19.Partenza dei safari
Fra una cosa e l’altra, le cacce erano partite
con due ore di ritardo sul programma.
Il sole calava dietro i boschi di Forte Antenne portandosi via
tutti i colori, ma grazie alla sapiente arte del direttore della
fotografia coreano Kim Doo Soo i boschi e le praterie del parco si
erano trasformati in una foresta incantata. Proiettori da diecimila
watt mimetizzati nella vegetazione allagavano di una luce
innaturale i tronchi ricoperti di licheni argentati, i funghi e le
rocce verdi di muschio. Una nebbia bassa e densa, creata dalle
macchine fumogene, copriva il sottobosco e i prati dove branchi di
gnu, stambecchi e alci brucavano. Migliaia di led luminosi
sparpagliati sulla prateria si accendevano e si spegnevano come
sciami di lucciole. Dodici giganteschi ventilatori nascosti sulle
alture producevano una brezza leggera che muoveva le distese erbose
su cui una famiglia di orsi marsicani e un vecchio rinoceronte
cieco riposavano, tra le altalene e gli scivoli ricoperti di
edera.
Cani e cavalieri della caccia alla volpe erano già spariti dietro
le colline a est.
I battitori africani, seguiti dai cacciatori a piedi, setacciavano
la prateria alla ricerca del leone.
Gli elefanti stavano lasciando la villa. In fila indiana i
pachidermi intrecciavano le proboscidi con le code, e a passo lento
ma inarrestabile puntavano dritti verso le paludi a nord ovest dove
si diceva fosse nascosta Kira, la tigre albina.
Sasà Chiatti, sul terrazzo di Villa Reale, osservava col binocolo
le comitive che si inoltravano nella sua immensa
proprietà.
Tutto lì era suo. Dai pini secolari alle edere infestanti, fino
all’ultima formica.
Lo avevano insultato, deriso, gli avevano dato del pazzo
megalomane, del cafone arricchito, del ladro, ma lui non aveva dato
retta a nessuno. E alla fine aveva vinto. Erano tutti venuti a
corte a rendergli onore.
Ecaterina Danielsson lo raggiunse sul terrazzo. Si era cambiata e
indossava un corsetto di pelle marrone che le stringeva la vita
esile. Le spalle avvolte in una stola di volpe argentata. Le gambe
fasciate da stivali. Portava due calici di cristallo.
La modella gli porse il vino. – Vuoi?
Sasà chiuse gli occhi e annusò. Il profumo fine, gradevole, etereo
era quello giusto. Si bagnò le labbra. Secco, caldo e lievemente
tannico. Sorrise soddisfatto. Era proprio lui, il Merlot di
Aprilia. Se lo tracannò.
Ecaterina, da dietro, gli cinse la vita. – Come ti senti?
Lui finì il bicchiere e se lo gettò alle spalle. – Come l’ottavo re
di Roma.
20.
Mantos, Murder, Zombie e Silvietta, vestiti da camerieri, marciavano su un terreno sabbioso e molliccio costellato da pozzanghere e acquitrini. Era un brulicare di zanzare, moscerini, vermi, mosche, libellule e un sacco di animaletti schifosi nascosti tra le canne, i papiri e i loti.
Mantos si guardava intorno smarrito. – Io non
me la ricordo ’sta palude… E voi?
– No, nemmeno io, – fece Murder, guardandosi le scarpe
infangate.
– Io ci sono stato qualche volta da piccolo. Mi ci portava mio
padre la domenica dopo che andavamo a sentire il papa. Mi ricordo
che c’erano le giostre, ma la palude no.
– Sarà la direzione giusta? – chiese Silvietta. In realtà non
gliene importava granché. Doveva fare la pace con Zombie. Era in
fondo alla fila e camminava a testa bassa.
– Penso di si. Ho visto che andavano verso nord
–. Mantos superò Murder e si mise a capo della fila. Sullo zainetto
si era legato la Durlindana. – Ma che alberi sono quelli? Come sono
strani.
Alberi con i tronchi contorti affondavano centinaia di dita lunghe
e scure nella sabbia. Sopra c’erano colonie di cercopitechi che li
osservavano.
Murder scacciò una mosca metallizzata. – Mah… Saranno
olivi.
– Ma che dici? Quelle sono mangrovie. Non le hai mai viste nei
documentari? – sbuffò Silvietta.
Mantos cominciava ad avere il fiatone. – Aspettate… Ma che le
mangrovie crescono nei climi continentali?
Murder si mise a ridere. – Se le cose non le sai non dirle. Questo
non è un clima continentale, è temperato.
Mantos lo indicò con la mano a paletta. – Sentilo. È arrivato The
Professor. Hai appena scambiato le mangrovie con gli
olivi.
– La smettete di litigare voi due? Muoviamoci che le zanzare mi
stanno mangiando viva, – fece Silvietta e si allontanò per
raggiungere Zombie. Cominciò a camminargli accanto. – Biscottino,
lo so che sei arrabbiato forte forte, ma ora non puoi tenermi il
muso fino a quando ci suicidiamo. Sono le nostre ultime ore e
stiamo facendo la cosa più importante della nostra vita e dobbiamo
essere uniti e volerci bene. Ti chiedo perdono, ma tu un sorriso me
lo devi fare. Sono o non sono la tua migliore amica?
Lui bofonchiò una cosa che poteva essere un si come un
no.
– Dài, ti prego. Lo sai quanto ti voglio bene.
Lui strappò una canna dal fango. – Mi hai ferito.
– Ti ho chiesto perdono.
– Perché non mi hai detto che vi sposavate?
– Perché sono un’idiota. Te lo avrei detto, ma mi vergognavo. Se
non ci fosse stata la missione ti avrei chiesto di farmi da
testimone.
– E io non te lo avrei fatto.
Lei rise. – Lo so… Ti prego, non dire a Mantos che ci volevamo
sposare, ci rimarrebbe troppo male.
– Va bene.
– Ora mi fai un sorriso? Uno solo, piccolino piccolino?
Per un secondo Zombie voltò la testa verso Silvietta e un sorriso
veloce come un battito d’ali gli balenò sulla faccia e fu subito
coperto dai capelli.