto il coraggio di presentarsi il giorno della sua incoronazione. Era stato ingenuo a non pensarci. Era ovvio. Cosi, di fronte a tutti, la sua disfatta sarebbe stata totale e assoluta. Un monito a quelli che provavano a fare di testa loro.
Scese un paio di gradini, fece fuoco sul tavolo dei superalcolici e lo disgregò. – Io sto qui. Forza, fatevi sotto, –urlò nella notte verde del suo visore.
Gli veniva da ridere. Venivano a punirlo perché aveva osato elevarsi, perché aveva mostrato a tutti che anche un ragazzo povero, figlio di un modesto carrozziere di Mondragone, era diventato, grazie alla sua intraprendenza, uno degli uomini più ricchi d’Europa. Perché aveva dato lavoro ai disoccupati e speranza a un sacco di morti di fame. Perché aveva rimesso in moto l’economia di questo Paese del cazzo.
Quella santa donna di sua madre, non aveva studiato ma aveva il cervello che funzionava, lo aveva avvertito. «Salvato’ prima o poi troveranno il modo di fotterti. Si metteranno insieme e ti affogheranno nella merda».
Da anni Sasà Chiatti dormiva con l’ansia aspettando quel momento. Aveva ingaggiato truppe di avvocati, commercialisti, economisti. Aveva fatto costruire una muraglia intorno alla sua Villa per difendersi, aveva fatto scavare un bunker sotterraneo dove nascondersi, assoldato guardie del corpo israeliane e blindato le sue automobili.
Non era servito a un cazzo. Erano arrivati lo stesso. Gli avevano sabotato la centrale elettrica, gli avevano rovinato la festa e ora volevano farlo fuori.
Attraverso il visore notturno ne vide un paio,
belli grossi, che correvano tra i resti del buffet con delle buste
piene di cibo. – Pezzenti. Sapete una bella cosa? Sono contento,
così la finiamo ’sta storia
– . Caricò il lanciagranate. – E la volete sapere un’altra bella
cosa? La festa, gli invitati, i vip possono andarsene tutti a fare
in culo, uccideteli tutti. E pure di questa Villa di merda non me
ne frega un cazzo. Distruggetela. Volete la guerra? E guerra avrete
– . Fece esplodere la grande fontana. Schegge di marmo, acqua e
ninfee si sparsero per decine di metri.
Scese altri tre gradini. – Volete sapere chi cazzo sono io? Volete sapere come cazzo si permette un mariuolo di Mondragone a comprarsi Villa Ada? Adesso ve lo spiego. Ora vi faccio vedere un po’ chi è Sasà Chiatti quando si fa girare il cazzo – . Cominciò a spazzolare con il mitra i tavoli del buffet. I piatti di tartine al tartufo, i vassoi di crocchette di pollo e le brocche con il Bellini si disintegravano sotto i proiettili. I tavoli si disfacevano a terra crivellati dai colpi.
Era una bella sensazione. Il mitragliatore si era scaldato e gli bruciava la mano. Mentre tirava fuori dalla tasca della vestaglia un caricatore e lo sostituiva, ripensò al libro che aveva letto sugli eroi greci.
Ce n’era uno che stimava parecchio, Agamennone. Nel film Troy lo faceva un attore bravissimo, di cui in quel momento gli sfuggiva il nome. L’eroe greco aveva vinto i troiani e si era tenuto come bottino di guerra Criseide, una bella figa. Un dio, uno importante, un aiutante di Zeus, gli aveva offerto in cambio della ragazza un botto di soldi, ma Agamennone non aveva accettato. Agamennone non aveva paura degli dèi. E gli dèi si erano vendicati e avevano scagliato contro il suo accampamento una terribile pestilenza.
– Questa è la vostra vendetta… – Guardò in alto il cielo verdastro. – Solo che gli dèi greci erano grandi e potenti. Quelli italiani sono miserabili. Avete mandato ’sti ciccioni ad ammazzarmi – . Prese di mira una specie di molosso che si trascinava un bustone pieno di bibite e lo fece stramazzare al suolo.
Arrivò in fondo alle scale. – Non dovrebbe essere l’obbiettivo della democrazia? A tutti un’opportunità! –Chiatti, con uno scatto del braccio, ricaricò il lanciagranate. – Beccatevi questa opportunità di andare a fanculo – . E fece esplodere un ciccione con un’intera porchetta sulle spalle.
– Schifosi morti di fame… Evviva l’Italia – .
Sputò via il sigaro e cominciò a correre e a sparare all’impazzata
falciando i sicari obesi. – Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta…
– cantava, mentre i bossoli del TAR-21 schizzavano
da tutte le parti. – Dell’elmo di Scipio si è cinta la testa… – Ne
colpì uno, il cranio si aprì come un’anguria matura.
– Imbecilli, non vi siete neanche armati! Chi cazzo vi credete di
essere per venire qui così? Non siete immortali. Dite a quelli che
vi hanno mandato che ci vuole altro per fare fuori Sasà Chiatti – .
Si fermò col fiatone, poi scoppiò a ridere. – Mi sa che non potrete
dirgli un bel niente, sarete tutti schiattati – . Infilò un’altra
granata e colpì l’Apecar dei gelati Algida. Ci fu un’esplosione che
per un istante illuminò a giorno il giardino all’italiana, il
labirinto di bosso, il gazebo delle informazioni e le tende della
caccia. La ruota anteriore del triciclo schizzò fuori dalla palla
di fuoco, superò i tavoli degli aperitivi, i resti della fontana,
le aiuole di ortensie e colpì l’immobiliarista in fronte.
Sasà Chiatti con i suoi novanta chili ondeggiò e parve resistere all’impatto, ma poi come un grattacielo a cui hanno minato le fondamenta cadde giù. Mentre il mondo intorno a lui si ribaltava, con l’indice tirò il grilletto del mitragliatore e si portò via la punta della pantofola in velluto blu, su cui erano cucite le sue iniziali in oro. Dentro c’erano quattro dita e una bella porzione di piede.
Finì a terra e con la testa batté contro lo spigolo di un tavolino di cristallo. Una lunga scheggia triangolare gli si piantò proprio sopra la nuca, attraversò la scatola cranica, la dura madre, l’aracnoide, la pia madre e s’infilò nel tessuto molle del cervello come una lama affilata in una Danette alla vaniglia.
– Ahhhh… Ahhhh… Che dolore… Mi avete colpito, – riuscì a mugugnare, prima di vomitarsi addosso i resti semidigeriti dei rigatoni all’amatriciana e delle polpette con i pinoli e l’uva passa.
Con il visore notturno tutto storto osservò quello che restava dell’estremità del suo arto sinistro. Il moncherino, un ammasso di carne viva e spunzoni di osso, perdeva come un rubinetto spanato un liquido verde scuro. L’immobiliarista allungò una mano, afferrò una tovaglia da un tavolino rovesciato e ci si fasciò alla bell’e meglio la ferita. Poi prese una bottiglia di amaro Averna e se ne scolò un quarto.
– Bastardi. Pensate di avermi fatto male? Vi sbagliate. Forza, stupitemi, fatemi vedere che cosa sapete fare. Sono qua, – fece segno con le dita di farsi avanti. Afferrò il mitragliatore e continuò a sparare in giro finché non ci fu più niente a cui sparare. Rimase per un attimo in silenzio e si accorse che aveva il collo e le spalle zuppe di sangue. Si toccò la nuca. Tra i capelli gli spuntava un pezzo di vetro. L’afferrò con il pollice e l’indice e provò a estrarlo, ma gli scivolava tra i polpastrelli. Boccheggiando ci riprovò, e appena lo mosse un flash rosa gli accecò l’occhio sinistro.
Decise di lasciarlo li e si accasciò contro i resti della scultura in ghiaccio di un angelo e con le poche forze che gli restavano si tracannò il resto dell’amaro, sentendo il sapore dolceamaro dell’Averna mischiarsi con quello salato del sangue. – Non mi avete fatto un cazzo… Non mi avete… Complotto di merdosi – . Dalla testa dell’angelo e dagli abbozzi consumati delle ali cadeva una pioggia gelata che gli scivolava sul cranio liscio e sulla maschera a infrarossi, gli colava sulle guance paffute e gocciolava sulla pancia dilatata, sulla vestaglia, e annacquava la pozza di sangue in cui era sprofondato.
La morte era fredda. E un polipo di ghiaccio
gli avvolgeva i tentacoli gelati lungo la spina dorsale.
Ripensò a sua madre. Avrebbe voluto dirle che il suo chiappariello
le voleva bene, e che era stato bravo. Ma non aveva più fiato nei
polmoni. Fortuna che l’aveva nascosta al sicuro nel
bunker.
Porca puttana…, si disse stirando un
sorriso. Era bello andarsene così. Come un eroe. Come un eroe greco
in battaglia. Come il grande Agamennone, il re dei greci.
Aveva sonno e si sentiva affaticato. Che strano, il piede non gli
faceva più male. E anche la testa non gli pulsava più, era leggera.
Gli sembrò di essere uscito dal suo corpo e di vedersi.
Lì, accasciato sotto un angelo che si scioglie.
La testa gli ricadde sul petto. La bottiglia gli scivolò fra le
gambe. Si guardò le mani. Le aprì e le chiuse.
Le mie mani. Queste sono le mie
mani.
Alla fine avevano vinto loro.
Ma loro chi?
2.
Fabrizio Ciba riprese i sensi come se riemergesse da un pozzo senza fondo. Ad occhi chiusi spalancò la bocca e rimase accucciato in posizione fetale, a ingoiare e sputare fuori aria. Ricordò il buio e i grappoli di ciccioni appesi agli alberi.
Mi hanno
rapito.
Rimase fermo, senza aprire gli occhi, fino a che il cuore cominciò
a rallentare. Era indolenzito dalle dita dei piedi fino alla cima
dei capelli. Appena si muoveva un dolore atroce gli scorreva su per
le spalle…
Lì dove mi ha colpito.
(Non pensarci).
… e attraverso i muscoli del collo si irraggiava come una scossa
elettrica dietro le orecchie fino alle tempie. La lingua era così
gonfia che faceva fatica a stargli in bocca.
Sono caduti dagli alberi.
(Non pensarci).
Giusto, non doveva pensarci. Doveva solo stare fermo e aspettare
che il dolore passasse.
Devo pensare a qualcosa di
bello.
Ecco, era a Nairobi, steso in un letto. Le tende di lino mosse da
un vento caldo. Accanto aveva Larita, nuda, che vaccinava i bambini
keniani.
Dov’è Larita?
(Non pensarci).
Tra poco si sarebbe alzato e avrebbe
preso un Aulin e si sarebbe preparato una bella spremuta di
pompelmo.
Non funziona.
Era steso su un terreno troppo duro e freddo per poter
fantasticare.
Poggiò una mano a terra. Il pavimento era bagnato e sembrava fatto
di terra battuta.
Non aprire gli occhi.
Tanto prima o poi gli sarebbe toccato aprirli e scoprire dove il
mostro lo aveva portato. Per il momento era meglio di no, stava
troppo di merda e non voleva altre brutte sorprese. Preferiva
starsene li, buono, a immaginarsi l’Africa.
Ma c’era un odore strano, di umido, che gli dava la nausea. Gli
ricordava l’odore che si sentiva nella cantina scavata nel tufo
della villa di suo zio a Pitigliano. E faceva freddo, proprio come
li.
