Parte I Genesi

Suicide is painless
It brings on many changes… The game of life is hard to play I’m gonna lose it anyway
The losing card I’ll someday lay So this is all I have to say.

MASH,Suicide Is Painless.

 

Tu sei forte, tu sei bello, tu sei imbattibile,

 

tu sei incorruttibile, tu sei un… Ah… Ah… Cantautore. EDOARDO BENNATO,Cantautore.

1.

A un tavolo della pizzeria Jerry2 di Oriolo Romano erano riunite le Belve di Abaddon.
Il loro leader, Saverio Moneta detto Mantos, era preoccupato.
La situazione era grave. Se non riusciva a riprendere in mano il comando della setta, quello rischiava di essere l’ultimo raduno delle Belve.
L’emorragia era cominciata da un po’. Per primo se ne era andato Paolino Scialdone detto Il Falciatore. Senza dire una parola li aveva mollati ed era entrato nei Figli dell’Apocalisse, un gruppo satanista di Pavia. Poche settimane dopo, Antonello Agnese detto Molten si era comprato una Harley Davidson di seconda mano e si era unito agli Hell’s Angels di Subiaco. E per finire Pietro Fauci detto Nosferatu, braccio destro di Mantos e storico fondatore delle Belve, si era sposato e aveva aperto un negozio di termoidraulica all’Abetone.
Erano rimasti in quattro.
Bisognava fare un discorso molto serio, rimetterli in riga e reclutare nuovi adepti.
– Mantos, tu che prendi? – gli domandò Silvietta, la vestale del gruppo. Una roscetta secca secca con due occhi a palla che sporgevano sotto le sopracciglia sottili, poste troppo in alto sulla fronte. Su una narice e al centro del labbro aveva un anello argentato.
Saverio diede un’occhiata distratta al menu. – Non so… Una marinara? No, meglio di no, l’aglio mi rimane sullo stomaco… Le pappardelle, dài.
– Le fanno ignoranti, ma so’ bone! – approvò Roberto Morsillo detto Murder, un ciccione alto quasi due metri, coi capelli lunghi e tinti di nero e gli occhiali da vista unti di grasso. Addosso aveva una maglietta slabbrata degli Slayer. Originario di Sutri, studiava Legge a Roma e lavorava al Bricocenter di Vetralla.
Saverio squadrò i suoi discepoli. Nonostante avessero superato la trentina si vestivano ancora come una manica di metallari sfigati. E dire che non faceva altro che raccomandarsi: «Dovete sembrare normali, via ’sti piercing, ’sti tatuaggi, ’ste borchie…» Ma non c’era verso.
Questo passa il convento, pensò rassegnato.
Mantos alzò lo sguardo, la sua immagine si rifletteva nella specchiera della Birra Moretti appesa dietro il bancone della pizzeria. Smilzo, un metro e settantadue, occhiali da vista con la montatura in metallo, capelli scuri pettinati con la riga a sinistra. Indossava una camicia azzurra mezze maniche abbottonata fino al collo, pantaloni di velluto a coste blu e un paio di mocassini college.
Un tipo normale. Come tutti i grandi paladini del Male: Ted Bundy, Andrej Cikatilo, Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee. Gente che potevi incontrare per strada e non gli avresti dato una lira. Invece erano i figli prediletti del Demonio.
Che avrebbe fatto Charlie Manson al mio posto se avesse avuto dei discepoli così sfigati?
– Maestro, ti dovremmo parlare… Avremmo pensato una cosa sulla setta… – lo spiazzò Edoardo Sambreddero detto Zombie, il quarto del gruppo, un tipo allampanato che non poteva ingerire aglio, cioccolata e bevande gassate. Soffriva di esofagia congenita. Aiutava il padre a montare gli impianti elettrici a Manziana. – Tecnicamente noi, come setta, non esistiamo.
Saverio aveva intuito dove voleva andare a parare l’adepto, ma fece finta di non capire. – Che vuoi dire?
– Da quant’è che abbiamo fatto il giuramento di sangue?
Saverio sollevò le spalle. – Saranno un paio d’anni.
– Su internet, per esempio, non si parla mai di noi. Dei Figli dell’Apocalisse tantissimo, – sussurrò Silvietta con una vocina così bassa che nessuno la sentì.
Zombie puntò il grissino contro il suo capo. – In tutto questo tempo che abbiamo combinato?
– Delle cose che avevi promesso, che abbiamo fatto? –si uni Murder. – Sacrifici umani non se ne sono visti e avevi detto che ne avremmo fatti un casino. E i riti di iniziazione con le vergini? E le orge sataniche?
– Intanto il sacrificio umano l’abbiamo fatto, eccome se lo abbiamo fatto, – precisò Saverio irritato.
– Non sarà riuscito, ma l’abbiamo fatto. E pure l’orgia.
A novembre di un anno prima Murder aveva conosciuto sul treno per Roma Silvia Butti, una studentessa fuori sede della facoltà di Psicologia. I due avevano parecchio in comune: l’amore per la Lazio, i film dell’orrore, gli Slayer e gli Iron Maiden, insomma il buon vecchio heavy metal degli anni Ottanta. Avevano cominciato a chattare su msn e a vedersi a via del Corso il sabato pomeriggio.
Fu Saverio ad avere l’idea di sacrificare Silvia Butti a Satana nel bosco di Sutri.
C’era solo un problema. La vittima doveva essere vergine.
Murder aveva dato la sua parola. – Ci ho fatto di tutto, ma quando ho provato a scoparmela, non c’è stato verso.
Zombie aveva cominciato a ridere. – Non ti ha sfiorato l’idea che forse non ci vuole scopare con un ciccione come te?
– Imbecille, ha fatto una scelta personale di castità. Quella è vergine al cento per cento. E poi, scusatemi, se per caso non lo fosse, che succede?
Saverio, maestro e teorico del gruppo, era preoccupato. – Be’, è abbastanza grave. Il sacrificio sarebbe inutile, o peggio potrebbe addirittura rivoltarcisi contro. Le potenze infernali, non soddisfatte, ci potrebbero attaccare e distruggere.
Dopo ore di discussioni e ricerche su internet, le Belve avevano concluso che l’illibatezza della vittima non era un problema sostanziale. A quel punto avevano studiato un piano.
Murder aveva invitato Silvia Butti per una pizzata a Oriolo Romano. Li, a lume di candela, le aveva offerto supplì, filetti di baccalà e una birra gigante in cui aveva sciolto tre pasticche di Roipnol. Alla fine della cena la studentessa si reggeva in piedi a malapena e farfugliava cose senza senso. Murder l’aveva caricata di peso in macchina e con la scusa di andare a vedere l’alba sul lago di Bracciano l’aveva portata nel bosco di Sutri. Li le Belve di Abaddon, con dei blocchi di tufo, avevano innalzato un’ara sacrificale. La ragazza, semicosciente, era stata spogliata e stesa sull’altare. Saverio aveva invocato il Maligno, aveva mozzato la testa a una gallina e spruzzato il sangue sul corpo nudo della studentessa e poi se l’erano fatta tutti. A quel punto avevano scavato una buca e l’avevano seppellita viva. Il rito era stato consumato e la setta aveva intrapreso il suo viaggio negli oscuri territori del Male.
Il problema si era presentato tre giorni dopo. Le Belve erano appena uscite dal cinema Flamingo dove avevano visto Non aprite quella porta. L’inizio e si erano trovate davanti Silvia. La ragazza, seduta su una panchina dei giardinetti, si mangiava una piadina. Non ricordava molto della serata, ma aveva la sensazione di essersi divertita. Aveva raccontato che quando si era risvegliata sotto terra aveva scavato fino alla superficie.
Saverio l’aveva arruolata come sacerdotessa ufficiale della setta. Qualche settimana dopo si era fidanzata con Murder.

– Sì, è vero, l’orgia l’avete fatta, – ridacchiò imbarazzata Silvietta. – Me l’avete raccontata cento volte.
– Sì, ma non eri vergine. E quindi tecnicamente la messa non è riuscita… – fece Zombie.
– Ma come potevate pensare che ero vergine? Il mio primo rapporto…

Saverio la interruppe. – Comunque era un rito satanico…
Zombie tagliò corto. – Ok, lasciamo perdere il sacrificio, poi che altro abbiamo fatto?
– Abbiamo sgozzato diverse pecore, mi pare. O no?
– E poi?
Mantos senza volerlo alzò la voce. – E poi! E poi! Poi ci so’ le scritte sul viadotto di Anguillara Sabazia!
– Capirai. Lo sai che Paolino con quelli di Pavia hanno sventrato una suora?
L’unica cosa che riuscì a fare il leader delle Belve di Abaddon fu scolarsi un bicchiere d’acqua.
– Mantos? Hai capito? – Murder mise la mano accanto alla bocca. – Hanno sventrato una suora di cinquantotto anni.
Saverio sollevò le spalle. – La solita cazzata. Paolo ci vuole fare rosicare, si è pentito di averci lasciato – . Ma aveva la sensazione che non fosse una cazzata.
– Il telegiornale lo guardi o no? – continuò impietoso Murder. – Ti ricordi di quella suora originaria di Caianello che hanno trovato decapitata vicino Pavia?
– Embè?
– Sono stati i Figli dell’Apocalisse. Se la sono caricata a una fermata dell’autobus e poi Kurtz l’ha decapitata con un’ascia bipenne.
Saverio detestava Kurtz, il leader dei Figli dell’Apocalisse di Pavia. Sempre il primo della classe. Sempre quello che faceva le cose più esagerate. Bravo Kurtz! Complimenti! Sei il migliore!
Saverio si passò la mano sul viso. – Vabbe’ ragazzi… Dovete pure considerare che ’sto periodo è stato molto duro per me. La nascita dei gemelli. ’Sto maledetto mutuo per la casa nuova.
– A proposito, come stanno i piccoli? – domandò Silvietta.
– Sono dei tubi. Mangiano e cagano. E la notte non ci fanno chiudere occhio. Si sono presi anche la rosolia. Aggiungete pure che il padre di Serena si è operato al bacino e tutto il mobilificio sta sulle mie spalle. Ditemi voi come faccio a organizzare qualcosa per la setta?
– Senti, hai qualche occasione in negozio? Vorrei comprarmi un divano letto tre posti, il mio me l’ha distrutto il gatto, – chiese Zombie.
Il capo delle Belve non ascoltava, pensava a Kurtz Minetti. Alto un cazzo e un barattolo. Pasticcere di professione. Aveva già dato fuoco a un rappresentante della Folletto e ora aveva decapitato una suora.
– Comunque siete degli ingrati, – e li indicò uno a uno. – Io mi sono fatto un culo così per questa setta. Se non c’ero io che vi introducevo nel culto degli Inferi voi a quest’ora stavate ancora a leggere Harry Potter.
– Sì, Saverio, capisci pure noi però. Noi ci crediamo nel gruppo, ma così non si può andare avanti – . Murder nervoso addentò un grissino. – Lasciamo perdere e rimaniamo amici.
Il capo delle Belve, esasperato, sbatté le mani sul tavolo. – Facciamo così. Datemi una settimana. Una settimana non si nega a nessuno.
– Che ci devi fare? – chiese Silvietta mordicchiandosi l’anello sul labbro.
– Sto studiando un’azione esagerata. Una missione molto pericolosa… – Prese una pausa. – Però poi non potete tirarvi indietro. Perché a parlare sono tutti buoni. Ma quando arriva il rischio… – Fece una vocina lamentosa. – Non posso, scusami… Ho problemi di famiglia, mia madre sta poco bene… Devo lavorare – . E guardò in maniera particolare Zombie, che abbassò colpevole la testa sul piatto. – No. Si rischia tutti il culo nello stesso modo.
– Ma non ci puoi anticipare qualcosa? – domandò timidamente Murder.
– No! Vi posso solo dire che è un’azione che ci farà balzare di colpo in testa alla top list delle sette sataniche d’Italia.
Silvietta gli afferrò un polso. – Mantos, dài ti prego, dicci qualcosina. Sono troppo curiosa…
– No! Ho detto di no! Dovete aspettare. Se fra una settimana non vi porto un progetto serio, allora grazie, ci diamo una bella stretta di mano e sciogliamo la setta. Va bene? – Si mise in piedi. Gli occhi neri gli erano diventati rossi, riflettevano le fiamme del forno delle pizze. – Ora discepoli onoratemi!
Gli adepti abbassarono il capo. Il leader sollevò gli occhi al soffitto e allargò le braccia.
– Chi è il vostro padre carismatico?
– Tu! – dissero in coro le Belve.
– Chi ha scritto le Tavole del Male?
–Tu!
– Chi vi ha insegnato la Liturgia delle Tenebre?
– Tu!
– Chi ha ordinato le pappardelle alla lepre? – fece il cameriere con una sfilza di piatti fumanti sulle braccia.
– Io! – Saverio allungò una mano.
– Non toccare che scottano.
Il leader delle Belve di Abaddon si sedette e in silenzio cominciò a mangiare.

2.

A una cinquantina di chilometri dalla pizzeria Jerry2, a Roma, la capitale d’Italia, una vespetta tre marce arrancava sulla salita di Monte Mario. In sella c’era il noto scrittore Fabrizio Ciba. Lo scooter si fermò al semaforo e al verde imboccò via della Camilluccia. Dopo due chilometri frenò di fronte a un cancello di ferro spalancato. Accanto era appesa una targa in ottone con su scritto: «Villa Malaparte».

Ciba mise la prima e stava per affrontare la lunga salita ricoperta di ghiaia che portava alla dimora quando gli si parò davanti un primate strizzato dentro un completo di flanella grigia. – Scusi! Scusi lei! Dove va? Ha l’invito?

Lo scrittore si tolse il casco a forma di scodella e cominciò a cercare nelle tasche della giacca stropicciata. – No… non credo di averlo… Devo essermelo dimenticato.