Sono sottoterra. Erano almeno cinque su
quell’albero. Mi hanno rapito. Era un complotto per
rapirmi.
Un gruppo di terroristi obesi erano calati dagli alberi e lo
avevano rapito.
Prima lentamente, poi sempre più velocemente, il suo cervello prese
a rielaborare quell’idea balorda, a impastarla e farla crescere
come fosse un panetto per la pizza. E ci poteva mettere una mano
sul fuoco che il rapimento era stato coordinato da quel figlio di
puttana di Sasà Chiatti, un vero mafioso colluso con il potere. La
festa, i safari, tutto un paravento per nascondere un piano globale
per togliere di mezzo un intellettuale scomodo, che puntava il dito
contro il degrado morale della società.
È ovvio, me la vogliono far
pagare.
Durante tutta la sua carriera si era esposto, incurante delle
conseguenze, contro i poteri occulti. Lo considerava dovere civile
di uno scrittore. Aveva scritto un articolo infuocato contro le
lobby dei boscaioli finlandesi che abbattevano le foreste
millenarie. Quei bestioni che lo avevano rapito potevano essere
benissimo una falange estremista finlandese.
Un’altra volta aveva apertamente dichiarato sul «Corriere della
Sera» che la cucina cinese era una cagata. E si sa che i cinesi
sono una mafia e non lasciano impunito chi ha il coraggio di
attaccarli pubblicamente.
Certo quei colossi erano un po’ troppo pingui per essere
cinesi…
E se sì fossero coalizzati con i boscaioli
finlandesi?
Gli venne in mente il grande Salman Rushdie e la fatwa
islamica.
E ora mi giustizieranno.
Be’, se finiva così, sarebbe almeno morto con la sicurezza di
essere ricordato come un martire della verità.
Tipo Giordano Bruno.
Tutto preso a districarsi nel groviglio della sua mente, lo
scrittore non si accorse di non essere solo fino a quando non sentì
una voce.
– Ciba? Mi senti? Sei ancora vivo?
Era una voce bassa, quasi un sussurro. Alle sue spalle. Una voce
con una erre moscia fastidiosa. Una voce che gli stava parecchio
sui coglioni. Fabrizio aprì gli occhi e cacciò una bestemmia. Era
quel rompiballe di Matteo Saporelli.
3.
Il giorno in cui era stato chiamato a organizzare il catering della festa, l’imprevedibile chef bulgaro Zóltan Patrovič aveva adocchiato nello studio di Chiatti un dipinto ad olio di Giorgio Morandi che raffigurava un paio di bottiglioni su un tavolo.
Quell’opera del pittore bolognese avrebbe dato prestigio alla sala Emilia–Romagna del suo ristorante Le regioni.
Il locale, sito in via Casilina angolo via Torre Gaia, era da anni al vertice delle guide gastronomiche europee. Lo aveva disegnato nel 1990 l’architetto giapponese Hiro Itoki, come un’Italia in miniatura. Guardandolo dall’alto, il lungo edificio aveva stessa forma e proporzioni della penisola italica, con tanto di isole maggiori. Era suddiviso in venti sale che corrispondevano per forma e specialità culinarie alle regioni italiane. I tavoli avevano i nomi dei capoluoghi.
Il quadro di Morandi sarebbe stato perfetto
sopra il frigocantinetta dove custodiva il Lambrusco.
Il bulgaro aveva deciso che dopo la festa se lo sarebbe fatto
regalare da Salvatore Chiatti. E se, come immaginava,
l’immobiliarista avesse opposto resistenza, lo avrebbe convinto a
donarglielo spingendogli nella testa un po’ di
confusione.
Ora che il party era andato in vacca, gli invitati erano dispersi
nel parco e aveva visto il corpo senza vita dell’imprenditore in
una pozza di sangue, non c’era alcuna ragione per non farsi
ripagare il suo lavoro con quell’opera d’arte.
Nel buio, con una candela in mano, si avviò silenzioso come un
gatto nero per le grandi scale che portavano al primo piano della
villa, abbandonata dai camerieri e dallo staff.
I gradini erano coperti di pezzi di mobilio, vestiti, piatti,
statue spezzate.
I ciccioni avevano messo la residenza a ferro e fuoco. Allo chef
non interessava chi fossero e cosa volessero. Lui li stimava.
Avevano apprezzato la sua cucina. Li aveva visti avventarsi sul
buffet con una foga e una violenza primordiale. In quegli occhi
incolori aveva scorto l’estasi ancestrale della fame.
Da qualche tempo gli capitava di tornare dal suo ristorante stanco
e frustrato. Detestava come la gente usava la forchetta per
indagare nel piatto, come interrompeva le chiacchiere con i
bocconi, organizzava pranzi di lavoro a base di inutili antipasti.
Per ritrovare la pace interiore era costretto a vedersi i
documentari sulla fame nel terzo mondo.
Sì, l’imprevedibile chef bulgaro adorava la fame e odiava
l’appetito. L’appetito era l’espressione di un mondo satollo e
soddisfatto, pronto alla resa. Un popolo che assapora invece di
mangiare, che stuzzica invece di sfamarsi, è già morto e non lo sa.
La fame è sinonimo di vita. Senza fame l’essere umano è solo una
parvenza di se stesso e di conseguenza si annoia e comincia a
filosofeggiare. E Zóltan Patrovič odiava la filosofia. Soprattutto
quella applicata alla cucina. Rimpiangeva la guerra, le carestie,
la povertà. Presto avrebbe venduto baracca e burattini e si sarebbe
trasferito in Etiopia.
L’imprevedibile chef bulgaro arrivò al piano di sopra. L’aria era
satura di fumo e, dovunque posava la luce traballante della
candela, c’era distruzione. Dalla stanza da letto arrivavano
mormorii e bagliori di un fuoco.
A lui non interessava cosa stesse succedendo là dentro, doveva
andare nello studio, ma la curiosità lo vinse. Spense la candela e
si avvicinò alla porta. Un grande arazzo e le tende di broccato
bruciavano, e le fiamme rischiaravano la stanza. Sul letto a
baldacchino era stesa Ecaterina Danielsson, completamente nuda. I
capelli, come una nuvola rossa, le incorniciavano il volto
spigoloso. Intorno alla donna una decina di ciccioni mormoravano in
ginocchio una strana cantilena e allungavano le mani e le
sfioravano i minuscoli seni bianchi con i capezzoli color prugna,
il ventre piatto con l’ombelico fatto a coppa, il pube coperto da
una strisciolina di pelliccia color carota e le gambe
lunghissime.
La modella, la schiena arcuata come un felino, muoveva pigramente
la testa, gli occhi socchiusi in un’espressione estatica, la bocca
larga e umida, spalancata. Ansimava, poggiando le mani sulle teste
dei ciccioni prostrati intorno al letto come schiavi che adorano
una dea pagana.
Zóltan si allontanò, riaccese la candela, segui il lungo corridoio
ed entrò nello studio di Chiatti. Alzò la fiamma. Il suo quadro era
ancora li. Nessuno lo aveva toccato.
Qualcosa che assomigliava a un sorriso fece per un istante capolino
sul volto dello chef. – Non lo desidero, ma devo possederlo – .
Fece un passo verso il dipinto, ma sentì dei rumori nel buio della
stanza. Si appiatti dietro una libreria.
Più che rumori erano versi disgustosi.
Zóltan spostò la candela e vide, tra due librerie, in un angolo, un
uomo in ginocchio. Era ridotto a uno scheletro. La piccola testa
calva, piegata verso il pavimento, era nascosta dietro le scapole
esili e si vedeva solo la schiena con le vertebre che si
sollevavano come una catena montuosa. La pelle, sottile come carta
velina, era ricoperta da una rete di rughe e pendeva floscia dalle
braccia gracili come ramoscelli. Strappava qualcosa e se lo
cacciava in bocca, producendo versi gutturali e
gorgoglii.
Incuriosito il cuoco fece un passo in avanti. Il parquet gli
scricchiolò sotto i piedi.
L’uomo a terra si girò di scatto e digrignò i pochi denti marci che
ancora aveva in bocca. I piccoli occhi brillavano come quelli di un
lemure. Il viso rinsecchito era imbrattato di un liquido scuro e
oleoso. Si tirò indietro, ringhiando, spalle al muro. Tra le gambe
aveva i resti di una grande teglia di parmigiana di
melanzane.
Lo chef sorrise. – È buona, vero? L’ho fatta io. Dentro c’è la
passata di pomodori. E le melanzane sono fritte in un olio leggero
– . Si avvicinò al quadro.
Il vecchio allungò la testa senza perderlo di vista.
– Mangia con comodo. Io mi prendo questo e me ne vado, – disse lo
chef con una voce bassa e rassicurante, ma quello miagolando
afferrò da terra la teglia e gli si avventò contro. Zóltan allungò
la mano destra e gli strinse la calotta cranica.
Aleksej Jusupov, famoso maratoneta, si immobilizzò all’istante. Gli
occhi gli si spensero e le braccia gli ricaddero sui fianchi. Dalla
teglia che teneva ancora stretta nella mano colarono a terra i
resti della parmigiana.
Che strano, improvvisamente non aveva più paura di quell’uomo nero, anzi si accorse di volergli bene. Gli ricordava il vecchio monaco del suo villaggio. E la mano sulla fronte irraggiava un tepore benefico lungo il suo scheletro vecchio e artritico. Gli pareva di avvertire un’energia curativa che circondava le ossa e ammorbidiva le articolazioni irrigidite dal tempo e dall’umidità della vita sotterranea. Si sentiva forte e in forma proprio come quando era un ragazzino.
Da tanti anni non pensava più a quel periodo
della sua vita.
Correva per chilometri e chilometri lungo la costa gelata del lago
Bajkal senza stancarsi mai. E suo padre, intabarrato nel cappotto,
gli controllava i tempi. Per festeggiare, se aveva migliorato il
suo record, andavano a pescare su un lungo pontile da cui si
vedevano le montagne del Barguzin coperte di neve. D’inverno era
ancora più bello, aprivano un buco nel ghiaccio e calavano le
esche. E se erano fortunati tiravano su delle grandi carpe marroni.
Animali vigorosi, che combattevano fieramente prima di
cedere.
Com’era buona quella carne grassa, bollita con le patate, il cavolo
nero e il rafano. Cosa avrebbe dato per provare ancora la
sensazione di quei filetti che gli si scioglievano in bocca e del
rafano che gli pizzicava il naso.
Aleksej si ritrovò nel capanno da pesca illuminato solo da una
lampada a cherosene e dai bagliori della stufa a legna.
Papa che gli faceva bere un bicchiere
di vodka e gli diceva che era benzina per il corpo di un corridore
e si mettevano a letto, sotto strati di coperte ruvide che sapevano
di canfora. Uno accanto all’altro. E poi papa lo stringeva forte e gli diceva in un orecchio
con il fiato che puzzava di alcol che lui era un bravo ragazzo, che
correva come il vento e che non doveva aver paura… Che era un
segreto tra loro. Che non faceva male, anzi…
No. Non voglio. Ti prego… Papa
non farmi questo.
Qualcosa si ruppe nella mente di Aleksej
Jusupov.
Il tepore benefico spari dalle sue membra e il terrore lo avvolse
come una doccia fredda. Strizzò gli occhi pieni di lacrime e
davanti a sé vide suo padre vestito da monaco.
– Пошёл вон! Я тебя
ненавижу1, – fece Aleksej e
mettendoci tutta la forza che aveva colpì l’autore dei suoi giorni
con la teglia dal doppio fondo in acciaio.
L’imprevedibile chef bulgaro, incredulo, cadde a terra e l’atleta
russo lo finì a colpi di teglia.
4.
L’ex leader delle Belve di Abaddon si risvegliò
nel buio pesto, sballottato come un sacco di patate.
Ci mise poco a capire che era in spalla al mostro che lo aveva
scagliato addosso a un albero. Scalciò cercando di liberarsi, ma un
braccio lo strinse così forte da fargli intendere che era meglio
stare buono, se non voleva soffocare. Il ciccione marciava veloce
senza stancarsi e sembrava vederci perfettamente nelle tenebre,
girava a destra e a sinistra come se in quel labirinto ci fosse
nato. Ogni tanto una bava di luna riusciva a infilarsi attraverso
delle aperture sopra la volta e dalle tenebre apparivano piccoli
scheletri adagiati nei loculi di una lunga galleria
sotterranea.
Sono nelle catacombe.
L’ex leader delle Belve conosceva le catacombe di Priscilla. Alle medie ci era andato in gita di classe. A quel tempo era innamorato di Raffaella De Angelis. Una ragazzina magra come una sardina, con dei lunghi capelli mori e un apparecchio d’argento ancorato ai denti. Gli piaceva perché il padre aveva una Lancia Delta blu con le poltrone di alcantara azzurre.
Per fare il simpatico, mentre avanzavano nella catacomba, Saverio le era andato dietro senza farsi vedere e le aveva dato un pizzicotto su un polpaccio sussurrandole: «L’etrusco uccide ancora». E Raffaella aveva lanciato un urlo, sgomitando terrorizzata. Saverio era stato colpito sul naso ed era svenuto.
Se lo ricordava come fosse ieri, il risveglio nel cubicolo della Velata. Tutti i suoi compagni di classe che formavano un capannello intorno a lui, la professoressa Fortini che scuoteva la testa, la vecchia suora del convento che si faceva il segno della croce e Raffaella che gli diceva che era un imbecille. Nonostante il dolore al naso si era reso conto di essere per la prima volta in vita sua al centro dell’attenzione. E aveva capito che era necessario fare cose straordinarie (non necessariamente intelligenti) per farsi notare.
Il padre di Raffaella lo aveva riaccompagnato a casa sulla Lancia Delta, che aveva l’odore buono delle macchine nuove.
Chissà che fine aveva fatto quella ragazza così
carina?
Se non le avesse fatto quello scherzo idiota, se fosse stato
gentile con lei, se fosse stato più sicuro di se stesso, se…
forse…
SE e FORSE
erano le due parole che avrebbero dovuto scolpire sulla sua
tomba.
Saverio Moneta buttò indietro la testa e si abbandonò sulle spalle
del suo rapitore.
5.
Fabrizio Ciba osservava la volta di una grotta rischiarata dai bagliori rossastri di un fuoco. Il soffitto aveva una rozza forma geometrica. Come una cripta scavata nella roccia. Appesa al muro bruciava una fiaccola, i fumi neri e densi salivano in alto e s’incanalavano dentro fori che fungevano da canne fumarie. Nelle pareti erano scavati decine di piccoli loculi in cui erano raccolti mucchietti di ossa.
Matteo Saporelli continuava a rompere i
coglioni.
– Allora… Come stai? Riesci ad alzarti?
Fabrizio prosegui la sua ispezione, ignorandolo.
Radunate contro le pareti, tutte accucciate a terra, vedeva le
sagome di un sacco di persone. Osservando meglio si accorse che
erano invitati della festa, camerieri e qualche uomo della
sicurezza. Riconobbe un paio di attori, il comico Sartoretti, un
sottosegretario ai Beni culturali, una velina. E, cosa strana,
nessuno parlava, come se gli fosse stato impedito.
Matteo Saporelli invece lo tormentava sottovoce.
– Allora? Che mi dici?
Esausto per quelle continue domande Fabrizio si girò e vide il
giovane scrittore. Era ridotto male. Con un occhio tumefatto e quel
taglio sulla fronte sembrava la brutta copia di Rupert Everett
pestato da uno più grosso e cattivo di lui.
Fabrizio Ciba si massaggiò il collo dolorante. – Che ti è
successo?
– Dei ciccioni mi hanno rapito.
– Anche a te?
Saporelli si tastò l’occhio gonfio. – A me mi hanno picchiato
quando ho provato a scappare.
– Pure a me. Mi fa male tutto.
Saporelli abbassò la testa, come se dovesse ammettere una terribile
colpa. – Senti… Non volevo… Mi dispiace tantissimo…
– Di cosa?
– Di questo casino. Siete tutti coinvolti per colpa mia.
Fabrizio si piegò per guardarlo meglio. – In che senso? Non
capisco.
– Esattamente un anno fa ho scritto un agile saggio sulla
corruzione in Albania per un piccolo editore foggiano. E adesso la
mafia albanese me la fa pagare – . Saporelli si sfiorò la ferita
con la punta delle dita. – Comunque sono disposto a morire.
Implorerò di risparmiarvi, non è giusto che se la piglino con voi.
Non c’entrate niente.
– Mi dispiace dovertelo dire, ma credo che tu ti stia sbagliando –
. Fabrizio si batté sul petto. – È tutta colpa mia. È un gruppo
eversivo di boscaioli finlandesi che ci ha sequestrati. Io ho
smascherato lo scempio che fanno nelle foreste millenarie del Nord
Europa.
Saporelli scoppiò a ridere. – Ma figurati… Li ho sentiti parlare,
parlano albanese.
Fabrizio lo guardò perplesso. – Sì, e adesso tu sai
l’albanese?
– No, non lo so. Ma sembrerebbe proprio albanese. Usano certe
consonanti tipiche degli idiomi balcanici, – continuava
ossessivamente a tastarsi l’ematoma. – Senti, dimmi la verità, ma
come sono ridotto? Ho il volto sfigurato, vero?
Fabrizio lo osservò per qualche secondo. Non era conciato
malissimo, ma fece un lento si con il capo.
– Ma tornerò normale?
Ciba gli diede la brutta notizia. – Non credo. È una bella botta…
Speriamo almeno che l’occhio sia ancora funzionante.
Saporelli si accasciò a terra. – Ho un cerchio terribile alla
testa. Non è che hai un Saridon? Un Moment?
Stava per dirgli di no, poi si ricordò della pillola magica che gli
aveva dato Bocchi. – Sei il solito fortunato. Ho questa pasticca.
Vedrai come stai sereno dopo.
Con l’occhio sano il giovane autore la esaminò. – Che roba
è?
– Tu non ti preoccupare. Butta giù.
Il premio Strega, dopo un attimo di incertezza, la
ingoiò.
In quel momento dal buio di un cunicolo si sentì un ritmo lento di
percussioni. Assomigliava a un battito cardiaco.
– Oddio, stanno arrivando. Moriremo tutti! – urlò Alighiero
Pollini, il sottosegretario ai Beni culturali, e si abbracciò Mago
Daniel, il famoso prestigiatore di Canale 26. La velina cominciò a frignare, ma nessuno si
prese pena di confortarla. Il battito era diventato più forte e
rimbombava nella cripta.
Fabrizio, obnubilato dalla strizza al punto che gli dolevano
persino le otturazioni, disse: – Saporelli io… io… Ti
stimo.
– E io ti considero il mio padre letterario. Un modello da imitare,
– rispose il giovane in un impeto di sincerità.
I due si abbracciarono e fissarono l’ingresso del cunicolo. Era
così nero che il buio sembrava palpabile. Come se milioni di litri
di inchiostro dovessero traboccare, da un secondo all’altro,
all’interno della cripta.
Il ritmo tribale, nascosto dalle tenebre, sembrava composto da
percussioni, tamburi, ma anche da battiti di mani.
Lentamente, come se si liberassero dal buio che le imprigionava,
apparvero delle figure.
Tutti smisero di frignare e di lamentarsi e rimasero in silenzio a
guardare la processione.
Erano enormi. Bianchi come gesso e con le teste piccole incassate
nelle spalle cadenti. Rotoli di ciccia gli nascondevano la vita, e
le braccia somigliavano a prosciutti. Alcuni avevano dei bonghi che
tenevano sotto l’ascella e gli altri si colpivano il petto
producendo il ritmo ancestrale. C’erano anche delle femmine, più
basse e con le tette piatte e larghe come scamorze, e dei bambini,
chiattoni pure loro, che stringevano impauriti le mani delle
madri.
Lentamente il branco timido e impacciato si fece avanti. Erano
vestiti con pezzi di tute sportive, felpe slabbrate, resti di
uniformi da giardiniere. Ai piedi avevano scarpe da ginnastica
sformate e ricucite con pezzi di spago e filo di ferro. Intorno ai
bicipiti lardosi, collari da cane. Alcuni indossavano cuffiette
rotte alle quali avevano appeso ciondoli, medagliette con nomi e
numeri di telefono, tappi di bottiglia. Altri avevano copertoni di
bicicletta intorno al petto.
La pelle era priva di pigmenti e gli occhietti, rossi e
all’infuori, sembravano infastiditi dalla luce. I capelli, senza
colore, erano intrecciati con i nastri di plastica bianchi e rossi
che servono a delimitare i lavori in corso.
A un tratto, tutti insieme, smisero di battere e rimasero in
silenzio di fronte agli invitati. Poi si allargarono in due ali per
far passare qualcuno.
Un gruppo di vecchi così rachitici che sembravano usciti da un
campo di concentramento si fece spazio tra i ciccioni. Erano
bianchissimi, ma non erano albini. Alcuni avevano i capelli
scuri.
I ciccioni si inginocchiarono. Poi furono deposti al centro della
stanza un uomo e una donna seduti sopra delle sedie di plastica
bianca.
Il vecchio aveva sulla testa un copricapo ornamentale, che
assomigliava lontanamente a quello degli indiani d’America,
composto di penne Bic, bottigliette di Campari Soda e palette di
plastica colorate. Grandi occhiali da sole Vogue gli coprivano
quasi tutta la faccia. Sul busto portava un’armatura composta da
frisbee di plastica colorata.
La donna portava sul capo un secchiello blu e ai lati le cadevano
cordoni di capelli bianchi intrecciati con strisce di camere d’aria
e penne di piccione. Era avvolta in un piumino North Face lercio da
cui spuntavano due gambette esili e varicose.
Il re e la regina, si disse
Fabrizio.
6.
Quei due sono il re e la
regina, si disse Saverio, che si trovava dall’altra parte
della grande cripta.
Il ciccione lo aveva depositato li, in mezzo agli altri invitati.
Accanto aveva due signore di una certa età vestite da cavallerizze.
Stavano in silenzio e scuotevano la testa in sincrono, come i
pupazzi dietro i lunotti delle macchine. In un angolo c’era Larita,
accucciata a terra, e non sembrava che stesse tanto bene.
Continuava a pulirsi ossessivamente la faccia e il collo come se
fossero ricoperti di insetti.
Saverio si sentiva stranamente tranquillo. Gli era calata addosso
una terribile stanchezza. Aver raccattato da terra il cadavere
carbonizzato di Zombie lo aveva reso insensibile. Come un Buddha
sedeva immobile, il volto disteso, accanto alle facce contratte
dalla paura, stravolte dalle lacrime, degli altri
invitati.