L’uomo si piazzò a gambe larghe. – E allora non può entrare.
– Sono stato invitato a…
Il buttafuori cacciò un foglio e inforcò dei piccoli occhiali da vista con la montatura rossa. – Come ha detto che si chiama?
– Non l’ho detto. Ciba. Fabrizio Ciba.
Il tipo cominciò a scorrere con l’indice l’elenco degli invitati facendo segno di no con la testa.
Non mi ha riconosciuto. Fabrizio non si seccò più di tanto. Era ovvio che il primate non praticava la letteratura ma, porca la puttana, la televisione non la guardava? Ciba conduceva una trasmissione chiamata Delitto & Castigo tutti i mercoledì sera su Rai Tre proprio per casi come questo.
– Mi dispiace. Il suo nome non risulta nella lista.
Lo scrittore era li per presentare il nuovo romanzo, Una vita nel mondo, del premio Nobel per la letteratura Sarwar Sawhney pubblicato dalla Martinelli, la sua stessa casa editrice. All’età di settantatre anni e con due libri alti come il manuale di Diritto privato alle spalle, Sawhney aveva ricevuto il premio dell’accademia svedese. Ciba avrebbe diviso gli onori di casa con Gino Tremagli, titolare della cattedra di Letteratura anglo–americana alla Sapienza di Roma, ma il vecchio trombone era stato chiamato solo per dare un’impronta di ufficialità all’evento. Toccava a Fabrizio sviscerare gli arcani segreti racchiusi in quel romanzone e darli in pasto al pubblico romano, notoriamente assetato di cultura.
Ciba cominciava a scocciarsi sul serio. – Ascoltami. Se lasci perdere quella lista e guardi l’invito, il cartoncino bianco di forma rettangolare che sfortunatamente io non ho, troverai il mio nome, essendo io il presentatore della serata. Se vuoi me ne vado. Ma quando mi chiederanno perché non sono venuto, dirò che… Com’è che ti chiami?
Fortunatamente si materializzò una hostess con un caschetto biondo e un tailleur blu. Appena vide sulla vespa d’epoca, con quel ciuffo ribelle e quegli occhioni verdi, il suo autore preferito, per poco non finì a terra. – Fallo passare! Fallo passare! – strillò con una vocina acuta. – Non vedi chi è? È Fabrizio Ciba! – Poi sulle gambe irrigidite dall’emozione raggiunse lo scrittore. – Mi dispiace tantissimo. Oddio che figuraccia terribile! Sono mortificatissima! Mi ero assentata un attimo e lei è arrivato così… Mi dispiace, come mi dispiace… Sono…
Fabrizio elargì un sorrisetto soddisfatto alla ragazza.
La hostess guardò l’orologio. – È tardissimo. La staranno aspettando tutti. Vada, vada, la prego – . Diede uno spintone al buttafuori e mentre Fabrizio passava urlò: – Dopo, mi firmerebbe il libro?
Ciba lasciò la vespa nel parcheggio e si incamminò verso la villa con il passo leggero del mezzofondista.
Un fotografo, mimetizzato nelle siepi di alloro, sbucò sul viale alberato e gli corse incontro. – Fabrizio! Fabrizio, ti ricordi di me? – Cominciò a seguirlo. – Abbiamo mangiato insieme a Milano in quell’osteria… La compagnia dei naviganti… Ti ho invitato nel mio dammuso a Pantelleria e tu hai detto che forse saresti venuto…
Lo scrittore sollevò un sopracciglio e squadrò quella specie di fricchettone spelacchiato coperto di macchine fotografiche. – Certo mi ricordo… – Non aveva idea di chi diavolo fosse. – Solo che è tardi, scusami. Un’altra volta. Mi aspettano…
Il fotografo insisteva: – Senti Fabrizio, mentre mi lavavo i denti ho avuto un’idea molto forte: vorrei farti un paio di scatti in una discarica abusiva…
Sul portone di Villa Malaparte l’editor Leopoldo Malagò e la responsabile delle relazioni pubbliche della Martinelli, Maria Letizia Calligari, gli facevano segno di affrettarsi.
Il fotografo arrancava con quei quindici chili di attrezzatura appesa al collo, ma non mollava. – È una cosa insolita… forte… la monnezza, i topi, i gabbiani… Capisci? Il «Venerdì di Repubblica»…
– Un’altra volta, scusami – . E si gettò tra i due.
Il fotografo, esausto, si piegò premendosi la milza. – Ti posso chiamare nei prossimi giorni?
Lo scrittore non si diede pena di rispondergli.
– Fabrizio, sei il solito… L’indiano è arrivato un’ora fa. Quel rompiballe di Tremagli voleva cominciare senza di te – . Malagò lo spingeva verso il salone mentre la Calligari gli infilava la camicia nei pantaloni borbottando: – Guarda come sei vestito! Sembri uno straccione. La sala è piena. C’è pure il sindaco. Tirati su la zip.
Fabrizio Ciba aveva quarantun anni, ma era per tutti il giovane scrittore. Quell’aggettivo, regolarmente ripetuto dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione, aveva un effetto taumaturgico sul suo fisico. Fabrizio non dimostrava più di trentacinque anni. Era magro e tonico senza fare palestra. Si ubriacava ogni sera, ma la pancia gli era rimasta piatta come una tavola.
Tutto il contrario del suo editor, Leopoldo Malagò detto Leo. Malagò aveva trentacinque anni e ne dimostrava, a essere gentili, dieci di più. Aveva perso i capelli in tenera età ma una lanugine sottile gli era rimasta attaccata al cranio. La colonna vertebrale gli si era torta seguendo la conformazione di una sedia di Philippe Stark, su cui passava dieci ore al giorno. Le guance gli si erano afflosciate e coprivano come un pietoso sipario il triplo mento. La barba che si era astutamente fatto crescere non era così folta da nascondere quella regione montuosa. Aveva il ventre dilatato come se glielo avessero gonfiato con un compressore. La Martinelli non badava a spese per quanto riguardava il nutrimento dei suoi editor. Grazie a una speciale carta di credito, potevano sfondarsi nei migliori e più costosi ristoranti, invitando scrittori, imbrattacarte, poeti e giornalisti ad abboffate di lavoro. Il risultato di questa politica era che gli editor della Martinelli erano una banda di buongustai obesi, con costellazioni di molecole di colesterolo che gli navigavano indisturbate nelle vene. Insomma Leo, nonostante gli occhialetti di tartaruga e la barba, che lo facevano assomigliare a un sefardita newyorchese, e i morbidi completi color verde palude, per le sue conquiste amorose doveva contare sul suo potere, sulla sua spregiudicatezza e sulla sua ottusa insistenza. Questo non valeva per le donne della Martinelli. Arrivavano alla casa editrice come scialbe segretarie e negli anni della militanza miglioravano costantemente grazie a enormi investimenti sulla loro persona. A cinquant’anni, soprattutto se avevano ruoli di rappresentanza, erano diventate delle algide strafighe senza età. Maria Letizia Calligari ne era un esempio emblematico. Nessuno sapeva quanti anni avesse. Chi diceva che ne avesse sessanta portati bene, chi trentotto portati male. Non aveva mai documenti d’identità con sé. Le malelingue bisbigliavano che non guidava per non avere la patente nella borsa. Prima del trattato di Schengen andava alla fiera di Francoforte da sola, per non mostrare il passaporto. Ma un errore, una volta, lo aveva commesso. Una sera, al Salone di Torino, si era lasciata sfuggire di aver conosciuto Cesare Pavese.
– Mi raccomando, Fabrizio, non aggredire subito il povero Tremagli, – lo pregò Maria Letizia.
– Vai, forza. Spacca il culo ai passeri – . Malagò spinse Fabrizio verso il salone delle conferenze.
Quando entrava nell’arena, Ciba aveva un trucco per caricarsi. Pensava a Muhammad Ali, il grande pugile, a quando urlava e avanzava verso il ring incitandosi: «Lo distruggo! A quello li non gli do neanche il tempo di vedermi che è già steso al tappeto». Fece due saltelli sul posto. Si sgranchi il collo. Si scompigliò i capelli. E carico come una pila entrò nella grande sala affrescata.

3.

Il leader delle Belve di Abaddon era al volante della sua Ford Mondeo nel traffico che avanzava verso Capranica. Su quel tratto di strada i centri commerciali rimanevano aperti fino a tardi e c’erano sempre rallentamenti. In genere stare in fila a Saverio non dava fastidio, era l’unico momento della giornata in cui poteva pensare ai fatti suoi in santa pace. Solo che adesso era in ritardissimo. Serena lo aspettava per cena. E doveva pure passare in farmacia a prendere gli antipiretici per i gemelli.

Ripensava al raduno. Peggio di così non sarebbe potuto andare e, come sempre, si era messo nei casini da solo. Perché aveva detto alle Belve che se non portava un progetto entro una settimana scioglieva la setta? Non aveva uno straccio di idea e per pianificare un’azione satanica, si sa, ci vuole tempo. Nell’ultimo periodo aveva cercato di farsi venire in testa una missione, ma nulla. Al mobilificio, il mese degli affaroni era stato un massacro. Dalla mattina alla sera chiuso là dentro con il vecchio che ti stava sopra appena cercavi di respirare un po’.

Un’ideuzza in realtà gli era venuta: profanare il cimitero di Oriolo Romano. Sulla carta era una bella azione. Se fatta nel modo giusto, poteva uscire fuori una cosa veramente carina. Ma riflettendoci meglio aveva deciso di abbandonarla. Intanto di fronte al cimitero era un viavai di macchine che non finiva più, quindi si doveva entrare a tarda notte. Il muro di cinta era alto più di tre metri e cosparso di cocci di bottiglia. Fuori dai cancelli si davano appuntamento bande di adolescenti e qualche volta si aggiungeva pure un camioncino che vendeva la porchetta. All’interno del camposanto ci viveva il custode, un ex carabiniere fuori di testa. Bisognava essere silenziosi ma a scoperchiare lapidi, tirare fuori le casse, prendere le ossa e impilarle un po’ di rumore, inevitabilmente, si fa. Saverio aveva anche pensato di crocifiggere l’ex carabiniere a testa in giù sul mausoleo dei Mastrodomenico, la famiglia di sua moglie.

Troppi casini.

Il cellulare cominciò a squillare. Sul display apparve: SERENA.
Saverio Moneta aveva sparato la solita balla: la partita del torneo di Dungeons & Dragons. Era oramai da tempo che per nascondere le sue attività sataniste le raccontava di essere un campione di giochi di ruolo. La storia non avrebbe retto ancora a lungo. Serena era sospettosa, continuava a fargli un mucchio di domande, voleva sapere con chi giocava, se aveva vinto… Per farla stare più tranquilla, una volta, aveva organizzato a casa una finta partita con le Belve. Ma quando sua moglie aveva visto Zombie, Murder e Silvietta, invece di tranquillizzarsi era diventata ancora più sospettosa.
Fece un respiro e rispose al telefonino. – Amore, lo so, sono in ritardo, ma sto arrivando. C’è un traffico tremendo. Ci deve essere stato un incidente.
Serena gli rispose con la solita delicatezza. – Ahò, ma che ti sei bevuto il cervello?
Saverio sprofondò nel sedile della Mondeo. – Perché? Che ho fatto?
– Qua c’è uno dellaDHL con un pacco enorme. Vuole trecentocinquanta euro. Dice che è per te. Ma che, devo pagare?
Oddio è arrivata la Durlindana.

Aveva comprato su eBay la fedele riproduzione della spada di Orlando, il paladino di Carlo Magno. La leggenda vuole che fosse appartenuta prima di lui addirittura a Ettore di Troia. Ma quel cerebroleso di Mariano, il portiere della sua palazzina, avrebbe dovuto intercettarla. Serena non doveva sapere nulla dello spadone.

– Sì, sì, paga, paga te, che appena torno ti ridò i soldi, – disse Saverio con finta tranquillità.
– Ma sei scemo? Trecentocinquanta euro! Ma che ti sei comprato? – Poi Serena si rivolse al fattorino della DHL: – Mi dice per cortesia che cosa contiene ’sto scatolo?
Mentre uno spruzzo di acidi peptici gli urticava le pareti dello stomaco, il gran maestro delle Belve di Abaddon si chiese per quale cazzo di ragione avesse scelto una vita così mortificante. Lui era un satanista. Un uomo attratto dall’ignoto, dal lato oscuro delle cose. Ma in quel momento di oscuro e ignoto nella sua vita non c’era nulla, tranne la ragione che lo aveva spinto fra le braccia di quella arpia.
– Allora che c’è in questo scatolo? – domandò Serena all’uomo della DHL.
Sentì in lontananza la voce del fattorino. – Signo’, è tardi. C’è scritto sulla bolla d’accompagnamento.
Saverio intanto sbatteva la nuca contro il reggitesta e mormorava: – Che casino… Che casino…
– Qui dice che viene da The Art of War di Caserta… Una spada?
Saverio alzò gli occhi al cielo e fece uno sforzo per non cominciare a ululare.
– Ma che ci fai con una spada?
Mantos scosse la testa. La pupilla destra fu impressionata da un enorme cartello al lato della strada.

LA CASA DELLARGENTO. LISTE DI NOZZE. REGALI IN ARGENTO UNICI ED ESCLUSIVI.

– È un regalo, Serena. È una sorpresa. Lo vuoi capire? – La voce gli era salita di un paio di ottave.
– Ma per chi? A me pari matto.
– E per chi? E per chi può essere? Indovina un po’?
– E che ne so…
– Per tuo padre!
Ci fu un istante di silenzio. – Mio padre? E che ci fa co’ ’sto spadone?
– E che ci deve fare? Lo mette sopra al caminetto, no?
– Sul caminetto? In montagna, dici? Nella baita di Roccaraso?
– Brava.
La voce di Serena si addolci all’istante. – Ma dài… Non mi aspettavo da te un pensiero così dolce. Cucciolo, alle volte sai stupirmi.
– Mo’ ti saluto però che non si può parlare con il cellulare in macchina.
– Va bene. Però vieni subito.
Saverio chiuse la conversazione e gettò il telefono nella vaschetta portaoggetti.

4.

Nella sala delle conferenze di Villa Malaparte c’era gente ovunque. Molti erano in piedi lungo i corridoi laterali. Alcuni studenti universitari erano seduti a terra a gambe incrociate di fronte al tavolo dei conferenzieri. Altri si erano appollaiati sui cornicioni delle finestre. Strano che non ci fosse nessuno appeso ai lampadari di Murano.

Appena il primo fotografo avvistò lo scrittore i flash cominciarono a sparare. Trecento teste si girarono e ci fu un istante di silenzio. Poi, lentamente, montò un mormorio.

Ciba camminava con addosso seicento occhi che lo osservavano. Si voltò un attimo indietro, abbassò il capo, si toccò il lobo dell’orecchio e mise su uno sguardo impaurito cercando di apparire leggermente goffo e imbarazzato. Tipo alieno teletrasportato dalle grotte venusiane. Il messaggio corporale che inviava era semplice: Io sono il più grande scrittore esistente sulla terra, eppure capita anche a me di arrivare in ritardo perché, nonostante tutto, sono una persona normale, proprio come voi. Appariva esattamente come voleva apparire. Giovane, tormentato, con la testa fra le nuvole. Con la giacca di tweed lisa sui gomiti e tenuta in piega dentro un barattolo di marmellata, con i pantaloni sformati e di due taglie più grandi (se li faceva fare in un kibbutz vicino al Mar Morto), con il gilet comprato in un charity shop di Portobello, con le vecchie Church’s che gli erano state regalate il giorno della laurea, con il naso appena troppo grande per il suo viso e con quel cespo di capelli ribelli che gli cadevano sugli occhi verdi. Una star. Un attore inglese che aveva il dono di scrivere come un dio.

Mentre avanzava verso il tavolo Fabrizio esaminò la composizione della platea. Valutò un dieci per cento di autorità, un quindici di giornalisti e fotografi, un buon quaranta di studenti, anzi studentesse cariche di ormoni, e un trentacinque di babbione in odore di menopausa. Poi calcolò la percentuale del suo libro e di quello dell’indiano tenuti sul petto da queste brave persone. Facile. Il suo era color carta da zucchero con il titolo di un bel rosso sangue, quello dell’indiano, bianco con le scritte in nero. Più dell’ottanta per cento era azzurrino! Riuscì a farsi spazio tra gli ultimi grappoli di folla. Chi gli stringeva la mano, chi gli dava una pacca fraterna come se fosse di ritorno dall’Isola dei famosi.