Forse questo è lo spirito del samurai di cui
parla Mishima.
C’era una differenza sostanziale tra lui e quella gente. Al
contrario di loro, lui alla vita non teneva più. E per certi versi
si sentiva più simile a quei mostri, sbucati come un incubo dalle
viscere della terra. Solo che quelli erano stati capaci di fare ciò
che a lui e alle Belve non era riuscito. Portare il terrore alla
festa.
Un ciccione che impugnava una ruota di bicicletta come fosse uno
scudo batté un bastone a terra e disse in una lingua sconosciuta: –
Тише2!
Il vecchio re, seduto sul suo trono di plastica, osservò i
prigionieri e poi con un filo di voce mormo
rò: – Вы советские3?
Saverio avrebbe voluto essere uno di loro, avrebbe sostenuto ogni sorta di iniziazione, si sarebbe fatto appendere con degli uncini nella carne per dimostrargli di essere un elemento valido, un guerriero. Un membro del popolo del buio.
2 Fate silenzio! 3 Siete sovietici?Gli invitati si guardavano, sperando che
qualcuno conoscesse il curioso idioma.
Un tipo frangettato con un occhio tumefatto e uno sbrego sulla
fronte si alzò e chiese silenzio. – Amici, tranquilli, sono
albanesi. Ce l’hanno con me. Vi farò liberare tutti. Qualcuno di
voi che conosce l’albanese, mi può fare da traduttore?
Nessuno gli rispose, poi Milo Serinov, il portiere della Roma, disse: – Я
русский4.
Il vecchio gli fece segno di sollevarsi in piedi.
Il calciatore ubbidì e i due cominciarono a discutere nello stupore
generale. Poi finalmente Serinov si rivolse ai rapiti. – Sono
russi.
– Che vogliono da noi? – Che gli abbiamo fatto di male? – Perché
non ci liberano? – Gli hai detto chi siamo? –Tutti facevano
domande, volevano sapere.
Serinov, con il suo italiano zoppicante, spiegò che quelli erano
atleti russi dissidenti scappati durante le Olimpiadi di Roma e che
vivevano nelle catacombe per paura di essere uccisi dal regime
sovietico.
– E noi che c’entriamo?
Il calciatore sorrise divertito. – Pensavano…
Ecco… Pensavano che fossimo comunisti.
Una fragorosa e spontanea risata si sollevò tra gli invitati. –
Ahahah. Noi? Ma non ci hanno visto? Noi li odiamo i comunisti, –
fece Riccardo Forte, imprenditore emergente nel ramo dei laminati
d’alluminio. – Gli hai spiegato che il comunismo è morto e defunto?
Che i comunisti sono più rari dei… – Non gli veniva il
paragone.
– Dei paninari, – aggiunse Federica Santucci, la dj di Radio
109.
– Certo che gliel’ho detto e gli ho raccontato che il regime
sovietico non esiste più e che i russi ora sono molto più ricchi
degli italiani. Gli ho detto che anche io sono russo e che faccio
il calciatore e che faccio quello che mi pare visto che guadagno un
botto di soldi.
Tra gli invitati, improvvisamente, si respirava un’aria leggera e
frizzantina. Tutti erano contenti e si davano delle pacche di
solidarietà.
Il vecchio re si rivolse di nuovo al calciatore, che tradusse: – Il
vecchio qui ha detto che ci libererà se promettiamo di non dire
niente della loro esistenza. Non sono preparati ad abbandonare le
catacombe.
– Ma figurati. E a chi dobbiamo dirlo? – fece uno.
– Che problema c’è? Io me lo sono già dimenticato, –disse un
altro.
Una ragazza dai lunghi capelli rossi si guardava intorno. – Che
fenomeno singolare! Non li vedo neanche più.
Si sollevò in piedi Michele Morin, il regista della serie Tv
La dottoressa Cri. – Ragazzi. Per
favore! Sul serio! Un attimo di attenzione. Facciamo giurin
giurello? Cosi li facciamo stare tranquilli. Se lo
meritano.
– Certo qualche foto però potremmo fargliela. Sono cosi
folcloristici. Io lavoro per «Vanity Fair».
– Comunque, mi sono divertito un casino. Non vedo l’ora di
raccontarlo a Filippo…
Tutti si erano messi in piedi e si aggiravano nella cripta,
guardando interessati il popolo sotterraneo. Finalmente
cominciavano a divertirsi. Altro che le cacce organizzate da
Chiatti. Questa era la vera sorpresa.
– Adorabili ciccioni.
– Guardate i bambini. Che teneri.
7.
Durante la gestione del Comune di Roma la vecchia saracinesca che controllava il flusso dell’acqua nel grande bacino artificiale di Villa Ada aveva dato parecchi problemi agli addetti alla manutenzione. Negli ultimi dieci anni si era rotta almeno sei volte e ogni volta era stata riparata. Passava qualche tempo e la grossa valvola arrugginita ricominciava a perdere e il lago si ritirava, lasciando dietro di sé un tappeto di melma scura e nauseabonda.
Quando Villa Ada era stata acquistata da Sasà Chiatti la rete idrica era stata sostituita con una nuova e più sofisticata. Per progettare il complesso schema idraulico che avrebbe alimentato rivoli e fiumiciattoli, i due laghi artificiali, gli abbeveratoi per gli animali, le fontane e la piscina a sfioro, era volato direttamente da Austin il giovane e geniale ingegnere idraulico texano Nick Roach, diventato famoso per aver supervisionato la costruzione della diga Stanley di Albuquerque e dell’AquaPark di Taos.
Il tecnico aveva disseminato nei bacini di Villa Ada dei sensori che avrebbero inviato continuamente ai computer della sala di controllo informazioni sul livello dell’acqua, la temperatura, la durezza carbonatica e il pH. Un programma elaborato da Roach con l’aiuto della software–house Douphine Inc. controllava, attraverso delle pompe, tutti i flussi nei bacini, ricreando le condizioni naturali del lago Vittoria, del bacino dell’Orinoco e del delta del Mekong.
Mentre era lì che dirigeva la realizzazione della rete idrica l’ingegnere si era imbattuto nella vecchia saracinesca del grande lago meridionale. La valvola era un pezzo di archeologia industriale, enorme, ricoperta di muschio e con il volante in ghisa. Sopra era impresso il marchio di fabbrica: «Fonderie Trebbiani. Pescara. 1846». Roach era rimasto a osservarla senza parole, poi si era inginocchiato a terra e aveva cominciato a singhiozzare.
Sua madre si chiamava Jennifer Trebbiani ed era di origini abruzzesi.Negli ultimi giorni di vita, quando oramai il cancro le aveva mangiato l’intestino, la donna farfugliava al figlio che il suo bisnonno era partito da Pescara per le Americhe lasciando in mano al fratello la fonderia di famiglia.
Quindi, a rigor di logica, quella valvola era
stata prodotta dalla fonderia dei suoi avi.
In un impeto di nostalgia Nick Roach aveva deciso di lasciare la
saracinesca al suo posto nella nuova rete idrica. Sapeva che non
era corretto dal punto di vista progettuale e che probabilmente, in
caso di blackout, avrebbe esposto la valvola a pressioni superiori
alle sue capacità, ma lo fece lo stesso, in onore di sua madre e
dei suoi antenati pescaresi.
Quando, la notte della festa, era venuta improvvisamente a mancare
l’energia elettrica, tutti i computer che regolavano i flussi e le
pompe che mantenevano costante il livello del bacino si erano
spenti e il lago si era cominciato a riempire d’acqua, sottoponendo
le tubature e le saracinesche a una pressione eccezionale.
Alle quattro e ventisette tutte le giunzioni della condotta spruzzavano acqua come innaffiatoi, ma la vecchia valvola pareva tenere. Poi ci fu un suono sinistro, uno strillo metallico, e il volante in ghisa saltò in aria come un tappo di Champagne. La condotta esplose e due milioni di litri d’acqua contenuti nel bacino furono risucchiati nella bocca d’aspirazione al centro del lago formando in pochi minuti un Maelström che si tirò giù i coccodrilli, le tartarughe anfibie, gli storioni, le ninfee e i loti.
Tutta quell’acqua aprì una voragine nella terra e sfondò la volta di tufo di una galleria della catacomba che passava proprio sotto il lago, e cominciò a riempirla come fosse un’enorme tubazione. Ci mise meno di tre minuti a sommergere il primo piano dell’antico cimitero cristiano e trascinando tutto quello che trovava, ossa e pietre, ragni e topi, si lanciò, tra spruzzi e gorghi, nelle ripide scalette, scavate faticosamente dai rudimentali scalpelli dei cristiani, che portavano al piano inferiore. Li l’acqua, ostacolata dal piccolo diametro delle scale, sembrò perdere di forza, ma poi un enorme costone di tufo si disgregò come un castello di sabbia sotto un’onda e l’acqua si aprì una nuova via che le permise di esprimere tutta la sua incontenibile rabbia e di sommergere tutto quello che incontrava. Gli antichissimi affreschi che rappresentavano due colombi in amore, che stavano li da duemila anni, furono strappati via dalle pareti della tomba di un ricco commerciante di tessuti.
A quel punto lo spaventoso fronte delle acque, rombando come un reattore, prosegui nel buio verso la grande cripta dove si trovavano gli invitati e il popolo che vive sottoterra.
8.
Gli invitati chiacchieravano, esprimevano giudizi, si accalcavano nella cripta intorno ai russi come fossero a un vernissage. Federico Gianni, l’amministratore delegato della Martinelli, con addosso brandelli dell’uniforme da caccia al leone, stava parlando con Ciba. – Senti, ma questa è una storia pazzesca… gli atleti sovietici che vivono per cinquant’anni nel sottosuolo di Roma. Ci viene fuori un romanzo incredibile. Una roba genere Il nome della rosa, per intenderci.
Fabrizio se ne stava sulle sue. Quello era un
falsone traditore. – Dici? Non mi sembra così eccezionale. Sono
cose che succedono abbastanza frequentemente.
– Ma scherzi? Ne potrebbe venire fuori un grande libro. Questa
storia, mandata nelle librerie con il giusto lancio, spacca
tutto.
Lo scrittore si carezzò il mento. – Non lo so…
Non mi convince.
– E la devi scrivere tu. Senza alcun dubbio.
Fabrizio non si trattenne. – Perché non la fai scrivere a
Saporelli?
– Saporelli è troppo giovane. Qui ci vuole una penna matura, del
tuo calibro. Uno che ha dato una svolta alla letteratura
italiana.
Quegli elogi cominciavano a fare breccia nella corazza dell’autore
della Fossa dei leoni.
In effetti il bastardo non si sbagliava, quella storia era molto
meglio della grande saga sarda, ma non doveva calare subito le
braghe. – Ci devo pensare…
Il lungagnone però non era intenzionato a mollare. Gli brillavano
gli occhi. – Tu sei l’unico che può fare una cosa del genere. Ci
potremmo accludere anche un dvd.
L’idea cominciava a solleticarlo. – Un dvd? Dici?
Funzionerebbe?
– Hai voglia. Molti contenuti. Che ne so, la storia delle
catacombe… E un sacco di altra roba. Decidi tutto tu. Ti do carta
bianca – . Gianni gli mise un braccio sulle spalle. – Ascolta,
Fabrizio. In questo ultimo periodo non ci siamo parlati un granché.
Questo è il guaio di dover tenere in piedi la baracca. Perché non
ci facciamo un pranzo di lavoro nei prossimi giorni? Tu meriti di
più – . Fece una pausa tecnica. – In tutti i sensi.
Un peso terribile scomparve, il diaframma contratto si rilassò di
colpo e Fabrizio si accorse che dalla presentazione dell’indiano
aveva continuato a vivere in uno stato di malessere fisico.
Sorrise. – Va bene, Federico. Ci sentiamo domani e ci mettiamo
d’accordo.
– Ottimo, Fabri.
Da quanto non lo chiamava Fabri? Risentirlo fu miele per le sue
orecchie.
– Senti ti ho visto con quella cantante… Come si chiama?
Cazzo, Larita! Se l’era completamente
dimenticata.
Gli occhi di Gianni si intenerirono al pensiero della ragazza. –
Bella fighetta. Te la sei scopata?
Mentre Fabrizio si girava a vedere dove fosse finita, un fragore
rimbombò all’interno dell’antica necropoli.
Sulle prime lo scrittore pensò a un’esplosione in superficie, poi
si accorse che il fragore continuava, anzi diventava sempre più
forte, e la terra tremava sotto i piedi.
– E ora che succede? Non se ne può più… – sbuffò annoiato Mago
Daniel.
– Saranno i fuochi artificiali… Corriamo… Ci siamo persi
l’amatricianata di mezzanotte e non mi voglio perdere per nessuna
ragione la cornettata…
– gli rispose tutto eccitato il fidanzato, l’attore teatrale
Roberto De Veridis.
No. Questi non sono fuochi artificiali,
si disse Fabrizio. Sembrava più un terremoto.
L’infallibile istinto animale che di solito lo informava se valeva
la pena di andare o no a una festa, che gli faceva intuire se fare
o no un’intervista e gli suggeriva il momento più opportuno per
apparire e scomparire dalla ribalta, questa volta lo informò che
doveva immediatamente abbandonare quel posto.
– Scusami un attimo… – disse a Gianni.
Si mise a cercare Larita, ma non la vide da nessuna parte. In
compenso trovò Matteo Saporelli che in un angolo si era spogliato e
si stava cospargendo il corpo di terra canticchiando Livin’ la vida loca. Si avvicinò al collega. –
Saporelli. Andiamo. Presto. Usciamo da ’sto posto – . Gli tese la
mano.
Il giovane scrittore lo guardò con due occhi a palla in cui le
pupille erano ridotte a puntini e prese a spalmarsi la terra sotto
le ascelle. – No grazie, frittatina… Credo che questo sia un posto
magico. E credo pure che forse dovremmo cercare di volerci un po’
più di bene. È questo il problema di oggi. Ci siamo dimenticati che
questo pianeta è la nostra casa e dovrà ospitare la nostra progenie
per altre migliaia di anni. Cosa gli vogliamo lasciare? Un pugno di
mosche?
Ciba lo guardò affranto. La pillola gli era salita. Per fortuna,
bene. – Hai ragione. Perché non andiamo fuori che me lo spieghi
meglio?
Saporelli lo abbracciò commosso. – Sei il migliore, Ciba. Verrei
con te, ma non posso. In questo luogo erigerò un tempio a futura
memoria, quando arriveranno gli alieni e vedranno gli antichi resti
di questa civiltà malata. E ricordati che la terra non è di
nessuno. Nessuno può permettersi di dire questo è mio, questo
invece è tuo… La terra è degli uomini e basta.
– D’accordo, Saporelli. Buona fortuna – . Ciba si fece spazio tra
la folla. Tutti avevano smesso di chiacchierare e ascoltavano in
silenzio quel rumore sempre più assordante.
Ma dove cazzo è Larita? Forse non l’hanno
portata qui.
Uno sbuffo d’aria calda e umida, come quello che produce il
passaggio della metropolitana, gli scompigliò i capelli. Fabrizio
si girò e dall’ingresso di una galleria fu espulsa una nuvola nera
e alata che si sparse per l’antro sotterraneo.
Non ebbe il tempo di capire cosa fosse che uh pipistrello grosso
come un guanto gli finì in faccia. Sentì il pelo lercio
dell’animale sfiorargli le labbra. Urlando di ribrezzo, scacciò il
chirottero e si abbassò, coprendosi con le braccia la
testa.
Come posseduti dalla taranta gli invitati strillavano e saltavano
tra i ratti che gli schizzavano fra le gambe, agitando le braccia
per allontanare i pipistrelli.
Perché i topi fuggono? Perché abbandonano la
nave che affonda.
Fabrizio si accorse che i russi si stavano allontanando velocemente
attraverso una galleria opposta a quella da cui proveniva il rombo.
Gli uomini si erano caricati i bambini in braccio e anche il re e
la regina erano stati presi sulle spalle da due ciccioni. Doveva
seguirli.
Mentre si faceva spazio a gomitate tra la gente, vide Larita. Era a
terra e centinaia di roditori le scorrazzavano addosso. Il
pavimento tremava sempre più forte. Dai cubicoli cascavano giù
tibie, crani, costole.
Fabrizio si fermò. – Lar… – Un vecchio senatore dell’Udc lo
travolse urlando: – È la fine! – e una donna che stringeva in mano
un femore, cercando di abbattere i pipistrelli, nella foga colpì
sul setto nasale lo scrittore. Ciba si coprì il volto. – Ahhh…
Porca troia bastarda! – Si girò verso la cantante. Era ancora li, a
terra. Inerme. Sembrava svenuta.
La caverna era scossa da sciami di vibrazioni e si faceva fatica a
stare in piedi.
Qui crolla tutto.
Non poteva morire. Non così.
Guardò Larita. Guardò la galleria.
Scelse la galleria.
9.
Nonostante i pipistrelli fossero animali sacri ai cultori del satanismo, a Saverio Moneta facevano schifo. Per fortuna il cappuccio della tonaca lo riparava. Dal soffitto della catacomba precipitavano sassi e terra e tutto tremava. Gli invitati sembravano impazziti, si dibattevano tra topi e pipistrelli. Nessuno però osava addentrarsi nel buio delle gallerie. L’unica cosa che riuscivano a fare era urlare come tante scimmie chiuse in gabbia.
Intanto i russi zitti zitti se ne erano andati.
Doveva seguirli e cercare una via d’uscita. Ma in quella bolgia non
riusciva ad avanzare. Si spostò verso il muro, strisciando contro
la roccia.
– Maestro! Che gioia! – Un ragazzo, nudo e impiastricciato di
terra, gli si avventò contro e lo afferrò per la tunica. – Maestro
sei arrivato! Meno male. Sto erigendo il tempio a futura
memoria.
– Cosa? – Saverio non capiva. Il ragazzo si era inginocchiato di
fronte a lui. Le grida della gente, le vibrazioni del cimitero e i
boati lontani lo assordavano. – Che hai detto? – Si abbassò per
sentire.
– Ci siamo. L’orrore è qui.
Un grosso frammento della volta crollò in mezzo alla folla. Una
nube di terra avvolse tutto. Gli invitati si scontravano fra loro
come ombre nella polvere.
L’ex leader delle Belve guardò il tipo negli occhi e capi che era
fuori di testa. – Scusa, devo andare – . Il ragazzo gli si appese
addosso.
– L’orrore! L’orrore! La terra non è di nessuno.
Mantos cercò di liberarsi dalla stretta. – Lasciami. Fammi andare,
per favore.
– Dovresti capire e non capisci. Fratello che uccide fratello.
Questo è il mondo nostro.
Le macerie avevano seppellito una donna, tra i sassi spuntava la
gamba. Sul polpaccio magro le saliva il lungo tatuaggio di un’edera
che scompariva tra i detriti.
Saverio, disperato, si trascinò il pazzo che continuava a parlare.
– Tu mi devi indicare la strada e invece ci vuoi
abbandonare.
Mantos gli tirò un calcio e finalmente riuscì a scrollarselo di
dosso. – Ma che vuoi da me?
Il pazzo, inginocchiato a terra, lo guardò negli occhi. – Tu lo sai
che devi fare.
Mantos arretrò terrorizzato. Per un istante gli era sembrato che
quello fosse Zombie.
– Ma tu chi cazzo sei? – balbettò l’ex leader delle Belve e
cominciò a correre verso la galleria facendosi largo a testa
bassa.
In un angolo vide Larita.
Saverio s’inchiodò.
La ragazza era rannicchiata a terra e la gente la
calpestava.
Devi finire il tuo compito! Devi sacrificarla.
Almeno la mia morte sarà valsa a qualcosa, gli sembrò che
gli dicesse Zombie.
Urlò e combattendo contro la corrente degli invitati, facendosi
spazio a pugni e gomitate, raggiunse la cantante.
La ragazza aveva la bocca spalancata, le guance infuocate, e
cercava di ingoiare aria come se avesse un attacco di
asma.
Saverio le fece scudo con il corpo. L’avrebbe tirata fuori da quel
buco e portata sopra Forte Antenne. Li l’avrebbe sacrificata in
onore di Zombie.
Larita singhiozzava. – Ho avuto un attacco di panico. Non riuscivo
a respirare. E tutti mi camminavano sopra.
– Ci sono io – . Mantos la strinse forte tra le braccia.
Lentamente la ragazza riprese a respirare. Si asciugò le lacrime e
lo guardò per la prima volta. Vide la tunica nera. – Tu chi
sei?
Lui rimase in silenzio, senza sapere che rispondere. Avrebbe voluto
dirle la verità. Sussurrargliela in un orecchio. Io sono il tuo assassino. Ma le disse: – Non mi
conosci.
– Sei così gentile.
– Ascolta, qui non possiamo restare. Tirati su. Ce la fai a
camminare?
– Credo di sì.
– Allora forza, proviamoci – . La afferrò per un fianco e la mise
in piedi.
Lei gli prese una mano. – Grazie.
Lui la guardò in quegli occhi color nocciola.
E chissà, forse Saverio Moneta detto Mantos glielo avrebbe detto
che non doveva ringraziarlo. Forse per la prima volta in tutta la
sua vita avrebbe avuto le palle di dire… Come diceva il tipo
nudo?
L’orrore! Sì, l’orrore di una vita tutta sbagliata.
Chissà cosa le avrebbe detto se un’ondata d’acqua scura e schiuma
non li avesse travolti e trascinati via con sé.
Fabrizio Ciba avanzava
per una galleria facendosi luce con l’accendino. Non si vedeva un
accidente e ogni dieci passi inciampava in un mucchio di terra o in
un buco.
Gli dispiaceva di avere abbandonato Larita. Ma con lei dietro non
ce l’avrebbe mai fatta a salvarsi.
Solo i più forti sopravvivono. Se non hanno una zavorra da
trascinarsi.
Il rumore, alle sue spalle, era diventato assordante.
Si girò di scatto e al lume della fiammella vide un muro d’acqua
che gli veniva incontro, nero e furioso.
– Che palle… – riuscì a dire prima che l’acqua lo rigirasse come un
panno sporco in una lavatrice e lo prendesse con sé come fosse
zavorra.