Finalmente giunse al tavolo dei presentatori. Lo scrittore indiano era seduto al centro. Assomigliava a una testuggine a cui hanno sfilato il guscio, e infilato una tunica bianca e un paio di occhiali da vista con la montatura nera. Aveva un volto placido e due occhietti liquidi e distanti. Un tappeto di capelli neri tirati indietro con la brillantina lo aiutava a non assomigliare a una mummia egizia. Quando vide Fabrizio, l’indiano piegò leggermente la testa e poggiò le palme delle mani una sull’altra in segno di saluto. Ma a magnetizzare l’attenzione di Ciba fu la creatura femminile seduta accanto a Sawhney. Una trentina d’anni. Sangue misto. Mezza indiana e mezza caucasica. Poteva essere una modella, eppure quegli occhialini posati sul nasino all’insù le davano un’aria da maestrina. Una bacchetta cinese teneva disordinatamente insieme i lunghi capelli. Ciocche scomposte, color catrame, le cadevano sul collo magro. Una bocca piccola e carnosa, pigramente aperta, risaltava come una prugna matura sul mento appuntito. Indossava una camicetta di lino bianco, aperta quel tanto che basta per mettere in luce un décolleté né troppo piccolo né troppo abbondante.

Una terza, calcolò Fabrizio.
Le braccia color bronzo finivano con dei polsi sottili coperti di pesanti bracciali di rame. Le dita finivano invece con delle unghie laccate di nero. Fabrizio, sedendosi al suo posto, sbirciò sotto il tavolo per vedere se anche là era messa bene. Gambe eleganti spuntavano da una gonna scura. I piedi magri erano fasciati da sandali greci e anche le unghie dei piedi erano coperte dallo stesso smalto nero delle mani. Chi era quella dea calata dall’Olimpo?
Tremagli, seduto sulla sinistra, sollevò uno sguardo severo dai suoi fogli. – Bene, il signor Ciba si è degnato di arrivare… – Fissò con ostentazione l’orologio che teneva al polso. – Credo, sempre che lei sia d’accordo, che potremmo iniziare.
– D’accordo.
A Fabrizio Ciba lo stimato professor Tremagli, senza usare mezzi termini, stava parecchio sui coglioni. Non lo aveva mai aggredito con le sue velenose recensioni ma non lo aveva nemmeno mai elogiato. Semplicemente, per il professor Tremagli l’opera di Ciba non esisteva. Quando parlava dell’attuale, increscioso, stato della letteratura italiana, cominciava a lodare una serie di scrittorucoli che conosceva solo lui e che se vendevano millecinquecento copie era festa in famiglia. Mai un accenno, mai un commento su Fabrizio. Finalmente, un giorno, sul «Corriere della Sera», alla domanda diretta: «Professore, come spiega il fenomeno Ciba?» aveva risposto: «Se di fenomeno dobbiamo parlare, è fenomeno passeggero, una di quelle tempeste tanto temute dai meteorologi che passano senza arrecare danni». E aveva precisato: «Comunque non l’ho letto con attenzione».
Fabrizio aveva cominciato a schiumare come un cane idrofobo e si era gettato sul computer a scrivere una risposta infuocata da pubblicare in prima di «Repubblica». Ma quando la rabbia era sbollita aveva cancellato il file.
La prima regola di ogni vero scrittore è: mai e poi mai, nemmeno in punto di morte, nemmeno sotto tortura, rispondere alle offese. Tutti aspettano che tu cada nella trappola della risposta. No, bisogna essere intangibili come un gas nobile e distanti come Alpha Centauri.
Ma gli era venuta voglia di aspettare il vecchio sotto casa e strappargli quel suo cazzo di bastone e percuoterglielo sulla zucca come fosse un tamburo africano. Che piacere, e avrebbe rinsaldato la sua fama di scrittore maledetto, di uno che alle offese letterarie risponde con le mani, come gli uomini veri e non come gli intellettuali del cazzo con acide rispostine in seconda di cultura. Solo che quello aveva settant’anni e ci stirava le zampe in mezzo a viale Somalia.

Tremagli con tono da ipnotizzatore cominciò una lezione sulla letteratura indiana che partiva dai primi testi in sanscrito del 2000 a.C. trovati nelle tombe rupestri di Jaipur. Fabrizio considerò che per arrivare al 2000 d.C. ci avrebbe messo come minimo un’ora. Le prime a cadere anestetizzate sarebbero state le vecchie babbione, poi le autorità, poi tutti gli altri, compreso Fabrizio e lo scrittore indiano.

Ciba poggiò un gomito sul tavolo e la fronte sul palmo, cercando di fare tre operazioni contemporaneamente:

1. controllare chi erano le autorità presenti; 2. capire chi era la dea che gli sedeva accanto; 3. riflettere su cosa dire.

La prima operazione la svolse rapidamente. In seconda fila c’era la Martinelli al gran completo: Federico Gianni, l’amministratore delegato, Achille Pennacchini, il direttore generale, Giacomo Modica, il direttore delle vendite, e una schiera di editor tra cui Leo Malagò. Poi tutto il gineceo dell’ufficio stampa. Se aveva schiodato il culo da Genova pure Gianni, voleva dire che al libro dell’indiano ci tenevano. Chissà, forse speravano di venderne qualche copia.

In prima fila riconobbe l’assessore alla cultura, un regista televisivo, un paio di attori, una sfilza di giornalisti e altre facce viste mille volte ma non sapeva dove e quando.

Sul tavolo c’erano i cartellini con i nomi dei partecipanti. La dea si chiamava Alice Tyler. Mormorava nell’orecchio di Sarwar Sawhney la traduzione del discorso di Tremagli. Il vecchio, ad occhi chiusi, faceva si con la testa con la regolarità di una pendola. Fabrizio aprì il romanzo dell’indiano e scopri che la traduzione era di Alice Tyler. Quindi non era solo la traduttrice della serata. Incominciò seriamente a pensare di aver trovato la donna della sua vita. Bella come Naomi Campbell e intelligente come Margherita Hack.

Da qualche tempo Fabrizio Ciba aveva preso in considerazione la possibilità di costruire una relazione stabile con una donna. Questo, forse, poteva aiutarlo a concentrarsi sul nuovo romanzo, fermo al secondo capitolo da tre anni.

Alice Tyler Alice Tyler? Dove aveva sentito quel nome?
Per poco non cadde dalla sedia. Era la stessa Alice Tyler che aveva tradotto Roddy Elton, Irvin Parker, John Quinn e tutta la genia degli scrittori scozzesi.
Lì avrà conosciuti tutti! Sarà andata a cena con Parker che poi se la sarà scopata in uno squat londinese, tra cicche spente sulla moquette, siringhe usate e lattine di birra vuote.
Un dubbio atroce. Ma avrà letto i miei libri? Doveva saperlo ora, subito, immediatamente. Era un bisogno fisiologico. Se non ha letto i miei libri e non mi ha visto in televisione, potrebbe pensare che io sia uno qualsiasi, scambiarmi per uno di quei mediocri scrittori che campano di presentazioni ed eventi culturali. Tutto ciò era insostenibile per il suo ego. Qualsiasi rapporto paritario, dove lui non era la star, gli provocava sgradevoli effetti secondari: secchezza delle fauci, vertigini, vomito e diarrea. Per corteggiarla avrebbe dovuto contare solo sulla sua avvenenza, sulla sua tagliente ironia, sulla sua imprevedibile intelligenza e non sulle sue opere. E meno male che non prendeva in considerazione l’ipotesi che Alice Tyler le avesse lette e le avesse trovate brutte.
E arrivò all’ultimo punto, quello più spinoso: di cosa avrebbe parlato dopo lo sproloquio del vecchio trombone? Nelle settimane passate, un paio di volte, Ciba aveva provato a leggere il tomone indiano ma dopo una decina di pagine aveva acceso la televisione e si era guardato i campionati di atletica. La buona volontà ce l’aveva messa, ma era un libro di una noia mortale, da lessare le palle. Aveva chiamato un suo amico… un suo fan, uno scrittore di Catanzaro, uno di quegli esseri insulsi e servili che gli ronzavano intorno cercando, come scarafaggi, di nutrirsi delle briciole della sua amicizia. Questo qui però, al contrario di altri, era dotato di un certo spirito analitico, di una, per certi versi, frizzante capacità creativa. Uno che forse, in un futuro indefinito, avrebbe fatto pubblicare dalla Martinelli. Ma per ora a questo amico di Catanzaro affidava compiti secondari, quali scrivergli l’articolo per il settimanale femminile, tradurre un testo dall’inglese, fare ricerche in biblioteca e, come in questo caso, leggersi il bestione e comporgli un bel riassuntino critico che lui poi, in un quarto d’ora, avrebbe fatto suo.
Ciba tirò fuori dalla giacca, cercando di non dare troppo nell’occhio, le tre paginette scritte dall’amico.
Fabrizio, in pubblico, non leggeva mai. Parlava a braccio, si faceva ispirare dal momento. Era famoso per questo talento, per la magica sensazione di spontaneità che regalava ai suoi ascoltatori. La sua mente era una fucina aperta ventiquattro ore su ventiquattro. Non c’era filtro, non c’era deposito, e quando partiva con i suoi monologhi affascinava tutti: dal pescatore di Mazara del Vallo al maestro di sci di Cortina d’Ampezzo.
Ma quella sera l’attendeva un’amara sorpresa. Lesse le prime tre righe del riassunto e impallidì. Parlava di una saga familiare di musicisti. Tutti costretti, per un imperscrutabile destino, a suonare il sitar per generazioni e generazioni.
Agguantò il libro dell’indiano. Il titolo era La congiura delle vergini. E allora perché nel riassunto si parlava di Una vita nel mondo?
Un terribile sospetto. L’amico di Catanzaro si era sbagliato! Quel testa di cazzo aveva toppato libro.
Divorò disperato la quarta di copertina. Non si parlava per niente di suonatori di sitar, ma di una famiglia di donne nelle isole Andamane.
In quel momento Tremagli terminò il monologo.

5.

Lo faceva disperare che la Durlindana pagata trecentocinquanta euro sarebbe finita sul caminetto del suocero. Saverio Moneta aveva comprato quello spadone pensando di trucidarci il custode del cimitero di Oriolo o comunque di usarlo come arma sacrificale per i riti di sangue della setta.

Le macchine avanzavano a passo d’uomo. Una fila di palme, bruciate dall’inverno, erano ricoperte di luminarie colorate che brillavano sui cofani delle Mercedes e Jaguar ferme nei parcheggi delle concessionarie.

Ci deve essere stato davvero un incidente.
Saverio accese la radio e cominciò a cercare il canale del traffico. Una parte del cervello lavorava incessantemente alla ricerca di un’altra azione da proporre a Murder e agli altri.

E se ad esempio ammazzassimo padre Tonino, il prete di Capranica?
Il cellulare ricominciò a suonare. Ti prego… Serena… Ancora? Ma sul display dell’apparecchio appariva: NUMERO SCONOSCIUTO. Doveva essere il vecchio bastardo che si nascondeva per cercare di fotterlo.
Egisto Mastrodomenico, il padre di Serena, aveva settantasette anni eppure smanettava con i telefonini e i computer come un ragazzetto di sedici. Nel suo ufficio all’ultimo piano del Mobilificio dei Mastri d’Ascia Tirolesi aveva una batteria di computer collegati a telecamere da fare invidia a un casinò di Las Vegas. Il rendimento dei quindici venditori era monitorato tutto il giorno, neanche fossero dentro un reality. E Saverio, che era a capo del reparto Mobili Tirolesi, aveva quattro obbiettivi puntati su di lui.
No, stasera non ce la faccio a sentirlo. Alzò il volume dell’autoradio cercando di ammutolire il telefono.
Mantos odiava il suocero con tale intensità che gli era venuta la colite spastica. Il vecchio Mastrodomenico trovava ogni occasione per umiliarlo, per farlo sentire un povero inetto, uno scroccone che continuava a lavorare nel mobilificio soltanto perché era sposato con sua figlia. Lo offendeva non solo davanti ai colleghi, ma anche con i clienti. Una volta, durante le offerte di primavera, gli aveva dato del cretino urlandolo nel microfono acceso. L’unica consolazione era sapere che prima o poi il bastardo schiattava. Allora tutto sarebbe cambiato. Serena era figlia unica e lui sarebbe diventato il direttore del mobilificio. Anche se da un po’ gli era venuto il dubbio che il vecchio non potesse morire. Gli era successo di tutto. Gli avevano tolto la milza. Gli avevano asportato una cisti sebacea da un orecchio e per poco non era rimasto sordo. Aveva un occhio devastato dalla cataratta. All’età di settantaquattro anni si era schiantato con la sua Mercedes a duecento all’ora contro un Tir fermo a una pompa dell’Agip. Era stato in coma tre settimane e si era risvegliato più incazzato di prima. Poi gli avevano diagnosticato un cancro all’intestino, ma siccome era anziano il tumore non riusciva a espandersi. E come se non bastasse durante il battesimo dei gemelli era cascato dalle scale della chiesa e si era rotto il bacino. Ora viveva su una sedia a rotelle e toccava a Saverio portarlo al lavoro la mattina e riportarlo a casa la sera.
Il telefonino continuava a suonare e a pulsare nella vaschetta accanto al cambio.
– Fottiti! – gli ringhiò, ma il maledetto senso di colpa inscritto nei cromosomi gli impose di rispondere. – Papà?
– Mantos.
Non era la voce del vecchio. E non poteva conoscere la sua identità satanica.
– Chi è?
– Kurtz Minetti.
Al nome del sommo sacerdote dei Figli dell’Apocalisse Saverio Moneta chiuse gli occhi e li riapri, con la mano sinistra strinse il volante e con la destra il telefonino, ma l’apparecchio gli sgusciò come una saponetta bagnata finendogli tra le gambe. Per riprenderlo tolse il piede dalla frizione e il motore cominciò a singhiozzare e si spense. Dietro, i clacson suonavano e Saverio urlava a Kurtz: – Un momento… Sto al volante. Un momento che accosto.
Un motociclista su uno scooterone a tre ruote gli bussò sul finestrino. – Ma lo sai che sei una testa di cazzo?
Finalmente Saverio raccolse il cellulare, fece ripartire la macchina e riuscì ad accostare.
Che voleva da lui Kurtz Minetti?

6.

Appena Tremagli concluse il suo intervento la platea cominciò a tirarsi su dalle poltrone dove si era rannicchiata, a sgranchirsi le gambe addormentate, a darsi pacche di solidarietà avendo superato una prova così impegnativa. Per un istante Fabrizio Ciba sperò che fosse finita là, che il professore avesse esaurito tutto il tempo a disposizione per l’incontro.

Tremagli guardò Sawhney sicuro che facesse commenti ma l’indiano sorrise e, ancora una volta, abbassò il capo in segno di saluto. A quel punto la palla avvelenata passò a Fabrizio. – Credo che tocchi a lei.

– Grazie – . Il giovane scrittore si massaggiò il collo. – Parlerò poco – . Poi si rivolse al pubblico. – Vi vedo leggermente provati. E so che di là c’è un ottimo buffet – . Si maledisse nel momento stesso in cui quelle parole gli uscirono di bocca. Aveva pubblicamente offeso Tremagli, però vide negli occhi della platea uno scintillio d’approvazione che confermava le sue parole.