Piero Ristori aveva
settantasette anni e viveva a via di Trasone, a pochi passi da
Villa Ada. Era andato in pensione da dieci anni. E da quando aveva
smesso di lavorare faceva fatica a dormire. Alle due si svegliava e
rimaneva steso nel letto aspettando la luce del giorno. Inchiodato
accanto al corpo dormiente di sua moglie, ricordava. Nel silenzio
scandito dal ticchettio della sveglia tornavano a galla, come
gnocchi messi a bollire, immagini della sua infanzia a Trento.
Ricordava l’adolescenza, il collegio, le vacanze in Liguria. Con
nostalgia rivedeva sua moglie giovane, in costume, bella da
togliere il fiato, sdraiata su un pattino di Cesenatico. La prima
volta avevano fatto l’amore senza nemmeno essere sposati. E poi
Roma. La redazione del giornale. Migliaia di articoli scritti in
fretta e furia. Il rumore delle macchine da scrivere. I portacenere
ricolmi di mozziconi. I pranzi all’osteria La
gazzella con i colleghi. E soprattutto gli tornavano in
mente i viaggi. Le Olimpiadi di Helsinki. I campionati di atletica
a Oslo. I mondiali di nuoto negli Stati Uniti. Una portoghese con
la frangetta e le lentiggini di cui non ricordava più il
nome.
Nel buio della sua stanza da letto una struggente malinconia
afferrava Piero Ristori e gli strappava dal petto il respiro. Di
tutta la sua vita gli erano rimasti solo inutili e sconnessi
ricordi. Sensazioni, odori e la voglia di tornare
indietro.
Che vita fantastica aveva avuto. Almeno fino a quando non era
andato in pensione.
Da quel momento gli era stato chiaro. Era un vecchio, e quello era
il purgatorio in terra. Alle volte rimpiangeva di non essere
abbastanza rincoglionito (come la gran parte dei suoi amici) da non
rendersene conto. Era dolorosamente consapevole che il carattere
gli era cambiato. Si irritava per ogni stronzata, detestava i
giovani, la confusione, quelli che avrebbero continuato a vivere
mentre lui era cibo per i vermi. Aveva collezionato tutti i difetti
della vecchiaia e nemmeno un pregio.
L’unico momento che amava della giornata era quando la luce
cominciava a filtrare attraverso le serrande e gli uccelli
prendevano a cantare. Scattava dal letto con un senso di
liberazione e usciva da quel sepolcro in cui giaceva incosciente
sua moglie, si vestiva e portava Max, il piccolo Jack Russell, a
fare i bisogni. La città era silenziosa e tranquilla. Comprava il
latte e il pane fresco al mercato e poi i giornali. Si sedeva su
una panchina di Parco Nemorense (prima andava a Villa Ada, era
incredulo che il Comune avesse potuto venderla) e sfogliava i
quotidiani, lasciando libero Max di correre un po’.
Quel giorno era arrivato dal giornalaio di via Salaria una decina
di minuti in ritardo rispetto alla sua tabella di marcia. La sera
precedente si era preso una pasticca di sonnifero per non sentire
l’inferno della festa di Salvatore Chiatti. Tutto il giorno il
quartiere era stato bloccato per i comodi di quel
mafioso.
Piero Ristori comprò «Il Messaggero», «La Gazzetta dello Sport» e
«La Settimana Enigmistica» da Eugenio, il giornalaio, che stava
finendo di aprire i pacchi di quotidiani appena
scaricati.
– Buongiorno dottore. Li ha sentiti ieri gli scontri tra la polizia
e i manifestanti?
Max adorava, per ragioni oscure, farla davanti all’edicola. Piero
Ristori tirò il guinzaglio, ma il cane oramai aveva già cominciato.
– Li ho sentiti. Eccome se li ho sentiti. Devono morire
tutti.
Eugenio si sgranchì la schiena dolorante. – Dice che c’erano Paco
Jiménez de la Frontera, Milo Serinov e tutta la Magica.
Il vecchio tirò fuori dalla tasca della giacca una bustina di
plastica per raccogliere lo stronzo di Max. – E chi se ne frega. Lo
sai, lo sport non mi interessa più.
Eugenio stava per replicare, chiedendogli perché allora comprava
ogni giorno «La Gazzetta dello Sport», ma non gli andava di
mettersi a questionare con quel vecchio scorbutico. Che peccato.
Era stato un grande giornalista sportivo, una persona simpatica, ma
da quando era andato in pensione si era incarognito e odiava il
mondo.
Io invece quando me ne andrò in pensione sarò
una persona migliore, si disse il giornalaio. Potrò finalmente andarmene al lago di Bolsena a pescare.
Devo stringere i denti per altri ventidue anni.
Piero Ristori diede un’occhiata alla prima pagina della «Gazzetta».
Si parlava dell’ingaggio milionario di un calciatore francese. – Lo
vedi? È solo una questione di soldi oramai. Lo sport, quello
vero…
Avrebbe voluto concludere la frase dicendo ciò che ripeteva ogni
giorno a sua moglie. Lo sport, quello vero, quello delle vecchie
Olimpiadi, è morto.
Ma un boato improvviso lo zitti. Si girò verso la Salaria, ma non
vide nulla. Il rumore però continuava.
Si passò una mano sulla fronte… Gli ricordava qualcosa. Il boato
che si sentiva camminando sulla diga di Ridracoli, in
Emilia–Romagna, dove andavano a villeggiare d’estate con i figli.
Era un suono inconfondibile, simile a quello di una turbina
d’aereo.
Il vecchio giornalista, con lo stronzo di Max in una mano e i
giornali sotto il braccio, strizzando gli occhi dietro le lenti da
vista continuò a guardarsi intorno. Via Salaria era sgombra e tutto
sembrava normale.
Anche Eugenio si guardava intorno perplesso, aggrottando le
sopracciglia. Max invece sembrava impazzito, tirava il guinzaglio e
mugolava come se avesse visto un gatto.
– Stai buono… Cristo di…
Per la seconda volta un rumore lo zitti. Questa volta sembrava più
un fischio acuto.
Eugenio guardava in alto. Piero Ristori spostò lo sguardo in su e
vide nel cielo sgombro di nuvole un disco nero che roteava più in
alto dei palazzi, sopra la strada. Ebbe il tempo di capire che era
il coperchio di un tombino e il disco di bronzo ricadde giù, dritto
come un fuso, e s’incuneò nel tetto di una Passat Variant. I
finestrini esplosero, le ruote si piegarono e l’allarme cominciò a
suonare impazzito.
Con la coda dell’occhio il vecchio giornalista si accorse che dal
marciapiedi di fronte si sollevava, come il collo di un cobra, una
colonna di schiuma bianca. Il getto d’acqua s’innalzava oltre il
muro di recinzione di Villa Ada.
Poi gli sembrò che il tombino sputasse in su una cosa
nera.
– Ma che dia…?! – disse Eugenio.
Sulle loro teste, a una decina di metri, si sbracciava e muoveva le
gambe in aria un essere umano. Ricadde giù come uno che si è
tuffato da una scogliera, e precipitò sulla strada.
Piero Ristori chiuse gli occhi. Un secondo dopo, quando li riaprì,
vide che l’uomo era in piedi sulla mezzeria di via Salaria. Le
gambe gli tremavano per l’impatto ma, miracolosamente, era
illeso.
Mentre l’acqua inondava il manto stradale, il giornalista fece due
passi in avanti verso di lui.
Era un vecchio magro e coperto con i brandelli di una tuta da
ginnastica nera. La lunga barba bianca e i capelli completamente
zuppi appiccicati al corpo. Rimaneva li, come se avesse i piedi
incollati all’asfalto.
Il giornalista fece altri tre passi e superò le macchine
parcheggiate lungo il marciapiede.
No, non può essere…
Nonostante fosse passato mezzo secolo, nonostante l’arteriosclerosi
che gli incrostava i vasi sanguigni, nonostante la lunga barba che
celava il volto dell’uomo, i vecchi lobi temporali di Piero
Ristori, vedendo quegli occhi freddi come le pianure siberiane,
quel grande naso, ricordarono.
Fu trasportato indietro nel tempo, all’estate del 1960. Roma. Olimpiadi.
Quello lì era Sergej Pelevin, il grande saltatore con l’asta che
aveva vinto l’oro. Era scomparso durante i giochi insieme a un
gruppo di atleti russi e nessuno aveva più saputo che fine avesse
fatto. Piero Ristori lo aveva intervistato per il «Corriere della
Sera» dopo la premiazione.
Ma che ci faceva dopo mezzo secolo al centro di via
Salaria?
Il giornalista, con le mani che gli tremavano, tirandosi dietro il
cane si avvicinò all’atleta, che continuava a rimanere impalato
come una statua in mezzo alla strada.
– Sergej… Sergej… – balbettò. – Ma che fine avevi fatto? Dove sei
stato? Perché sei scappato?
L’atleta si girò e sulle prime parve non vedere nemmeno il
giornalista.
Poi chiuse e aprì gli occhi lucidi, come se quel sole all’orizzonte
lo infastidisse. Mostrando le gen
give sdentate disse: – Ϲвободγ… я выбрал5…
Non riuscì a finire la sua frase, perché una Smart Fortwo, che arrivava dall’Olimpica a oltre centoventi all’ora, lo prese in pieno.
5 La libertà… ho scelto.12.
Saverio Moneta era riuscito a non lasciarla mai, a tenerle stretta la mano mentre venivano sbattuti e rivoltati dalla corrente che li trascinava per le gallerie nere della necropoli sotterranea. Avevano ingoiato litri d’acqua e non avevano respirato per un tempo infinito e poi, senza sapere come, erano affiorati in una sacca d’aria rimasta intrappolata sotto la volta di una galleria.
Saverio aveva la punta del naso contro il soffitto e a bocca aperta inspirava e tossiva. Anche Larita, accanto a lui, non smetteva di tossire.
– Ce la fai? – ansimò la cantante.Saverio si puntellò meglio con le mani e con i piedi contro i loculi funerari. La corrente era fortissima, se mollava un attimo lo avrebbe trascinato via. – Sì. Ci sono.
Larita con una mano si afferrò a uno spuntone
di roccia. – Tutto bene?
– Bene – . E per essere più convincente lo ripetè. –
Bene.
Non era vero. Doveva essersi rotto la gamba destra. Mentre venivano
trascinati dalla corrente aveva sbattuto con violenza contro una
parete.
Staccò dalla roccia la mano destra e si toccò dove gli faceva male.
Sentì…
Oddio.
… una lunga scheggia appuntita gli usciva dalla carne. Un legno, qualcosa, mi si è piantato nella coscia…
Poi capi e per poco non mollò la presa.
Era il suo femore rotto che spuntava dalla gamba come un coltello.
La testa prese a girargli. Le orecchie erano bollenti. L’esofago
gli si strinse. Una roba acida gli risali fino al palato.
Sto per svenire.
Non poteva. Se sveniva la corrente lo avrebbe risucchiato. Rimase
fermo, attaccato alla roccia, aspettando che le vertigini
passassero.
– Che facciamo? – La voce di Larita rimbombava lontana.
Saverio vomitò e chiuse gli occhi.
– Rimaniamo qua? Aspettiamo che ci vengano a salvare?
Fece un grande sforzo per risponderle. – Non lo so.
Mi sto dissanguando.
L’acqua gli impediva di vedere la ferita. E questo era un
bene.
– Neppure io, – disse Larita dopo un po’. – Qui però non possiamo
restare.
Ti prego aiutami, sto morendo, era
l’unica cosa che avrebbe voluto dirle. Ma non poteva. Doveva essere
un uomo.
Che assurdità… Meno di quarantotto ore
prima era un triste impiegato di un mobilificio, uno sfigato
vessato dalla famiglia, e ora si trovava in una catacomba allagata
accanto alla più grande cantante italiana, e stava morendo
dissanguato.
La sorte beffarda gli stava concedendo un’opportunità. Quella lì,
che non sapeva nulla di lui, della sua sfiga congenita, lo avrebbe
visto e giudicato per quello che era in quel momento.
Almeno qualcuno per una volta l’avrebbe visto come un eroe. Un uomo
senza paura. Un samurai. Che diceva Yamamoto Tsunetomo
nell’Hagakure? «La via del samurai è
una smania di morte».
Sentì la forza della volontà consolidarsi come un grumo duro nelle
viscere doloranti.
Faglielo vedere chi è Saverio
Moneta.
Riaprì gli occhi. Era buio, ma vedeva le ossa dei morti che gli
galleggiavano intorno. Da qualche parte un po’ di luce doveva
entrare.
Larita faceva fatica a reggersi. – Credo che l’acqua stia
aumentando.
Saverio cercò di concentrarsi e di non pensare al dolore. –
Ascoltami… Tra un po’ l’aria finirà. E chissà quando arriveranno i
soccorsi. Dobbiamo farcela da soli.
– Come? – gli rispose Larita.
– Mi pare di vedere un bagliore da quella parte. Lo vedi pure
tu?
– Sì… Appena appena.
– Bene. Andiamo di là.
– Ma se mi stacco mi trascina giù.
– Ci penso io – . Mantos si diresse verso la voce della cantante
affondando le dita nel tufo friabile. – Aspetta… Attaccati alle mie
spalle – . Il dolore gli abbagliava la vista. Per non urlare
afferrò una tibia che galleggiava e la serrò tra i denti. Poi si
fece vicino alla ragazza, che si attaccò alle sue spalle e con le
cosce gli strinse il busto.
Matteo Saporelli era un
pesce.
Anzi un tonno pinna gialla. No, anzi, un delfino. Uno splendido
delfino maschio che nuotava tra le misteriose rovine di Atlantide.
Le braccia attaccate al corpo, muoveva la testa su e giù in
sincrono con le gambe che pinneggiavano parallele.
Sono un mammifero marino.
Esplorava i resti di una grande civiltà sprofondata negli abissi
oceanici. Ora si trovava nei lunghi corridoi che portavano alle
stanze reali. Con la sua vista acutissima vedeva oro, pietre
preziose, antichi monili incrostati di alghe e coralli. Vedeva
granchi e aragoste camminare su montagne di monete d’oro.
Si sentiva a suo agio. Era stata una lunga contro– evoluzione,
durata milioni di anni, quella che aveva riportato i mammiferi in
mare, ma ne era valsa veramente la pena.
La vita acquatica è
superiore.
C’era un unico problema che gli rovinava quel magico stato di
grazia.
L’aria. Gli mancava un po’ l’aria, per essere un delfino. Questo
gli dispiaceva. Si ricordava che i cetacei possono rimanere immersi
un sacco di tempo, lui invece aveva disperatamente bisogno di
aria.
Cercò di fottersene. C’erano troppe meraviglie là dentro, non si
poteva sprecare tempo a respirare.
Oltre i gioielli e i polipi fucsia, c’erano dei coralli incredibili
che avrebbe potuto passare ore ad ammirare.
Vabbe’, sai che faccio? Un po’ d’aria la
prendo e poi torno giù.
Salì pinneggiando come l’uomo di Atlantide verso la superficie e
tirò fuori il muso in una piccola sacca d’aria sotto la volta della
catacomba. Mentre
Saverio Moneta avanzava a fatica con Larita abbrancata al collo
verso il bagliore, la testa di un uomo spuntò dall’acqua a meno di
un metro. Il leader delle Belve di Abaddon, dopo un secondo di
stupore, sputò la tibia e urlò: – Aiuto!
Anche Larita cominciò a strillare. – Aiuto! Aiuto!
L’uomo gonfiò e sgonfiò le gote, li guardò un istante, emise uno
strano verso gutturale, una specie di ultrasuono, e si immerse di
nuovo.
Saverio non credeva ai suoi occhi. – L’hai visto anche
tu?
– Sì.
– Quello è un pazzo. Prima non sai che mi ha detto. Ma chi cazzo
è?
Larita ci mise qualche istante a rispondere. – Mi sembrava Matteo
Saporelli.
– E chi è?
– È uno scrittore. Ha vinto il premio Strega – . La voce poi le
sali di un’ottava. – Guarda! Guarda lì!
Da un foro sulla volta della catacomba cadeva un fascio di luce che
si spegneva nelle acque limacciose.
Saverio, lottando con la corrente che li tirava in direzione
opposta, arrivò faticosamente sotto il buco.
Era un lungo buco circolare scavato nella terra. Le pareti erano
ricoperte di radici e ragnatele. In cima videro le fronde di un
fico agitate dal vento e dietro il cielo pallido di un’alba
romana.
Larita si staccò da Saverio e si attaccò alla roccia.
– Ce la possiamo fare… – Allungò la mano, ma era troppo in alto.
Allora cercò di darsi uno slancio battendo i piedi, ma nulla. – Se
avessi delle pinne…
Non ce la può fare, si disse Saverio
mentre lei tentava di nuovo di prendere lo slancio verso l’orlo del
buco. Era a una settantina di centimetri dal pelo dell’acqua e non
c’erano appigli nel tufo, liscio come una lastra di marmo.
Pinneggiando con le gambe non ci sarebbe mai arrivata.
Larita aveva il fiatone. – Provaci tu. Io non ce la
faccio.
Saverio si diede uno slancio di reni, ma appena mosse la gamba
cacciò un urlo disperato. Una fitta di dolore tagliente come la
lama di un bisturi gli attraversò la carne dell’arto ferito.
Ricadde giù, senza forze, a bocca aperta. Bevve un sacco
d’acqua.
Larita lo afferrò per il cappuccio della tunica prima che la
corrente se lo portasse via. Lo tirò a sé. – Che hai? Che ti
succede?
Saverio stringeva gli occhi e si teneva a galla con difficoltà. Con
un filo di voce sussurrò: – Credo che ho una gamba spezzata. Ho
perso parecchio sangue.
Lei lo abbracciò, poggiò la fronte contro la sua nuca e scoppiò a
singhiozzare. – No. E adesso come facciamo?
Saverio sentiva il groppo del pianto premergli contro lo sterno. Ma
aveva giurato di essere uomo. Prese tre respiri e disse: – Aspetta…
Non piangere… Forse ho un’idea.
– Cosa?
– Se io mi puntello contro un loculo, tu mi sali sulle spalle e poi
ti attacchi alle pareti del buco. A quel punto è facile.
– Ma come fai con la gamba?
– Userò solo la sinistra.
– Sicuro?
– Sicuro.
Saverio si attaccò alla parete di tufo. Ogni movimento gli
risultava faticosissimo, era rallentato da una stanchezza che non
aveva mai sentito in vita sua. Ogni cellula, tendine, neurone del
suo corpo aveva esaurito le forze. Con il sangue se ne stavano
andando anche le ultime energie.
Dài, ti prego, non mollare, si disse,
sentendo gli occhi pieni di lacrime.
Con il piede buono tastò la parete finché non trovò un loculo dove
fare forza. Allungò un braccio e si aggrappò a una piccola
escrescenza. – Veloce! Sali su di me.
Larita gli montò addosso usandolo come una scala. Gli mise i piedi
sulle spalle e poi uno sulla testa.
Per non perdere la presa Saverio fu costretto ad appoggiare l’altra
gamba.
Ti prego… Ti prego… Fai presto… Non ce la
faccio più, urlava nell’acqua.
Sentì che a un tratto il peso si alleggeriva. Guardò in alto.
Larita era arrivata al buco e si puntellava con le gambe sui bordi.
Con una mano si teneva a una radice che spuntava dalla
parete.
– Ce l’ho fatta – . Larita era senza fiato. – Adesso allungami un
braccio e ti tiro su.
– Non puoi…
– Come non posso?
– La radice non reggerà… Finirai in acqua.
– No. È robusta. Tranquillo. Dammi la mano.
– Vai tu. Poi chiami i soccorsi. Io ti aspetto qua. Vai, forza. Non
pensare a me.
– No. Non ti lascio. Se vado, non resisterai e verrai portato giù
dalla corrente.
– Ti prego, Larita… Vai… Io sto morendo… Non sento più le gambe.
Non c’è niente da fare.
Larita cominciò a piangere scossa dai singhiozzi.
– Non voglio… Non è giusto… Io non ti lascio. Tu… come ti chiami,
non so nemmeno il tuo nome…
Saverio aveva solo la bocca e il naso fuori dall’acqua. – Mantos.
Mi chiamo Mantos.
– Mantos, tu mi hai salvato la vita e io ti lascio morire. Ti prego
facciamo almeno un tentativo.
– Però se non ci riusciamo mi giuri che te ne andrai.
Larita si asciugò le lacrime e fece segno di sì.
Mantos chiuse gli occhi e con le poche forze che gli rimanevano si
diede una spinta e allungò la mano verso quella di Larita. La toccò
appena e ricadde giù, a braccia aperte, come se gli avessero
sparato in petto. Il suo corpo affondò, ritornò a galla per qualche
istante appena e poi la corrente se lo tirò giù. Lui non oppose
resistenza. Fu portato verso il fondo.
All’inizio il suo corpo non voleva cedere, lottava per non farsi
sopraffare. Poi, vinto, si acquietò e Saverio sentì solo l’acqua
che gli rombava nelle orecchie. Era bello lasciarsi andare così,
farsi portare giù, nel buio. L’acqua che lo stava uccidendo gli
spegneva gli ultimi ardori di vita.
Che liberazione, si disse e poi non
poté più pensare.
15.
Un minuscolo puntino teneva il sole ancorato
all’orizzonte, quando Fabrizio Ciba riapri gli occhi.
Vide una volta di foglie d’oro, nubi di moscerini, farfalle. Tutto
intorno riecheggiavano i richiami degli uccelli. E sentiva l’acqua
che scorreva e gocciolava carezzevole come quella di una doccia.
Aspirò l’odore di terra zuppa. Sulle spalle, sulla nuca e sugli
stracci bagnati che aveva addosso gli arrivava il calore tiepido
del sole.
Restò fermo, senza pensare a nulla. Poi lentamente i ricordi della
notte passata, della catacomba, del muro d’acqua che lo aveva
sepolto si coagularono in un pensiero. Un pensiero molto
positivo.
Sono vivo.
Questa consapevolezza lo cullò, e cominciò a riflettere che anche
questa brutta esperienza sarebbe passata. Con il tempo avrebbe
perso di drammaticità e nell’arco di qualche mese l’avrebbe
ricordata con un misto di divertimento e rimpianto. E avrebbe avuto
un senso.
La mente umana funziona così.
Si sorprese di quanto era saggio.
Era arrivato il momento di scoprire dove stava. Si tirò sui gomiti
e vide che era steso su un letto di fango e sabbia che si spargeva
tra due collinette coperte di alberi. Al centro scorreva un rivolo
d’acqua. C’erano ossa ovunque, scarpe, un cap da cavallo e un
grande coccodrillo a pancia all’aria, il ventre gonfio e bianco. Le
mosche già gli ronzavano intorno.