Cercò un attacco, una stronzata qualunque con cui partire. – Ahhh… – Si schiari la voce. Bussò sul microfono. Si versò un bicchiere d’acqua e si bagnò le labbra. Nulla. La sua mente era uno schermo nero. Uno scrigno svuotato. Un universo freddo e senza stelle. Un barattolo di caviale senza il caviale. Quella gente era arrivata li da ogni parte della città, sfidando il traffico, non trovando parcheggio, prendendosi una mezza giornata di libertà perché c’era lui. E lui non aveva una minchia da dire. Guardò il suo pubblico. Il pubblico che pendeva dalle sue labbra. Il pubblico che si domandava che cosa aspettasse a cominciare.

La guerra del fuoco.
Una fugace visione di un vecchio film francese, visto chissà quando, come lo spirito divino gli calò sulla mente e gli eccitò la corteccia che rilasciò sciami di neurotrasmettittori che piovvero su recettori pronti ad accoglierli risvegliando altre cellule del sistema nervoso centrale.
– Scusatemi. Mi ero perso in un’immagine affascinante – . Si gettò i capelli indietro, regolò meglio l’altezza del microfono. – È l’alba. Un’alba sporca e lontana di ottocentomila anni fa. Fa freddo ma non c’è vento. Un canyon. Vegetazione bassa. Sassi. Sabbia. Tre piccoli esseri pelosi, alti un metro e mezzo, coperti di pelli di gazzella sono al centro di un fiume. La corrente è impetuosa, non è un fiumiciattolo qualsiasi ma un fiume con tutti i crismi. Uno di quei corsi d’acqua dove, tanti anni dopo, passeranno famiglie americane bardate con giubbotti gonfiabili a bordo di gommoni colorati – . Fabrizio fece una pausa tecnica. – L’acqua è grigia ed è bassa e gelata. Gli arriverà alle ginocchia, ma la corrente è maledettamente forte. E loro devono attraversare il fiume e avanzano poggiando con attenzione un piede alla volta. Uno dei tre, il più grosso, che con quelle trecce di capelli e fango assomiglia un po’ ai rasta giamaicani, stringe tra le mani una specie di cesta, una roba fatta di ramoscelli intrecciati. Al centro della cesta traballa una piccola fiammella, una minuscola fiammella preda dei venti, una fiammella che rischia di spegnersi, piccina, che va alimentata continuamente con fascine e pale di cactus secche che gli altri due stringono tra le braccia. Di notte, fanno i turni per tenerla accesa, rannicchiati dentro una caverna umida. Dormono con un occhio solo, attenti che il fuoco non si spenga. Per trovare la legna devono affrontare le bestie. Enormi, paurose. Tigri dai denti a sciabola, mammut pelosi, mostruosi armadilli con code appuntite. I nostri piccoli antenati non sono a capo della catena alimentare. Non la guardano dall’alto in basso. Stanno in una buona posizione nella hit–parade, ma sopra di loro ci sono un paio di esseri con un caratterino per niente amichevole. Possiedono denti affilati come rasoi, hanno veleni capaci di inchiodare un rinoceronte in trenta secondi. È un mondo di spine, aculei, pungiglioni, di piante colorate e tossiche, di minuscoli rettili che spruzzano liquidi simili al Cif Ammoniacal… – Ciba si tastò la mascella e lanciò un’occhiata ispirata verso le volte affrescate della sala.
Il pubblico non era più li, era nella preistoria. In attesa che lui proseguisse.
Fabrizio si chiese perché cazzo li avesse portati nella preistoria, e dove stava andando a parare. Ma non importava, doveva proseguire. – I tre sono al centro di questo fiume. Il più grosso, il portatore del fuoco, è in testa alla fila. Con le braccia rigide come pezzi di marmo, tiene davanti a sé il debole falò. Sente i muscoli urlare di dolore ma avanza trattenendo il respiro. Una cosa non può fare, cadere. Se cade non avranno più il calore che gli permette di non morire di freddo in quelle notti senza fine, di arrostire le carni coriacee dei facoceri, di tenere lontane le fiere dall’accampamento – . Sbirciò l’indiano. Seguiva? Sembrava di si. Alice gli traduceva e lui sorrideva, tenendo la testa un po’ sollevata, come fanno a volte i ciechi. – Qual è il problema, vi starete chiedendo? Che ci vuole ad accendere un fuoco? Vi ricordate il libro di storia delle medie? Quelle illustrazioni in cui si vede il famoso uomo primitivo, con barba e perizoma, che sfrega due sassi accanto a un bel falò preparato da uno scout diligente? Dove stanno queste maledette pietre focaie? Ne avete mai trovata una durante una passeggiata in montagna? Io no. Vi volete fumare una sigaretta durante un trekking, siete senza fiato ma una bella marlborina ci vuole proprio, non avete l’accendino e allora che fate? Chiaro! Prendete da terra due pietre e tac, una scintilla. No, amici miei! Non funziona così. E i nostri antenati, sfortunaccia loro, vivono solo cento anni prima di quel genio, un genio senza nome, un genio a cui nessuno ha pensato di dedicare un monumento, un genio al livello di Leonardo da Vinci e Einstein, che scoprirà che certe pietre, ricche di zolfo, sfregate tra loro producono scintille. Questi tre, per avere il fuoco, devono aspettare che un fulmine cada dal cielo e bruci una foresta. Un avvenimento che accade ogni tanto, ma non così frequentemente. «Scusa, dovrei arrostire questo brontosauro, non ho fuoco, caro, vai a cercare un incendio», dice mamma ominide, e il figlio parte. Lo rivedrà dopo tre anni – . Risate del pubblico. Addirittura partono un paio di brevi applausi. – Ora capite perché questi tre devono tenere acceso quel fuoco. Il famoso fuoco sacro… – Ciba prese fiato ed elargì un gran sorriso al suo pubblico. – Perché vi sto raccontando tutto questo, non lo so…
– Risate. – Anzi, forse lo so… E credo che anche voi lo abbiate capito. Sarwar Sawhney, questo eccezionale scrittore, è uno di quegli esseri che si sono presi la difficile, terribile responsabilità di tenere acceso il fuoco e consegnarcelo quando il cielo si fa buio e il freddo ci penetra l’anima. La cultura è un fuoco che non si può spegnere e riaccendere con un fiammifero. Va preservata, mantenuta alta, alimentata. E tutti gli scrittori, e tra questi mi ci metto anch’io, hanno il dovere di non dimenticarsi mai di quel fuoco – . Ciba si alzò dalla sedia. – Vorrei che vi alzaste tutti. Ve lo chiedo per favore. In piedi un attimo. Qui con noi c’è un grande scrittore che va onorato per quello che fa.
Tutti si alzarono in un gran frastuono di sedie ad applaudire fragorosamente il vecchio indiano, che cominciò a ciondolare la testa piuttosto imbarazzato. – Bravo! Bene! Bravo! Grazie di esistere! – urlava qualcuno che probabilmente sentiva il nome di Sawhney per la prima volta e che certo non si sarebbe comprato il suo libro. Anche Tremagli, a malincuore, dovette alzarsi e applaudire a quella pagliacciata. Una ragazza in seconda fila tirò fuori un accendino. Fu subito imitata da tutti. Fiammelle si accesero ovunque. Qualcuno spense i grandi lampadari e la lunga stanza fu lugubramente illuminata da cento fuocherelli. Sembrava di stare a un concerto di Baglioni.
– Perché no – . Ciba tirò fuori l’accendino anche lui. Vide l’amministratore delegato, il direttore generale e il gruppo intero della Martinelli imitarlo.
Lo scrittore era soddisfatto.

7.

– Mantos, ti devo fare una proposta. Ti aspetto domani a Pavia per un pranzo di lavoro. Ti ho fatto prenotare un aereo per Milano.

Saverio Moneta era sul bordo della provinciale per Capranica e non poteva credere che il famoso Kurtz Muletti, il sommo sacerdote dei Figli dell’Apocalisse, quello che aveva decapitato una suora con un’ascia bipenne, stesse parlando con lui. Si passò una mano sulla fronte in fiamme. – Domani?

– Sì. Ti faccio venire a prendere a Linate da uno dei miei seguaci – . Kurtz aveva una voce rassicurante e senza accento.
– Ma domani che giorno è?
– Sabato.
– Sabato… Fammi pensare – . Era impossibile. L’indomani cominciava la settimana delle camerette e se chiedeva al vecchio un altro giorno libero quello lo avrebbe cosparso di cherosene e gli avrebbe dato fuoco nel parcheggio del mobilificio.

Si fece coraggio. – No, domani non posso. Mi dispiace, ma non posso proprio – . Sarò il primo ad aver osato dire no a un invito del più grande esponente del satanismo italiano. Questo ora mi sbatte il telefono in faccia.

Ma Kurtz gli domandò: – E quando saresti libero?
– Ecco, in questi giorni, in verità, sono parecchio occupato…
– Ho capito – . Kurtz, più che scocciato, sembrava spiazzato.
Mantos ci provò: – Non potremmo parlarne al telefono? Mi hai beccato in un periodo difficile.
Kurtz prese un respiro con il naso. – Non mi piace parlare per telefono. Non è sicuro. Ti posso solo accennare qualcosa. Come tu saprai i Figli dell’Apocalisse sono la prima setta satanica in Italia e la terza in ordine di grandezza in Europa. Il nostro sito internet registra cinquantamila contatti al giorno e abbiamo un calendario ricchissimo di iniziative. Organizziamo orge, raid, messe nere ed escursioni ai luoghi satanici, come la pineta di Castel Fusano e le grotte di Al Amsdin in Giordania. Abbiamo anche un cineforum dove proiettiamo i bellissimi del cinema demoniaco. E abbiamo in cantiere un semestrale illustrato chiamato «Famiglia satanica» – . La voce gli era cambiata, era diventata più accattivante. Quel discorso doveva averlo fatto già parecchie volte. – I nostri seguaci sono sparsi a macchia di leopardo per tutta la penisola. Continuiamo ad avere la sede storica a Pavia ma oramai, vista la situazione, abbiamo deciso di espanderci e di fare un passo in avanti. E qui mi subentri tu, Mantos.
Saverio si slacciò il bottone del colletto. – Io? Come io?
– Sì tu. So che stai avendo problemi gestionali con le tue Belve di Abaddon. È una problematica comune a tutte le piccole sette. Il Falciatore mi ha detto che hai avuto diversi abbandoni nell’ultima stagione e siete rimasti in tre.
– Be’… Per la verità se conti pure me, siamo quattro.
– Inoltre non avete ancora fatto nulla di rilevante, tranne, mi segnalano sul forum, delle scritte inneggianti al Demonio sul viadotto di Anguillara Sabazia.
– Ah, le avete notate? – fece Saverio con un certo orgoglio.
– Allo stato dei fatti la situazione della vostra setta è decisamente malmessa. E come tu mi insegni con la crisi che c’è in giro non avete molte chance di resistere un altro anno. Scusa se sono franco, ma siete una realtà insignificante nel duro panorama del satanismo italiano.
Saverio slacciò la cintura di sicurezza. – Ci stiamo dando da fare. Abbiamo in programma di cercare nuovi adepti e compiere azioni che ci possano far notare nel mondo del satanismo. Siamo pochi, ma parecchio affiatati.
Kurtz intanto andava avanti per conto suo. – Quello che ti propongo è di sciogliere le Belve e di entrare nella covata maledetta dei Figli dell’Apocalisse. Quello che ti offro è di diventare il nostro referente per l’Italia centrale.
– In che senso?
– Tu sarai il direttore della succursale del Centro Italia e Sardegna dei Figli dell’Apocalisse.
– Io? – Il cuore di Saverio si gonfiò d’orgoglio. – Perché io?
– Il Falciatore mi ha parlato bene di te. Mi ha detto che hai carisma, voglia di fare, e sei un fervente fedele di Satana. E come tu mi insegni per essere il capo di una setta satanica bisogna amare le forze del Male più di se stessi.
– Veramente ha detto così? – Saverio non se lo aspettava. Era sicuro che Paolo lo odiasse. – D’accordo. Ci sto.
– Ottimo. Organizzeremo un’orgia a Terracina in tuo onore. Li abbiamo diverse novizie dell’Agro Pontino…
Mantos si rilassò sul poggiatesta. – Murder, Zombie e Silvietta saranno felici di questa proposta.
– Aspetta. L’offerta vale per te. I tuoi adepti dovranno riempire il modulo d’adesione che si scarica dal nostro sito e spedircelo. Valuteremo caso per caso se accettarli.
– Ho capito.
La voce di Kurtz era tornata piatta. – Come tu mi insegni i favoritismi sono la morte di ogni impresa.
– Chiaro.
– Dovresti venire su a Pavia per un breve stage in cui ti diamo delle nozioni base sulla liturgia da noi adottata.
Saverio guardò fuori dal finestrino. Le automobili erano ancora incolonnate. Oltre la strada, su un terrapieno coperto di cartelloni pubblicitari, schizzò il regionale verso Roma. Sembrava un serpente luminoso. Davanti a un punto Sma si affollava la gente con i carrelli. La luna, oltre i tetti, assomigliava a un pompelmo maturo e la stella del Nord, quella che conduce i marinai… Era quella la stella del Nord?
Non mi sento molto bene.
Colpa delle pappardelle al sugo di lepre, gli erano rimaste sullo stomaco. Sentiva una pressione fastidiosa sotto la bocca dell’esofago. Spalancò le mascelle come se dovesse sbadigliare ma produsse una specie di rantolo che tappò con una mano.
Kurtz continuava a spiegare: – … Nel primo periodo potresti dividerti le responsabilità con Il Falciatore…
Fa troppo caldo qua dentro… Stava perdendo il filo del discorso, spinse il tasto del finestrino.
– … Su questo punto sei carente, ma quelle te le do io, non preoccuparti e poi…
Un refolo d’aria che sapeva di patatine fritte e kebab del chiosco davanti al centro commerciale entrò nell’abitacolo. L’odore rancido gli diede la nausea. Inarcò la schiena e represse un rutto.
– … Organizzeremo una serie di messe sataniche in zona Castelli Romani, chiaramente sotto il tuo diretto controllo, e poi ci vorrebbe…
Provò a concentrarsi sul monologo di Kurtz, ma aveva la sensazione di avere ingoiato un chilo di trippa avariata. Si slacciò il bottone dei pantaloni e sentì che il ventre si dilatava.
– … Enotrebor, il nostro referente per l’Italia del Sud, sta facendo delle cose notevoli in Basilicata e Molise…
Un’Alka–Seltzer, una Coca- Cola…
– Mantos? Mantos ci sei?
– Cosa?
– Mi senti?
– Sì… Certo…
– Allora ti andrebbe bene un incontro la prossima settimana per buttare giù uno schema di lavoro?
Saverio Moneta avrebbe voluto dirgli di si, che era un onore, che era felice di fare il rappresentante del Centro Italia e Sardegna, eppure… Eppure non gli andava. Gli tornò in mente quando suo padre gli aveva regalato un Malaguti 50. Saverio aveva desiderato per tutti gli anni delle superiori un motorino e suo padre gli aveva promesso che se avesse preso sessanta alla maturità glielo avrebbe regalato. L’ultimo anno Saverio ci aveva dato dentro di brutto e alla fine ce l’aveva fatta. Sessanta. E suo padre era tornato dal lavoro e gli aveva mostrato il suo vecchio e puzzolente Malaguti. «Eccolo. È tuo. Le promesse si mantengono».
Saverio si aspettava un motorino nuovo. «Ma come? Mi dai il tuo?»
«Soldi per un altro non ce ne sono. Questo non ti va bene? Che ha che non va?»
«Niente… Ma come ci andrai in fabbrica?»
Il padre aveva sollevato le spalle. «Con i mezzi. Che problema c’è?»
«Ma ti dovrai svegliare un’ora prima».
«Le promesse sono promesse».
Ma sua madre non si era risparmiata: «Certo con che coraggio lasci tuo padre a piedi?»
Nei mesi successivi Saverio aveva provato a usare il Malaguti, ma ogni volta che ci montava sopra gli appariva l’immagine di suo padre che alle cinque di mattina usciva dalla loro palazzina, intabarrato nel cappotto. Gli saliva su un’ansia terribile e alla fine lo aveva lasciato in cortile e qualcuno se lo era rubato. Cosi si erano trovati a piedi sia lui che il padre.
Non c’entrava niente con tutto questo eppure qualcosa di buono con le Belve lo aveva fatto. E un po’ lo doveva anche a quella banda di sfigati che lo seguivano. Non poteva mollarli.
Kurtz lo voleva fottere. Come lo aveva fottuto suo padre con il motorino. E il vecchio, quando gli aveva detto che gli avrebbe dato un ruolo di responsabilità nell’azienda. Come lo aveva fottuto Serena dicendo che sarebbe stata la sua geisha e che due gemelli, alla fine, è la stessa cosa che averne uno.
Per quello era diventato un satanista. Perché tutti lo ingannavano.
Che razza di regalo è un regalo che ogni volta che lo usi tuo padre è costretto a prendere l’autobus?
Saverio Moneta li odiava tutti. Tutti quanti. L’umanità intera che tirava avanti nell’inganno e nel sopruso dei simili. Nell’odio si era nutrito, si era rifocillato, si era protetto. L’odio gli aveva dato la forza di resistere. E alla fine Saverio ne aveva fatto la sua religione. E di Satana il suo Dio.
E Kurtz era come tutti gli altri. Come cazzo si permette a dire che le Belve di Abaddon sono una realtà insignificante?
– No, – disse.
– No cosa?
– No. Non sono interessato. Grazie, ma rimango a capo delle Belve di Abaddon.
Kurtz era sorpreso. – Sei sicuro di quello che dici? Riflettici bene. Io non ti farò altre offerte.
– Non mi importa. Le Belve di Abaddon saranno pure una realtà insignificante come hai detto te. Ma anche un tumore è solo una cellula all’inizio, poi cresce, si riproduce e ti stronca. Le Belve saranno una realtà con cui tutti dovranno fare i conti. Aspetta e vedrai.
Kurtz scoppiò a ridere. – Sei patetico. Siete finiti.
Saverio si allacciò la cintura di sicurezza. – Può essere, ma come tu mi insegni, non è detto. Non è detto proprio per niente. E poi piuttosto che essere il tuo rappresentante mi faccio prete – . Chiuse la conversazione.
I resti del tramonto si erano dissolti e le tenebre erano calate sulla terra. Il leader delle Belve di Abaddon mise la freccia e riparti sgommando sulla provinciale.