Si mise in piedi e si sgranchi, contento di non avere ferite e di
sentirsi un po’ acciaccato ma in forma. E si accorse di avere
fame.
È un buon segno. Un segno di
vita.
Si incamminò verso il sole. Superò il boschetto sbadigliando ma si
dovette fermare di fronte a una visione mozzafiato.
Nella vegetazione si apriva uno spiraglio. Si vedeva in lontananza
l’Olimpica intasata dal solito traffico mattutino, i campi da rugby
deserti dell’Acqua Acetosa, l’ansa immobile e grigia del Tevere.
Più in fondo il viadotto di corso Francia coperto di macchine e la
collina Fleming rigogliosa di vegetazione.
Roma.
La sua città. La più bella e antica del mondo. Non l’aveva mai
amata come in quel momento.
Cominciò a evocare con la mente un bar, un bar romano, uno
imprecisato. Con il terziario in giacca e cravatta che si accalca
contro il bancone sporco di zucchero. I cornetti alla crema. I
fagottini con le mele. I tramezzini. Il rumore dei piattini e delle
tazze sbattuti nel lavello. Il tintinnio dei cucchiai. Il «Corriere
dello Sport».
Scese dalla collinetta quasi saltando. Se non ricordava male,
l’uscita era in quella direzione. Trovò un viottolo e cominciò a
scendere a due gradini per volta le scalette che, attraverso il
bosco, portavano verso il lago.
C’era qualcosa, uno strano oggetto, proprio in mezzo alle scale.
Rallentò. Sembrava di metallo e aveva delle ruote. Si avvicinò un
altro po’ fino a quando capi cos’era.
Una sedia a rotelle.
Era rovesciata su un fianco. Oltre la sedia c’era un corpo, steso
sui gradini. Fabrizio, trattenendo il fiato, si avvicinò.
Sulle prime non lo riconobbe, ma vide poi la testa pelata, le
orecchie a sventola. La sacca fecale di Vuitton.
Si mise una mano tra i capelli. Oddio, è
Umberto Cruciani.
Il vecchio maestro, a terra e senza la sua sedia, sembrava un
paguro Bernardo a cui hanno tolto il guscio.
Fabrizio non ebbe bisogno di toccarlo per capire che era morto. Gli
occhi sbarrati sotto le sopracciglia scure e folte. La bocca senza
denti spalancata. Le mani rattrappite.
Doveva essere precipitato per le scale.
Fabrizio si piegò sul cadavere del grande scrittore e gli chiuse
gli occhi.
Un altro grande se n’era andato. L’autore della Muraglia occidentale e di Pane
e chiodi, i capolavori della letteratura italiana degli anni
Settanta, se n’era andato lasciando un mondo più povero e
triste.
Fabrizio Ciba fu scosso da un singhiozzo, da un altro e da un altro
ancora. Non aveva mai pianto durante quella notte folle, ma ora
scoppiò a piangere come un bambino.
Non piangeva di dolore, ma di gioia.
Si asciugò le lacrime, gli carezzò il volto scheletrico e con un
colpo gli strappò la chiavetta USB da
40 gb dal collo.
Sorrise tirando su con il naso. – Grazie, maestro. Mi hai
salvato.
E lo baciò sulla bocca.
Larita era riuscita a
emergere dal pozzo. Le radici l’avevano aiutata ad arrampicarsi
fino in cima.
Ora camminava a testa bassa attraverso un pratone su cui
pascolavano tranquilli gnu, bufali e canguri.
Non poteva togliersi dalla testa l’immagine della mano di Mantos
che sfiorava la sua, le dava un bigliettino e spariva nell’acqua
nera.
Tirò fuori dalla tasca il pezzo di carta tutto bagnato. Sopra c’era
una scritta slavata, ma ancora leggibile.
«A Silvietta».
Chi era Silvietta? E soprattutto, chi era Mantos?
Un eroe apparso dal nulla che si era sacrificato per
salvarla.
Forse Silvietta era la sua amata.
La cantante stava per aprire il biglietto, quando sentì le sirene
della polizia.
Col pezzetto di carta in mano cominciò a correre. I vigili del fuoco dopo
diverse ore di lavoro erano riusciti ad aprire una breccia nel muro
di recinzione della Villa. Era più facile che sfondare i cancelli
d’acciaio. Avevano recintato la zona, che si era affollata di
curiosi, macchine della polizia, decine di ambulanze, giornalisti e
fotografi. Gli invitati arrivavano alla spicciolata. Molti si
reggevano in piedi a malapena e venivano accolti da équipe mediche
che li sdraiavano sulle lettighe. Corman Sullivan era stato
imbustato in una camera iperbarica gonfiabile. Antonio, il cugino
di Saverio, con la testa fasciata in un enorme turbante di garza,
beveva un tè caldo. Paco Jiménez de la Frontera e Milo Serinov
parlavano al cellulare. Cristina Lotto si abbracciava al marito.
Mago Daniel era in mutande e discuteva con il vecchio Cinelli e un
cinese vestito da acrobata.
Larita si fece spazio tra la gente. Il cuore le batteva forte e le
tremavano le mani per l’emozione.
Una giovane infermiera le si avvicinò con una coperta. – Venga con
me.
La cantante fece segno che stava bene. – Un attimo… Un attimo
soltanto.
Dov’era? E se… Non volle finire quel
pensiero troppo triste.
Non c’era da nessuna parte. Poi si accorse di un capannello di
giornalisti che si accalcavano intorno a qualcuno. Fabrizio era li
che rispondeva alle domande degli intervistatori. Nonostante fosse
avvolto in una coperta grigia, pareva in ottima forma.
Un peso scomparve dal cuore di Larita. Si avvicinò per guardarselo
meglio.
Mamma mia quanto mi piace.
Per fortuna lui non l’aveva vista. Gli avrebbe fatto una sorpresa
appena finiva con i giornalisti.
– Allora, ci dica…
Cos’è successo? – domandò Rita Baudo, del Tg4.
Fabrizio Ciba aveva deciso di non parlare con la stampa, di essere
scorbutico e inavvicinabile come sempre, ma quando aveva visto che
tutti i giornalisti erano corsi da lui, dimenticandosi degli altri
vip, non era riuscito a non crogiolare l’ego. E poi nella mano che
teneva in tasca stringeva la chiavetta USB di Cruciani che gli infondeva 40 gb di forza e coraggio. Con l’altra mano si
toccò il lobo dell’orecchio e tirò fuori uno sguardo da
sopravvissuto. – C’è poco da dire. Siamo finiti nella festa di uno
psicopatico megalomane. Questa è la triste parabola di un essere
umano superbo e orgoglioso che ha creduto di essere un Cesare. In
un certo senso un eroe tragico, una figura d’altri tempi… – Avrebbe
potuto continuare a pontificare per il resto del giorno, ma decise
di concludere. – Scriverò presto la cronaca di questa notte di
orrore – . Quando un fotografo lo inquadrò, si diede un colpo sul
cespo di capelli ribelli che gli cadevano sugli occhi
lucidi.
Rita Baudo però non era soddisfatta. – Ma come? Non ci può dire di
più?
Fabrizio salutò con la mano, come a dire che nonostante fosse
emotivamente dissestato aveva avuto la clemenza di parlare con la
stampa, ma ora aveva bisogno di privacy. – Perdonatemi, sono molto
stanco.
In quel momento, con la delicatezza di un piantone di rugby, fece
irruzione tra i giornalisti Simona Somaini.
La, bionda attrice era avvolta in una microscopica coperta della
croce rossa che scopriva strategicamente le strepitose tette e i
capezzoli grandi come ditali velati dal reggiseno sbrindellato, la
pancia piatta e il microscopico tanga sporco di fango. L’avventura
nelle catacombe le aveva dato un’aria segnata, che la rendeva più
umana e nello stesso tempo ancora più sexy.
– Fabri! Eccoti! Ho temuto… – fece lei e lo baciò in
bocca.
L’occhio verde di Ciba si spalancò ed espresse per un decimo di
secondo un dubbio, poi si chiuse e i due rimasero avvinghiati, in
un tripudio di flash.
A Simona, a quel punto, come un sipario, cadde la coperta ai piedi
mostrando i suoi 100–60–90.
Quando finirono l’ossigeno lei gli poggiò la chioma color savana
sul collo e si asciugò gli occhi lucidi a favore degli obbiettivi.
– In questa notte terribile, nonostante tutto, abbiamo scoperto… –
Si rivolse a Fabrizio. – Glielo dici tu?
Fabrizio inarcò un sopracciglio, perplesso. – Che cosa,
Simona?
L’attrice rimase interdetta, poi si riprese, piegò di lato la testa
e sussurrò imbarazzata. – Dài, diciamoglielo. Per una volta non ci
nascondiamo. Siamo anche noi esseri umani… Soprattutto oggi. Dopo
questa terribile avventura.
– Puoi essere più chiara? – le domandò la giornalista di
Rendez–vous.
– Ecco, non so se posso dirlo.
L’inviato di Vesta Italiana le puntò il
microfono in faccia. – Ti prego, Simona, parla.
Fabrizio capì che la Somaini era un genio, strizzò la chiavetta
USB e seppe di amarla. Quello era il
colpo di scena finale, la degna conclusione che lo avrebbe reso
l’uomo più importante della festa, il più invidiato di tutti. Prese
aria e disse: – Abbiamo deciso di fidanzarci.
Scoppiò l’applauso da parte dei giornalisti, dei paramedici e dei
curiosi oltre le transenne.
Simona gli strusciò il naso sul collo come una gattina. – Sarò la
sua Marilyn.
Fabrizio chiese un attimo di silenzio. – E volevo festeggiare
dandovi una notizia in anteprima. Ho finalmente finito il mio
romanzo – . E aggiunse: – E non lo pubblicherò con la
Martinelli.
La Somaini lo abbracciò forte e sollevò il polpaccio e la deliziosa
caviglia. – Tesoro, che notizia! Non vedo l’ora di leggerlo. Sarà
un capolavoro.
Apparve strombazzando una grossa Porsche Cayenne nera. Dal
finestrino sbucò il testone di Paolo Bocchi. Era ancora tutto
congestionato. Sull’altro sedile c’era Matteo Saporelli che
russava. – Che festa eccezionale! La migliore degli ultimi anni!
Ragazzi, volete un passaggio?
Fabrizio prese per mano Simona. – Sì, per l’aeroporto.
– Che problema c’è! – disse il chirurgo estetico.
– Dove mi porti, tesoro? – chiese Simona tutta eccitata.
– A Maiorca.
19.
Larita aveva osservato la scena fino a quando i
due si erano baciati.
Poi si era infilata una tuta, si era nascosta sotto il cappuccio ed
era riuscita ad allontanarsi da quella bolgia prima che qualcuno la
potesse riconoscere.
Era stata brava, non era scoppiata a piangere.
Con la sua solita sfiga, quella notte aveva incontrato un altro
stronzo. Ma per fortuna si era dileguato dalla sua esistenza prima
di poter fare danni.
Nel palmo aveva il bigliettino che le aveva dato Mantos. Lo aprì
facendo attenzione a non stracciarlo. Sopra, stinto ma ancora
leggibile, c’era scritto: MI SONO INNAMORATO SENZA
E PERDO LA VITA SENZA AVERLA