8.

Il vecchio scrittore indiano se ne stava seduto in un angolo della sala con un bicchiere d’acqua tra le mani.

Era arrivato in aereo da Los Angeles quella mattina, dopo due sfibranti settimane di presentazioni negli Stati Uniti, e ora voleva solo tornarsene in albergo e allungarsi sul letto. Avrebbe cercato di dormire, non ci sarebbe riuscito, e alla fine si sarebbe preso un sonnifero. Il sonno naturale aveva abbandonato il suo corpo da tempo. Pensò alla moglie Margaret, a Londra. Avrebbe voluto chiamarla. Dirle che gli mancava. Che sarebbe tornato presto. Guardò dall’altra parte della sala.

Lo scrittore che aveva parlato del fuoco era contornato da un capannello di lettori che volevano il suo nome autografato sulla loro copia. E per ognuno il giovane aveva una parola, un gesto, un sorriso.

Invidiò la sua giovinezza, la sua disinvolta volontà di piacere.
A lui non importava più niente di tutto questo. Di cosa gli importava? Di dormire. Di farsi sei ore di sonno senza sogni. Anche il giro del mondo che lo avevano obbligato a fare dopo il Nobel non aveva alcun senso. Era un pupazzo, sbattuto da una parte all’altra del globo per essere mostrato al pubblico, affidato alla cura di persone che non conosceva, di cui si sarebbe dimenticato appena ripartito. Il libro lo aveva scritto. Un libro che gli era costato dieci anni di vita. Non era sufficiente questo? Non bastava?
Durante la presentazione non era riuscito ad andare oltre i ringraziamenti. Non come lo scrittore italiano. Aveva letto il suo libro in aereo. Un romanzo piccolo e scorrevole. Lo aveva letto per scrupolo, perché non amava essere presentato da scrittori di cui non conosceva l’opera. E gli era piaciuto. Avrebbe voluto dirglielo. E non era gentile rimanersene da una parte.
Appena il vecchio si sollevò dalla sedia tre giornalisti che lo aspettavano al varco gli furono addosso. Sawhney spiegò di essere stanco. Il giorno dopo sarebbe stato felice di rispondere alle loro domande. Ma lo disse così piano, così dolcemente che non riuscì ad allontanare i fastidiosi mosconi. Per fortuna arrivò una signora, una della sua casa editrice italiana, che li scacciò.
– Ora che dobbiamo fare? – domandò alla donna.
– C’è il cocktail. Poi, tra circa un’oretta, andremo a mangiare in un ristorante caratteristico, a Trastevere, famoso per le specialità romane. Le piace la pasta alla carbonara?
Sawhney le mise una mano sul braccio. – Mi farebbe piacere parlare con lo scrittore… – Oddio, come si chiamava? La testa non gli funzionava più.
La donna gli venne in aiuto. – Ciba! Fabrizio Ciba. Certamente. Rimanga qua. Glielo chiamo subito – . E si gettò tacchettando nel capannello.

– Guardate che non dovete chiederlo a me l’autografo, ma a Sawhney. È lui che ha vinto il Nobel, non io – . Fabrizio Ciba cercava di arginare il mare di libri che lo stavano sommergendo. Gli si era indolenzito il polso da quante firme aveva fatto. – Qual è il suo nome? Paternò Antonia? Come? Aspetti un attimo… Ah, le è piaciuto Erri, il padre di Penelope? Le ricorda suo nonno? Anche a me.

Una cicciona tutta accaldata si fece largo sgomitando e gli piazzò davanti un’altra copia della Fossa dei leoni. – Sono venuta da Frosinone apposta per lei. Non ho mai letto i suoi libri. Ma dicono che sono troppo belli. L’ho comprato alla stazione. Lei è tanto bravo… e bello. La guardo sempre alla televisione. Mia figlia è innamorata di lei… E pure io… un po’.

Sulla faccia di Ciba era stampato un sorriso gentile. – Be’ forse dovrebbe leggerli, potrebbero non piacerle.

– Ma che dice, scherza?
Un altro libro. Un’altra firma.
– Come si chiama?
– Aldo. Può scrivere a Massimiliano e Mariapia. I

miei figli, hanno sei e otto anni, lo leggeranno quando saranno più gra…

Li detestava. Erano una massa di ignoranti. Un branco di pecore. Del loro apprezzamento non se ne faceva nulla. Sarebbero accorsi con lo stesso entusiasmo per le memorie familiari del direttore del Tg2, per le confidenze amorose della più insulsa valletta televisiva. Volevano solo avere la propria piccola conversazione con la star, il proprio autografo, il proprio momento con l’idolo. Se avessero potuto gli avrebbero strappato un pezzo del vestito, una ciocca di capelli, un dente, e se lo sarebbero portato a casa come una reliquia.

Non ce la faceva più a essere gentile. A sorridere come uno scemo. A cercare di essere modesto e accondiscendente. Di solito riusciva a mascherare benissimo il fastidio fisico che provava per il contatto umano indiscriminato. Era un maestro della finzione. Quando era il momento, si lanciava nel fango convinto che gli piacesse. Da quei bagni di folla usciva stravolto ma purificato.

Però quella sera un atroce sospetto gli stava avvelenando la vittoria. Il sospetto di non avere il comportamento giusto, il contegno di un vero scrittore. Di uno scrittore serio come Sarwar Sawhney. Durante la presentazione il vecchio non aveva spiccicato parola. Se ne era stato li come un asceta tibetano, con quei suoi occhi d’ebano saggi e distanti, mentre lui faceva il giullare con le stronzate sul fuoco e la cultura. E come al solito gli si affacciò nella mente la domanda su cui poggiava la sua intera carriera. Quanto del mìo successo lo devo ai libri e quanto alla televisione?

Come sempre, preferì non darsi una risposta ma farsi un paio di scotch. Prima però doveva scrollarsi di dosso quello sciame di mosche. Quando vide la povera Maria Letizia farsi spazio a gomitate non potè che gioire.

– Sawhney ti vuole parlare… Appena hai finito potresti andare da lui?
– Subito! Vado subito! – le rispose. E come se fosse stato convocato dal Padreterno in persona si alzò e a tutti i fan che non avevano ancora ricevuto il certificato di partecipazione disse: – Sawhney mi deve parlare. Per favore, fatemi andare.
Al tavolo degli aperitivi si scolò due whisky uno dietro l’altro e si sentì meglio. Ora, con l’alcol in corpo, poteva affrontare il premio Nobel.
Leo Malagò si avvicinò scodinzolando felice come un cane che ha ricevuto un crostino al cinghiale. – Grande! Hai steso tutti con quella storiella del fuoco. Io mi chiedo come ti vengono certe idee. Ora però Fabrizio, per favore, non ti ubriacare. Dobbiamo andare a cena – . Lo prese a braccetto. – Sono andato a controllare al banco dei libri. Sai quanti ne hai venduti stasera?
– Quanti? – Non potè fare a meno di rispondere. Era un riflesso condizionato.
– Novantadue! E sai quanti ne ha venduti Sawhney? Nove! Non sai quanto è incazzato Angiò – . Massimo Angiò era l’editor della narrativa straniera. – Ci godo troppo a vederlo incazzato! E domani sei su tutti i giornali. A proposito, ma che pezzo di figa è la traduttrice? – Il viso di Malagò si rilassò. Gli occhi gli si fecero improvvisamente buoni. – Pensa scoparsela…
Fabrizio invece aveva perso qualsiasi interesse per la ragazza. Il suo umore stava scendendo come un termometro durante un’improvvisa gelata. Che voleva l’indiano da lui? Rimproverarlo per le stronzate che aveva sparato? Si fece forza. – Scusami un attimo.
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari.
Gli si avvicinò con cautela. – Mi scusi…
Il vecchio indiano si girò, lo vide, sorrise mettendo in mostra una dentatura troppo perfetta per essere vera. – La prego, prenda una sedia.
Fabrizio si sentiva come un bambino chiamato dal preside per fargli una ramanzina.
– Come va? – chiese Fabrizio con il suo inglese scolastico sedendoglisi di fronte.
– Bene, grazie – . Poi l’indiano ci ripensò. – In verità, sono un po’ stanco. Non riesco a dormire. Soffro d’insonnia.
– Io no, fortunatamente – . Fabrizio si rese conto che non aveva niente da dirgli.
– Ho letto il suo libro. Un po’ in fretta, in aereo, me ne scuso…
A Fabrizio uscì fuori uno strozzato: – E? – Stava per ascoltare il giudizio del premio Nobel per la letteratura. Dello scrittore più importante al mondo. Quello che aveva avuto la miglior rassegna stampa degli ultimi dieci anni. Una parte del suo cervello si domandò se lo volesse veramente sentire.
Gli ha fatto schifo sicuro.
– Mi è piaciuto. Molto.
Fabrizio Ciba avverti un senso di benessere pervadergli il corpo. Una sensazione simile a quella che provano i tossici quando si iniettano eroina di buona qualità. Una specie di calore benefico che gli fece formicolare la nuca, gli scivolò lungo la mandibola, gli serrò le palpebre, si insinuò tra gengive e denti, scese giù per la trachea, si irradiò bollente e piacevole come Vicks VapoRub dallo sterno alla schiena attraverso le costole e gli saltellò da una vertebra all’altra fino al bacino. Lo sfintere ebbe un palpito e contemporaneamente gli si rizzarono i peli delle braccia. Era come fare una doccia calda senza bagnarsi. Meglio. Un massaggio senza essere palpato. Durante questa reazione fisiologica che durò all’incirca cinque secondi Fabrizio fu cieco e sordo e quando finalmente tornò alla realtà Sawhney stava parlando,
– … luoghi, fatti e persone sono all’oscuro della forza che li cancella. Non crede?
– Sì, certamente, – rispose. Non aveva sentito nulla. – Grazie. Sono felice.
– Lei sa come interessare il lettore, come muovere le corde migliori della sua sensibilità. Mi piacerebbe leggere qualcosa di più lungo.
– La fossa dei leoni è il libro più lungo che ho scritto. Da poco… – in realtà erano quasi cinque anni, – … ho scritto un altro romanzo, Il sogno di Nestore, ma anche quello è abbastanza breve.
– Come mai non si avventura oltre? Ha certamente i mezzi espressivi per farlo. Non abbia timore. Si lasci andare senza paura. Se posso darle un consiglio, non si freni, si faccia afferrare dalla narrazione.
Fabrizio si trattenne dall’abbracciare quel caro adorabile vecchietto. Quanto era vero e giusto quello che stava dicendo. Sapeva di essere in grado di

scrivere IL GRANDE ROMANZO. Anzi, IL GRANDE ROMANZO

ITALIANO , tipo I promessi sposi per intenderci, quello che per i critici mancava alla nostra letteratura contemporanea. Dopo diversi tentativi, da qualche tempo stava lavorando alla saga di una famiglia sarda, dal milleseicento a oggi. Un progetto ambizioso ma che aveva decisamente più forza del Gattopardo o dei Viceré.

Stava per dirglielo, ma un po’ di pudore lo trattenne. Si sentì in dovere di rispondere ai complimenti. Cominciò a creare: – Vorrei comunque dirle che il suo libro mi ha letteralmente entusiasmato. È un romanzo straordinariamente organico e la trama è così intensa… Come fa? Qual è il suo segreto? C’è un’energia drammatica che mi ha lasciato scosso per settimane. Il lettore non solo è chiamato a valutare la consapevolezza e l’innocenza di queste potenti figure femminili ma attraverso le loro vicende, come dire… Sì, il lettore è obbligato a trasferire il suo sguardo dalle pagine del libro alla propria realtà.

– Grazie, – disse l’indiano. – Che bello farsi i complimenti a vicenda.
I due scrittori scoppiarono a ridere.

9.

Il leader delle Belve di Abaddon era seduto al tavolo del tinello e si stava finendo un piatto di lasagne che galleggiavano in un lago di besciamella riscaldata. Aveva la nausea, ma doveva fingere di non aver cenato.

Serena seduta con le gambe poggiate sulla lavapiatti si stava smaltando le unghie. Come sempre non l’aveva aspettato per mangiare. La televisione sul piano di formica della cucina trasmetteva Chi vuol essere milionario?, il programma preferito di Saverio dopo Misteri in onda su Rai Tre. Ma la mente del leader delle Belve era distante. Continuava a ripensare alla telefonata con Kurtz Minetti.

Che grande che sono. Si pulì la bocca con il tovagliolo. Come gli ho detto? No. Non sono interessato. Quale satanista in circolazione aveva il fegato di rifiutare l’invito a diventare il referente per l’Italia centrale dei Figli dell’Apocalisse? Gli venne voglia di telefonare a Murder e raccontargli come aveva mandato a cagare Kurtz, ma Serena poteva sentirlo e poi non voleva fargli sapere cosa pensava quella merda di Kurtz delle Belve di Abaddon, ci sarebbe rimasto male.

Era sorpreso da come gli era uscito potente e senza esitazioni quel no. Non potè fare a meno di pronunciarlo di nuovo: – No!

– No cosa? – gli domandò Serena senza alzare lo sguardo dalle unghie delle mani che si stava spennellando con lo smalto rosso.
– Niente, niente. Stavo pensando… – Saverio ebbe l’impulso di raccontare tutto a sua moglie, ma si trattenne. Se quella scopriva che era il capo di una setta satanica, come minimo chiedeva il divorzio.

Però quel no poteva essere l’inizio di una svolta esistenziale. Era un no che inevitabilmente avrebbe messo in moto una valanga di no che era tempo di pronunciare. No ai weekend di lavoro. No al lavoro di badante. No a portare sempre lui la pattumiera fuori.

– C’è il resto del tacchino di ieri. Scaldatelo nel microonde – . Serena si era alzata in piedi e sventolava le mani.
– No – . Gli venne naturale rispondere.

Serena sbadigliò. – Io me ne vado a letto. Quando hai finito sparecchia, porta giù la pattumiera e chiudi le luci.

Saverio la osservò. Aveva dei pantaloncini di jeans elasticizzati ricoperti di strass, gli stivali da cowboy di vernice bianca e una maglietta nera con sopra una enorme V di Valentino.

Nemmeno le ragazzine davanti ai centri commerciali si conciano così.

Serena Mastrodomenico aveva quarantatre anni e tutto il sole che aveva preso in vita sua l’aveva disidratata come un pomodoro essiccato. Era magrissima, nonostante avesse partorito un paio di gemelli nemmeno un anno prima. Da lontano faceva la sua bella figura, con quel fisico snello, le tette a palloncino e quel colorito caffè e latte. Ma se ti avvicinavi e la osservavi bene, scoprivi che il derma era lasso e coriaceo come quello di un rinoceronte e un groviglio di sottili rughe le attraversava il collo, i contorni della bocca e il décolleté. Gli occhi verdi, brillanti e vivi si poggiavano sugli zigomi lucidi e tondi come due mele annurche.

Spesso indossava scarpe aperte che mettevano in mostra le caviglie affusolate e i piedini graziosi. Portava abitini leggeri da cui spuntavano i pizzi del reggiseno di un paio di taglie più piccolo e i due emisferi sintetici. Si copriva di gioielli etnici neanche fosse una principessa berbera il giorno dell’incoronazione.

Nei lunghi anni di matrimonio Saverio aveva notato che la sua signora riscuoteva parecchio successo con gli uomini, soprattutto quelli giovani. Ogni volta che andava al magazzino del mobilificio gli spedizionieri, un branco di arrapati, lo mettevano in mezzo. Non avevano rispetto nemmeno della figlia del padrone.

«Che spettacolo deve essere tua moglie a letto. Altro che le ragazzine, quella ha un’esperienza. Ti apre come un divano letto», «Dài facci un video porno», «Save’, ma come fai a soddisfarla? Quella, secondo me, ha bisogno di una squadra di maschioni…» «È il classico tipo che fa la raffinata ma in realtà è una porca esagerata…» E altre volgarità che è meglio non riferire.
Se quei deficienti avessero saputo la verità. Serena detestava il sesso. Diceva che era burino. Aborriva ogni forma di nudità, trovava repellenti i fluidi corporei e tutto quello che aveva a che fare con i rapporti fisici (tranne i massaggi, praticati però esclusivamente da donne).

Eppure qualcosa a Saverio Moneta non tornava. Se il sesso le faceva così schifo perché usciva acchittata come una playmate? E perché tra tutti i posti del parcheggio lasciava il Suv proprio davanti al magazzino?

Saverio si alzò da tavola e cominciò a sparecchiare. Non aveva voglia di andare a letto, era troppo contento. Per fortuna i gemelli dormivano. Era il momento giusto per concentrarsi sull’idea che avrebbe scosso le Belve di Abaddon e il resto del mondo. Prese un bloc–notes e una penna, afferrò il telecomando per spegnere, quando sentì Gerry Scotti dire: – Incredibile! Il nostro simpatico Francesco di Sabaudia è arrivato zitto zitto alla domanda da un milione di euro…

Il concorrente era un ometto nervoso con un ghigno stirato sulla bocca. Sembrava fosse seduto su un porcospino. Gerry, invece, aveva l’espressione soddisfatta di un soriano che si è pappato una scatoletta di tonno. Ci mancava poco che cominciasse a farsi le unghie sulla poltrona. – Allora caro Francesco sei pronto?

L’ometto deglutì e si aggiustò il collo della giacca. – Abbastanza…
Gerry allargò il toracione e si rivolse al pubblico, divertito. – Abbastanza? Avete sentito? – Poi, improvvisamente serio, parlò ai telespettatori. – Chi di voi al suo posto non sarebbe nervoso? Mettetevi nei suoi panni. Un milione di euro può cambiarti la vita – . Tornò a parlare a Francesco. – Avevi detto che il tuo sogno era pagare il mutuo della casa. E adesso? Se dovessi vincere, oltre al mutuo, che faresti?
– Be’ comprerei una macchina a mia madre e poi… –Il concorrente stava soffocando. Boccheggiò e riuscì a rispondere. – Vorrei fare una donazione all’istituto San Bartolomeo di Gallarate.
Gerry lo squadrò dall’alto. – E di che si occupa, se mi permetti?
– Di aiutare i senza tetto.
– Be’, complimenti – . Il presentatore incitò il pubblico a battere le mani e il pubblico gli restituì un fragoroso applauso. – Sei un filantropo. Non è che poi ti vediamo sfrecciare su una Ferrari? No. Si capisce che sei un brav’uomo.
Saverio scosse la testa. Se avesse vinto lui quella somma, ci avrebbe comprato un castello medievale nelle Marche e ne avrebbe fatto la base operativa delle Belve.
– Ma ora veniamo alla domanda. Pronto? – Gerry si strinse il nodo della cravatta, si schiari la voce e, mentre sullo schermo apparivano la domanda e le quattro risposte, recitò:

Chi era Abaddon?

 

A) Un pastore anglicano del XVIII secolo B) Un demone citato nell’Apocalisse
C) Una divinità assira D) Una festa religiosa Maya
Saverio Moneta per poco non cadde dalla sedia.

10.

Dopo l’iniezione rivitalizzante all’ego, l’umore di Fabrizio Ciba era a livelli stratosferici. Aveva scritto un romanzo importante e ne avrebbe scritto uno ancora più importante. Non c’era più alcun motivo di interrogarsi sulle ragioni del suo successo. E quindi, quando vide Alice Tyler parlare con il direttore delle vendite della Martinelli, decise che era arrivato il momento di intervenire. Si finì il whisky, si scompigliò i capelli e disse allo scrittore indiano: – Scusi un attimo, vado a salutare una persona – . E parti all’attacco.

– Eccomi qua, salve, sono Fabrizio Ciba – . Si intromise tra i due, poi a Modica: – E siccome siete delle sanguisughe e non mi pagate mai una lira per le vostre presentazioni, posso fare tutto quello che mi pare e quindi mi prendo la traduttrice più brava e affascinante del mondo e la porto a bere una coppa di Champagne.

Il direttore delle vendite era un tipo grassoccio e di un pallore sclerotico e l’unica cosa che riuscì a fare fu gonfiarsi come un pesce palla.

– Non ti dispiace vero, Modica? – Fabrizio afferrò la traduttrice per un polso e la trascinò con sé verso il tavolo dei rinfreschi. – È l’unico sistema per liberarsi di lui, parlargli di soldi. Ti volevo fare i complimenti, hai fatto un ottimo lavoro con il libro di Sawhney, ho controllato la traduzione parola per parola…
– Non prendermi in giro, – ridacchiò lei divertita.
– È vero, giuro! Giuro sulla testa di Pennacchini! Ho controllato tutte le ottocento pagine e niente, tutto perfetto – . Si mise una mano sul cuore. – Solo un appunto… ecco, a pagina seicentoquindici hai tradotto creel come cesto per la pesca e non come nassa… – Fabrizio provava a guardarla in faccia, ma non poteva staccarle gli occhi dalle tette. E quella camicetta striminzita non lo aiutava. – Scusa ma le traduttrici non dovrebbero essere racchie e vestite male?

Pattinava sul ghiaccio. Era tornato ad essere Ciba il conquistatore, quello delle migliori occasioni. – Allora, quando ci sposiamo? Io scrivo i libri e tu li traduci, anzi il contrario, tu scrivi i libri e io li traduco. Chi ci ammazza? – Le versò una coppa di Champagne. Lui invece si versò un altro whisky. – Sì, dovremmo proprio farlo…

– Cosa?
– Sposarci, no? – Fu costretto a ripetere. Ebbe la vaga sensazione che la ragazza non rispondesse esattamente alle sue avance. Non era la classica italiana buzzicona e forse avrebbe dovuto usare una strategia più soft. – Ho un’idea. Perché non scappiamo? Ho la mia vespa qui fuori. Pensa che bello, qui tutti che si annoiano da morire, che parlano di letteratura e noi invece che giriamo per Roma e ci divertiamo come pazzi. Che ne dici?

La guardò con gli occhi di un bambino che ha appena domandato un pezzo di torta alla mamma.
– Ma tu sei sempre così? – Alice si passò una mano nei capelli e schiuse le labbra sui denti bianchissimi.
Fabrizio fece le fusa. – Così come?
– Be’ così… – Lei rimase un istante in silenzio, cercando la parola, poi sospirò: – Scemo!
Scemo? Come scemo? – È la parte infantile del genio, – buttò lì.
– No, non possiamo andarcene. Non ti ricordi? Abbiamo la cena. E Sawhney…
– La cena, me n’ero dimenticato. Giusto, – menti. Aveva esagerato chiedendole di scappare e ora cercava di arginare il rifiuto.
Lei lo afferrò per un polso. – Vieni con me.
Quando passò accanto al tavolo, Ciba prese al volo una bottiglia di whisky.
Dove lo stava portando?
Poi vide la porta del giardino.

11.

Era evidente che Satana aveva usato Gerry Scotti per comunicare con lui. Com’era possibile che tra tutte le infinite domande che esistono nell’universo gli autori del programma avessero scelto proprio una su Abaddon? Era un segno. Di cosa, Saverio non aveva la più pallida idea. Ma era senza dubbio un segno del Male.

Il tipo di Sabaudia aveva toppato. Aveva risposto che Abaddon era un pastore anglicano del diciottesimo secolo e se ne era tornato a casa a pagarsi il mutuo.

Ben ti sta. Così impari a non sapere chi è Abaddon, il distruttore.
Saverio prese da un cassetto una confezione di Alka-Seltzer, sciolse una compressa in un bicchiere e ripensò alla giornata trascorsa. Le ultime dodici ore avevano qualcosa di prodigioso. Tutto era cominciato con la sua decisione improvvisa di fare il grande salto con le Belve. Poi il rifiuto a Kurtz Minetti. Ora pure il domandone. Doveva cercare altri segni della presenza del Maligno nella sua vita.
Che giorno era? Il 28 aprile. A cosa corrispondeva il 28 aprile nel calendario satanico?
Andò in soggiorno a prendere la borsa del portatile. La camera era arredata con la collezione etnica Zanzibar. Mobili squadrati fatti di un legno nero e oleoso intarsiato con losanghe di pelle di zebra. Emanavano un curioso odore speziato che alla lunga faceva venire mal di testa. Lo schermo al plasma Pioneer era disposto sotto un enorme mosaico che Serena aveva composto con gusci di vongole, cozze e pietre colorate raccolte all’Argentario. Avrebbe dovuto raffigurare una sirena seduta su uno scoglio che suonava i lunghi capelli come fossero corde di un’arpa.
Saverio si collegò a internet e cercò su Google: calendario satanista. Scopri che il 28 aprile non corrispondeva a nulla. Però il 30 aprile era la Notte di Valpurga. Quando c’è il grande raduno delle streghe in cima al monte Brocken.
Si alzò perplesso. Per come erano andate le cose era sicuro che il 28 aprile era un giorno satanico.
Anche se in verità il28non è lontano dal30, la Notte di Valpurga.
Si avvicinò allo scatolone accanto alla porta d’ingresso. Tagliò il nastro adesivo e lo scoperchiò. Poi come un antico paladino si inginocchiò sul tesoro, infilò le mani tra i trucioli di polistirolo ed estrasse la Durlindana. La sollevò tenendola con entrambe la mani. La lama in acciaio temperato, l’elsa in ferro forgiato e l’impugnatura ricoperta di pelle. Era stato a lungo indeciso se comprare una katana giapponese, ma aveva fatto bene a scegliere un’arma che apparteneva alla nostra tradizione culturale. Era bella da togliere il fiato.
Uscì sul terrazzino, la mise davanti al disco della luna e come Orlando a Roncisvalle cominciò a rotearla. Avrebbe volentieri sfidato Kurtz Minetti in duello. Nella sua sede di Pavia.
Io con la Durlindana e lui con l’ascia bipenne.
S’immaginò di schivare un colpo e di girarsi e con un fendente preciso decapitare il sommo sacerdote. Poi avrebbe solo detto: «Venite a me! Sarete Belve». E tutti i Figli dell’Apocalisse si sarebbero inchinati al suo cospetto. Quella si sarebbe stata una bella azione. Solo che Kurtz Minetti, nonostante fosse alto un cazzo e un barattolo, era un discepolo di Sante Lucci, un maestro shaolin triestino.
Saverio con una piroetta distrusse lo stendino per i panni. Il pensiero che quel gioiello sarebbe finito sul caminetto del suocero a Roccaraso lo faceva stare male.
Il telefono cominciò a suonare. Lo squillo si azzitti. Serena aveva risposto. Poco dopo la sentì urlare:
– Saverio è per te. Tuo cugino. Digli che la prossima volta che chiama a quest’ora gli faccio ingoiare i denti.
Il leader delle Belve tornò in soggiorno e rimise la spada nella scatola, prese il cordless e rispose sbrigativo: – Antonio? Dimmi.
– Ahò, cugino. Come stai?
– Non c’è male. È successo qualcosa?
– No, niente. Anzi si. Ho bisogno del tuo aiuto.
Ci si metteva pure questo. Ma a nessuno sfiorava l’idea che anche Saverio Moneta aveva un po’ di cavoli suoi da risolvere? – No guarda… Sono incasinatissimo… Mi dispiace.
– Aspetta. Tu non devi fare niente. Lo so che sei impegnato. Però ogni tanto ti ho visto bazzicare dei ragazzetti…

Mi ha visto insieme alle Belve. Devo stare più attento.
– Sono nella merda, quattro polacchi mi hanno dato buca all’ultimo momento. Sto cercando un rimpiazzo. Devono portare casse di vino, mettere i tavoli nel giardino, sparecchiare. Cose così. Uomini di fatica ma bravi però. Anche senza grande esperienza, basta che abbiano voglia di lavorare e che righino dritto.
Antonio Zauli era il capocameriere di Food for

Fun, una società di catering della capitale che, grazie alla supervisione di Zóltan Patrovič, l’imprevedibile chef bulgaro proprietario del famosissimo ristorante Le regioni, era diventata la numero uno a Roma nell’organizzazione di banchetti e buffet.

Saverio non ascoltava. E se decapitassi padre Tonino con un colpo di Durlindana? Ha pure il Parkinson, gli faccio un favore. Domani, dopo il pediatra, porto la spada dall’arrotino… no, così copio un po’ Kurtz Minetti.

– Saverio? Ci sei?
– Sì… Scusa… Non si può fare, – buttò li.
– Non si può fare, un cazzo. Tu non mi hai neanche ascoltato. Tu non hai capito. Io sono disperato. Mi gioco il culo con questa festa. Sono sei mesi che ci sto lavorando, Save’ – . Abbassò la voce. – Giurami che non lo dici a nessuno.
– Cosa?
– Tu giuralo.

Saverio guardò in alto e si accorse di quanto fosse orrendo il lampadario etnico. – Te lo giuro.
Antonio con un tono da cospiratore sussurrò: – A ’sta festa ci vengono tutti. Dimmi un vip. Uno qualsiasi. Dài. Il primo che ti viene in testa.
Saverio ci pensò un attimo. – Il papa.
– Si vabbe’! Un vip, ho detto. Cantanti, attori, calciatori…
Saverio sbuffò. – Ma che ne so io? Ma che vuoi da me? Che ti devo dire? Paco Jiménez de la Frontera?
– Il centroavanti della Roma. Bingo!
Ecco, se al mondo esisteva una parola che Saverio Moneta odiava era «bingo». Lui, come tutti i satanisti seri, detestava la cultura di massa, lo slang, Halloween e l’americanizzazione della lingua. Fosse stato per lui, avrebbero dovuto tutti parlare ancora il latino.
– Dimmene un altro?
Saverio non resse. – Non lo so! E non me ne frega niente! Ho tante cose da pensare, io.
Antonio tirò su un tono offeso. – Ma che hai? Sai che sei strano? Io offro a te e ai tuoi amici l’opportunità di guadagnare, di partecipare alla festa più esclusiva degli ultimi anni, di stare vicino ai personaggi più famosi e te mi mandi affanculo?
Saverio aveva voglia di strappare la carotide di suo cugino e farsi un bagno nel suo plasma ma si sedette sul divano e cercò di tranquillizzarlo. – No Anto’ scusami, veramente, non ce l’ho con te. È che sono stanco. Sai, i gemelli, mio suocero, è un periodo tosto…
– Sì ti capisco. Però se ti viene in testa qualcuno fammi uno squillo. Per domattina devo rimediare quattro ragazzi. Pensaci, dài. Digli che la paga è ottima e durante la festa c’è pure il concerto di Larita e i fuochi d’artificio.
Il leader delle Belve drizzò le antenne. – Che hai detto? Larita? Larita la cantante? Quella che ha fatto Live in Saint Peter e Unplugged in Lourdes? Quella della canzone King Karol?
Elsa Martelli, in arte Larita, era stata per qualche anno la cantante dei Lord of Flies, un gruppo death metal di Chieti Scalo. Le loro canzoni erano inni al Maligno ed erano molto apprezzate dalla comunità satanica italiana. Poi improvvisamente Larita aveva lasciato il gruppo e si era convertita alla religione cristiana, facendosi battezzare dal papa, e aveva intrapreso la carriera solistica come cantante pop. I suoi dischi erano un miscuglio insulso di new age, amori adolescenziali e buoni sentimenti, e per questo ottenevano un enorme successo in tutto il mondo. Ma era detestata da tutti i satanisti.
– Sì. Mi pare di si. Larita… quella che canta L’amore intorno – . Antonio non era un esperto di musica pop.
Saverio si accorse che l’aria aveva un buon odore, di terra e di erba delle aiuole appena tagliata. La luna era scomparsa ed era tutto buio. Le finestre vibravano e il ficus si agitava scosso da un refolo di vento improvviso. Cominciò a piovere. Gocce grosse e pesanti macchiarono le mattonelle del terrazzino e un fulmine, come una crepa, squarciò le tenebre e per un istante il cielo fu riportato a giorno con un’esplosione che fece tremare la terra, urlare gli antifurti e abbaiare i cani.
Saverio Moneta, seduto sul divano, vide un’armata di nuvoloni neri e contorti che avanzavano verso Oriolo Romano. Uno, più grande di tutti, proprio di fronte a lui si piegò e si allungò da un lato trasformandosi in una specie di volto. Occhi neri e una bocca spalancata. Immediatamente dopo tornarono le tenebre.
– Madonna del Carmine! – gli uscì senza volere. Corse a chiudere la vetrata, la pioggia stava bagnando tutto il parquet. – D’accordo! – ansimò nella cornetta.
– D’accordo, cosa?
– Ho i tre – . Poi si batté la mano sul petto. – E il quarto sono io.

12.

Fabrizio Ciba e Alice Tyler erano seduti composti su una panchina di marmo di fronte a una fontana ovale. A destra un boschetto di bambù illuminato da un faro alogeno. A sinistra un cespuglio di ortensie. Tra loro c’erano venti centimetri. Era buio e faceva freddo. Le luci della villa alle loro spalle si riflettevano sulla superficie dell’acqua e sulle splendide gambe di Alice.

Fabrizio Ciba prese un sorso di alcol dalla bottiglia e la passò alla ragazza, che ci si attaccò. Doveva darsi da fare rapidamente. In quel gelo rischiavano una paresi. Che fare? Saltarle addosso subito? Non lo so… Sai come sono ’ste intellettuali anglosassoni.

Il dominatore delle classifiche, il terzo uomo più sexy d’Italia secondo il settimanale femminile «Yes» (dopo un pilota di motociclette e un attore di sit–com mesciato) non poteva assolutamente accettare un rifiuto. L’avrebbe costretto, probabilmente, ad anni di psicoanalisi.

Il silenzio cominciava a diventare inquietante. Sparò li: – Hai tradotto pure i libri di Irvin Parker, vero? – Mentre lo diceva si rese conto che era la cosa peggiore da dire per un approccio rapido.

– Sì. Tutti tranne il primo.
– Ah… Lo hai conosciuto?
– Chi?
– Parker.
– Sì.
– E com’è?
– Simpatico.
– Veramente?
– Molto.

No! Non funzionava. E per di più la sentiva distratta. I venti centimetri che li separavano sembravano venti metri. Era meglio rientrare e lasciare perdere. – Senti for…

Alice lo guardò. – Ti devo dire una cosa – . Le brillavano gli occhi. – Una cosa uh po’ imbarazzante… – Prese fiato come se dovesse liberarsi di un segreto. – Quando ho finito di leggere La fossa dei leoni mi sono commossa… Sono stata male, pensa che quella sera dovevo uscire ma sono rimasta a casa, ero troppo scossa. E il giorno dopo l’ho riletto di nuovo e l’ho trovato ancora più bello. Non so che dire, è stata un’esperienza unica… Ho trovato tante analogie con la mia vita.

Ciba era attraversato da ondate di piacere, da cavalloni di endorfine che scendevano dal capo verso il basso, turbinandogli nelle vene come petrolio in un oleodotto. Solo che questa volta, al contrario che con Sawhney, il piacere gli si incanalò nell’uretere, nell’epididimo, nelle arterie femorali e gli esplose all’interno dell’organo riproduttore, che si riempi di sangue provocandogli una feroce erezione. Fabrizio l’afferrò per i polsi e le infilò la lingua in bocca. E lei, che stava per confessare di avergli scritto una lunga lettera, se la ritrovò tra le tonsille. Emise una serie di vocali: – Ei iaío! – che significavano: «Sei impazzito!» Per istinto cercò di liberarsi dalla gastroscopia, ma non riuscendoci si diede per spacciata e gli mise una mano tra i capelli e premette più forte le labbra sulle labbra e cominciò a mulinellare la lingua piccola e carnosa.

Fabrizio, sentendola vinta, le cinse la schiena con le braccia e premette il petto contro quello di lei sentendone la soda consistenza. Lei sollevò una delle due meravigliose gambe. Lui le spinse contro l’erezione. Lei allora sollevò l’altra meravigliosa gamba. E lui le mise una mano tra le cosce.

Federico Gianni, l’amministratore delegato della Martinelli, e il suo fido scudiero Achille Pennacchini erano appoggiati alla balaustra del grande terrazzo che dominava il giardino e Roma.

Gianni era uno spilungone tutto azzimato nei suoi svolazzanti completi di Caraceni. Da giovane aveva giocato a pallacanestro fino ad arrivare in serie A2 ma a venticinque anni aveva abbandonato lo sport per prendere in mano la gestione di un’industria di scarpe da ginnastica. Poi, attraverso chissà quali strade e contatti, era giunto all’editoria, prima in una piccola casa editrice milanese e infine approdando alla Martinelli. Di letteratura non capiva un accidente. Trattava i libri come scarpe e andava fiero del suo modo di pensare.

Tutto il contrario di Pennacchini, che Gianni aveva tirato fuori dall’Università di Urbino, dove insegnava Letteratura comparata, e messo a dirigere la casa editrice. Era un accademico, un uomo di lettere e tutto in lui lo dimostrava: gli occhiali tondi di tartaruga davanti a due occhi blu rovinati dai libri, la giacchetta a scacchi ciancicata, la camicia di cotone grosso con i bottoni sul colletto, le cravatte di lana e i pantaloni di cotone a righe. Parlava poco. Sempre a bassa voce. E tentennava. Non si riusciva mai a capire quello che pensava davvero.

– E anche questa è fatta – . Gianni si stiracchiò. –

Mi sembra che sia andata bene.
– Molto bene, – fece eco Pennacchini.
Roma sembrava un’enorme coperta sporca tempestata di luci.

– È grande questa città, – rifletté Gianni di fronte a quello spettacolo.
– Molto grande. Va dai Castelli fino a Fiumicino. È veramente immensa.
– Quanto sarà di diametro?
– Mah, non lo so… Almeno un’ottantina di chilometri… – buttò là Pennacchini.
Gianni diede un’occhiata all’orologio. – Tra quanto andiamo al ristorante?
– Tra una ventina di minuti al massimo.
– Il buffet faceva schifo. Ho mangiato due tramezzini al salmone tutti secchi. Ho fame – . Fece una pausa. – E devo pure pisciare.
Pennacchini all’ultima affermazione del suo capo dondolò la testa in avanti e indietro come un piccione.
– Io, quasi quasi, la faccio nel giardino. All’aria aperta. Non c’è niente di meglio che pisciare davanti a ’sto spettacolo. Guarda laggiù, sembra che ci sia un temporale – . Gianni si sporse dalla terrazza e guardò nella vegetazione scura. – Mi controlli che nessuno mi veda? Anzi se qualcuno viene da questa parte fermalo.
– E che gli dico? – mormorò incerto il direttore.
– A chi?
– A chi dovesse venire da questa parte.
Gianni ci pensò un attimo sopra. – E che ne so… Intrattienilo, bloccalo.
L’amministratore delegato scese gli scalini che portavano nel giardino abbassandosi la lampo dei pantaloni. Pennacchini si piazzò, come una guardia svizzera, all’inizio delle scale.
Larita.
Era lei la prescelta. Avrebbero sacrificato la cantante di Chieti Scalo al Signore del Male. Durante la festa Mantos l’avrebbe decapitata con la Durlindana.
– Altro che suore… Kurtz ti faccio vedere io, – sghignazzò Saverio prendendo a saltare per il soggiorno.
Cosa sarebbe successo a livello planetario quando si fosse saputo che la cantante che aveva venduto dieci milioni di copie tra Europa e America Latina e aveva cantato per il papa il giorno di Natale era stata decapitata dalle Belve di Abaddon? La notizia sarebbe apparsa sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Al livello di John Lennon e di Janis Joplin…
Saverio ebbe un dubbio. Ma Janis Joplin era stata assassinata?
Ma chi se ne frega. Quello che gli fregava in quel momento era che con una mossa del genere sarebbe stato ricordato per sempre. A lui sarebbero stati dedicati siti internet, forum e blog. La sua faccia sarebbe stata stampata sulle magliette di migliaia di ragazzini. E gruppi di satanisti per generazioni e generazioni si sarebbero ispirati alla figura di Mantos e sarebbero rimasti affascinati dalla sua personalità carismatica e psicotica, al pari di Charles Manson.
Saverio afferrò l’iPod di Serena dalla credenza accanto alla porta di casa. Era certo che sua moglie avesse qualcosa della cantante tra gli mp3. E infatti c’era. Spinse play. L’artista cominciò a cantare con la sua voce melodiosa e ricca di ottave la storia d’amore tra due adolescenti.
Che schifo!
Quella schifosa aveva unito le cose che odiava di più sulla terra: l’amore e i ragazzini.
Dall’armadietto dei liquori tirò fuori una bottiglia di Jägermeister e ci si attaccò.
Era amarissimo.
Sulla panchina di marmo non si stava comodi. Fabrizio Ciba e Alice Tyler erano aggrovigliati uno con l’altra mentre sbuffi di maestrale cominciavano a scuotere il boschetto di bambù. Lo scrittore aveva una mano poggiata sul muretto di calcestruzzo e l’altra su una tetta della traduttrice. La traduttrice invece ne aveva una incastrata dietro la schiena e l’altra infilata dentro i pantaloni dello scrittore. La cintura le bloccava, come un laccio emostatico, l’afflusso di sangue alla mano e quindi l’unica cosa che poteva fare con le dita intorpidite era stringergli l’uccello. Fabrizio le ansimava in un orecchio cercando di liberarle la tetta dalla costrizione del reggiseno ma non riuscendoci decise che le avrebbe esplorato le parti intime.
Non si accorsero dell’amministratore delegato che a una decina di metri stava pisciando fino a quando non lo sentirono sospirare. – Ahh!! Ci voleva proprio. Che liberazione!
I due si immobilizzarono come sogliole e se avessero potuto, come la Solea solea, avrebbero cambiato colore mimetizzandosi con l’ambiente circostante. Fabrizio le sussurrò in un orecchio: – Zitta, c’è qualcuno… Zitta, ti prego. Non respirare – . Si pietrificarono, come due calchi pompeiani. Tutti e due con le mani sui genitali dell’altro.
Un’altra voce. Più lontana. – È stato bravo Ciba stasera.
Ma quanti sono?
La voce più vicina rispose: – Sì, bisogna dire che in queste cose il nostro Ciba è il migliore di tutti!
– È Gianni! L’amministratore delegato! – spiegò ad Alice lo scrittore, con un filo di voce.
– Dio mio, dio mio, dio mio, – invocò lei. – E se ci vedono?
– Zitta. Non parlare – . Fabrizio sollevò la testa. La sagoma di Gianni si allungava dietro il cespuglio di ortensie. Ciba si riabbassò. – Sta pisciando! Non ci può vedere. Adesso se ne va.
Ma l’amministratore delegato, che soffriva di prostata, rimase a scrollarsi l’affare aspettando scariche successive. – Non male la storia del fuoco! Una cazzata, ma efficace, niente da dire. Dobbiamo chiamarlo più spesso a fare queste cose, è magnetico.
Fabrizio sorrise soddisfatto e guardò Alice, che sbuffò divertita. Cosa poteva volere di più? Pomiciava con una specie di modella meticcia e intellettuale, e contemporaneamente riceveva le lodi sperticate dal re della sua casa editrice.
Le toccò il clitoride. Lei rabbrividì e gli alitò nell’orecchio. – Piano… pianooo… Se no mi metto a urlareeehhh…
Il cazzo gli si era trasformato in un blocchetto di cemento armato.
– Ma parlando di cose serie… A che punto è Ciba col nuovo romanzo?
– Non riesco a capire… Per quel poco che ho letto… –Pennacchini rimase senza parole. Spesso gli succedeva di bloccarsi, come se gli avessero tolto la corrente.
– Cosa, Pennacchini? Che hai letto?
– Mi pare, ecco, assai sfocato… Più… Come dire… Dei tentativi maldestri che una vera e propria narrazione…
Fabrizio, che intanto si dava da fare a slacciare la cinta, si bloccò.
– Una cagata, ho capito. Come l’ultimo, là… Il sogno di Nestore. Non sono per niente soddisfatto… E va pure così così. Da uno che aveva venduto un milione e mezzo di copie mi aspettavo, francamente, qualcosa di più. Con tutta la pubblicità che gli abbiamo comprato. Hai visto le rese semestrali? Se non ci fosse La fossa dei leoni…
Alice con un colpo da maestra gli liberò finalmente l’erezione e cominciò a masturbarlo.
– … Bisogna che discutiamo del contratto per il prossimo libro. La sua agente è fuori di testa. Ha chiesto una cifra assurda. Prima di firmare ci dobbiamo pensare bene. Non possiamo essere strozzati da uno che vende in fondo come Adele Raffo, che becca esattamente la metà di lui.
Ciba credette di svenire. Quel figlio di puttana lo stava paragonando a una suora obesa che scriveva ricette di cucina! E che cos’era questa storia di ridiscutere il contratto? Ed era pure un gran falsone. Gli aveva detto che Il sogno di Nestore era un libro necessario, il romanzo della sua maturità.
Alice, intanto, tutta presa, non ascoltava, continuava a massaggiarglielo con un preciso movimento antiorario del polso ma, con sua enorme sorpresa, l’operazione non dava i suoi frutti, anzi. Le si stava letteralmente avvizzendo in mano. Lo guardò imbarazzata. Lo scrittore era atterrito. – Che succede? Sta venendo qua?
– Per favore… Un attimo. Stai zitta un attimo. Alice sentì una nota stonata nella voce di Fabrizio, mollò la flaccida appendice e si mise in ascolto.
– … Tanto non scappa! Dove va? Nessuna casa editrice è disposta a dargli quanto gli diamo noi. Ma neanche la metà. Chi si crede di essere? Grisham? E tra l’altro ho saputo che la sua trasmissione non è stata ancora confermata per l’anno prossimo. Se la chiudono, Ciba cola a picco. Dobbiamo fargli abbassare la cresta. Anzi, la prossima settimana, Achille, voglio fare una riunione con Modica e Malagò e così vediamo come agire… Quello un altro libro mica lo scrive. È bollito – . Un istante di silenzio. – Ahh!! Ho finito. Era dall’aereo che la tenevo – . Poi rumore di passi sulla ghiaia.
Ciba rimase sospeso a mezz’aria, incapace di reagire, poi ricadde giù, nel fango del pianeta terra, o meglio, sulla donna nella cui vagina teneva immerso il dito medio. Una donna, tra l’altro, appena conosciuta. E che lavorava nel suo stesso campo. Un’estranea. Una potenziale spia.
Si sollevò con la faccia congestionata e due occhi da psicopatico.
Lei si coprì il seno con la camicetta e fece una smorfia indefinibile.
Compassione! Prova compassione per me!, comprese Fabrizio. Estrasse il dito e se lo pulì sulla giacca. Che diavolo stava facendo? Era impazzito? Si era buttato come un adolescente infoiato addosso a una sconosciuta mentre la sua casa editrice complottava contro di lui.
Devo rispondere a questo affronto.
C’era solo una persona al mondo che poteva aiutarlo. La sua agente. Margherita Levin Gritti.
– Scusami, ma devo andare! – fece distrattamente rinfilandosi il mollusco nei pantaloni e allontanandosi di corsa.
Lei rimase li senza sapere che pensare, poi cominciò a riabbottonarsi la camicetta.

15.

Il leader delle Belve di Abaddon aveva finalmente trovato l’idea. Doveva immediatamente riunirsi ai suoi adepti e renderli edotti della situazione. Non importava che fossero le dieci passate. Tanto quelli erano a casa di Silvietta a vedersi un film.

A luci spente andò nello sgabuzzino delle scope. Ben nascoste dietro scatole di detersivi e di scarpe, stipate in una busta della GS, c’erano le uniformi delle Belve. Le aveva disegnate lui stesso e fatte cucire da un sarto cinese di Capranica. Erano semplici tuniche di cotone nero (al contrario di quelle sgargiantissime dei Figli dell’Apocalisse, oro e viola) con il cappuccio a punta. Come scarpe, dopo diversi dubbi, aveva scelto delle espadrillas nere.

Saverio tornò in salotto e cercando di non far rumore prese dallo scatolone la Durlindana, dalla credenza le chiavi della macchina. Afferrò l’ombrello e la bottiglia di Jägermeister e stava per abbassare la maniglia della porta di casa quando il lampadario si accese, inondando di luce la collezione Zanzibar.

Serena in camicetta da notte era sulla porta del soggiorno. – Dove vai?
Saverio s’ingobbì, abbassò la testa e cercò di nascondere la spada dietro la schiena senza riuscirci. – Esco un attimo…
– Dove?
– Vado al mobilificio a vedere una cosa…
Serena era perplessa. – Con la spada?
– Sì… – Doveva immediatamente inventarsi una stronzata. – Vedi… C’è un mobile… C’è un mobile da salotto che potrebbe contenerla perfettamente e volevo controllare se ci entrava. Vado e torno. Ci metto un attimo. Tu vai a dormire.
– E in quella busta che c’è?
Saverio si guardò intorno. – Quale busta?
– Quella che hai in mano.
– Ah… Questa – . Saverio sollevò le spalle. – No, niente… Ho dei vestiti che devo ridare a Edoardo. Sono per una festa in maschera.
– Lo sai quanti anni hai, Saverio?
– Che domande fai?
– Mi hai stancato. Profondamente stancato. Quando Serena diceva che si era stancata, profondamente stancata, con quel tono esaurito, Saverio sapeva che entro pochi minuti si cominciava a litigare. E litigare con Serena non conveniva mai. Era capace di annientarti, di trasformarsi in qualcosa di così terribile che non si può nemmeno descrivere. La strategia migliore era stare zitti e abbozzare. Se iniziava a urlare i gemelli si sarebbero svegliati e avrebbero attaccato a frignare, e a quel punto gli toccava rimanere a casa.
Lasciala parlare. Superiore.
– E non hai stancato solo me. Lo sai che dice papà? Dice che di tutti i reparti del mobilificio il tuo è l’unico in perdita.
Saverio, nonostante quello che si era appena ripromesso, non resse. – E certo! I mobili tirolesi fanno cagare a tutti. Non li vuole nessuno! Per quello tuo padre me lo ha affidato. Lo sai benissimo. Cosi mi può…
Serena lo interruppe, stranamente senza alzare la voce. Sembrava così scoraggiata che non aveva nemmeno la forza di urlare. – Ah! I mobili tirolesi fanno cagare? Ti è noto che mio padre ha venduto per più di vent’anni solo ed esclusivamente mobili tirolesi? Ricordati che è stato lui il primo che li ha introdotti nel Lazio. Sai dopo in quanti lo hanno copiato? Gli arredi rustici e tutto il resto è venuto grazie a quei mobili che a te fanno tanto cagare – . Incrociò le braccia. – Tu non hai rispetto… Non hai rispetto per mio padre e nemmeno per me. Io sono veramente stanca di coprirti, di sentire ogni giorno papà che insulta mio marito. Mi mortifico – . Scosse la testa amareggiata. – Aspetta… Aspetta… come ti ha chiamato l’ultima volta? Sì, ecco… Uno scarafaggio senza palle. Lo sai dove ti avrebbe mandato a quest’ora se non ci fossi io?
Saverio strinse il manico della Durlindana come volesse spezzarla. Avrebbe potuto ucciderlo, quel vecchio bastardo. Sarebbe stato così facile. Un colpo secco di spada tra la terza e la quarta vertebra cervicale.
– Come dargli torto? – Serena lo indicò. – Guardati, esci di nascosto con i vestiti di carnevale, la spada e vai dai tuoi amichetti a giocare… Non hai tredici anni. E io non sono tua madre.
Saverio, a testa bassa, cominciò a piantare la punta della Durlindana nel parquet.
– Così non può andare avanti. Ho perso ogni rispetto per te. Io ho bisogno di un uomo. Ti sei mai chiesto perché non voglio fare l’amore con te? – Si girò e se ne tornò in camera. La sentì dire: – Esci. Corri. Non vorrai fare aspettare i tuoi amichetti? E butta la pattumiera.
Saverio rimase per circa un minuto fermo sulla porta di casa. Fuori il temporale non accennava a placarsi. Se fosse uscito ora la sua vita sarebbe stata un inferno per una settimana. Rimise la Durlindana nella scatola e la busta con le tuniche nello sgabuzzino. Si attaccò alla bottiglia di amaro. Meglio dormire sul divano. L’indomani mattina Serena sarebbe stata più calma e avrebbero potuto fare pace, o qualcosa di simile.
Doveva dimostrarle che non era uno scarafaggio senza palle. E per riuscirci c’era solo un modo: recuperare il budget trimestrale e mettere a tacere il vecchio bastardo. Mancava ancora un mese alla fine del trimestre e se si metteva a lavorare di brutto ce la poteva fare. Prese un altro sorso di alcol e mezzo stonato andò in bagno a lavarsi i denti.
Come cavolo gli era venuto in testa di uccidere Larita? Per farlo doveva prendersi un giorno libero e in questo momento, con il bilancio in rosso, non era proprio cosa. E poi, ammettiamolo, oltre a sua moglie anche le Belve non credevano più in lui.
Sputò il dentifricio nel lavandino, si asciugò la bocca e si guardò nello specchio. Le tempie erano quasi bianche e il velo di barba sul mento era grigio.
Non hai tredici anni. E io non sono tua madre.
Aveva ragione Serena. Ragione da vendere. Se non le dimostrava che poteva avere fiducia in lui, alla morte di suo padre non gli avrebbe mai dato la gestione del mobilificio.
E ho due figli a cui badare. Non devono crescere sapendo di avere un padre incapace.
Ed era solo colpa sua se tutti lo pensavano.
Basta! ’Sta storia della setta satanica deve finire. Domani convoco le Belve e gli dico che il gioco è finito.
Si tolse la camicia e la canottiera. Anche quel poco di peli che aveva sul petto cominciavano a ingrigirsi. Apri il rubinetto della doccia, poi lo richiuse. Spalancò la bocca in un urlo muto. Aveva le guance rigate dalle lacrime.
Perché si era ridotto così? Per quale assurda ragione si era chiuso volontariamente in una gabbia con quell’arpia e aveva buttato via le chiavi della sua esistenza? Da giovane aveva un sacco di progetti. Fare un giro dell’Europa in treno. Andare in Transilvania a visitare il castello del conte Vlad. Vedere i dolmen e le sculture dell’isola di Pasqua. Studiare il latino e l’aramaico. Non aveva fatto nulla di tutto questo. Si era sposato troppo presto con una donna che adorava i villaggi turistici e razziare gli outlet.
Tornò al lavandino e si guardò di nuovo nello specchio come per accertarsi che fosse ancora lui. Prese l’asciugamano e se lo poggiò in testa.
– Aspetta… Aspetta un attimo, – si disse.
Non doveva dimenticare. Quella era stata una giornata speciale e non bastava un litigio con Serena per cancellarla. Sentiva con ogni fibra del corpo che quello era l’inizio di una nuova esistenza, bastava avere il coraggio di ribellarsi. E non era per Gerry Scotti e nemmeno per il nuvolone con il volto di Satana che gli era apparso come un presagio, non era per Kurtz che lo aveva chiamato per chiedergli di essere il suo rappresentante. Era per quel no. Era stato troppo bello. Troppo gratificante. Non lo poteva sciupare così. Era stata la prima volta che aveva detto NO. Un NO vero.
Se abbandoni la setta devi essere cosciente che la tua vita d’ora in avanti sarà solo una lunga sequela di si. Devi essere cosciente che ti spegnerai lentamente, nell’indifferenza generale, come un cero su una lapide abbandonata. Se adesso deponi la Durlindana e ti metti a dormire sul divano non ci saranno più messe nere, orge sataniche e scrìtte sui viadotti. Non ci saranno più cene con i tuoi adepti. Mai più. E non le rimpiangerai perché sarai troppo depresso per poterle rimpiangere. Decidi ora. Decidi se sei lo schiavo di tua moglie o sei Mantos, il sommo maestro delle Belve di Abaddon. Decidi chi cazzo sei.
Si tolse l’asciugamano dalla testa, con un sorso finì la boccia di Jägermeister, afferrò il tagliabarba, lo accese e si rapò a zero.

16.

Bollito.
Fabrizio Ciba guidava la vespa giù per la panoramica di Monte Mario. Acceleratore a palla, si piegava a destra e a sinistra come Valentino Rossi. Era fuori di sé. Quegli infami della Martinelli avevano detto che era bollito e volevano fargli le scarpe. A lui che li aveva tirati fuori dal fallimento, che aveva venduto più di tutti gli altri scrittori italiani messi insieme, a lui che era stato tradotto in ventinove lingue tra cui swahili e ladino.
– E vi beccate pure il venti per cento sui diritti esteri, – urlò superando in piega una Ford Ka.
Se pensavano di poterlo trattare come una suora bulimica si sbagliavano alla grande.
– Che vi credete? Tutti mi vogliono. E vedrete quando uscirò con il nuovo romanzo, bastardi che non siete altro.
Cominciò a zigzagare nel traffico di viale delle Milizie. Poi si buttò nella corsia dei tram. Si fermò con una sgommata al semaforo rosso.
Doveva andarsene da un altro editore. E poi andarsene da questo cazzo di Paese. L’Italia non mi merita. Poteva vivere a Edimburgo, tra i grandi scrittori scozzesi. Non scriveva in inglese, ma non importava. Qualcuno glieli avrebbe tradotti.
Alice…
Fu attraversato dall’immagine di loro due in un cottage scozzese. Lei nuda che traduceva e lui che preparava un piatto di rigatoni cacio e pepe. L’avrebbe chiamata domani e si sarebbe scusato.
Una goccia grossa come un chicco di caffè lo colpì in piena fronte, seguita da una su una spalla, una su un ginocchio, una…
– Noo!
Scoppiò l’acquazzone. Sui marciapiedi la gente correva a ripararsi. Si aprivano gli ombrelli. Folate di vento strapazzavano i platani ai lati della strada.
Fabrizio decise di andare avanti lo stesso, la casa della sua agente non era lontana. Si sarebbe fatto una doccia calda e poi avrebbero organizzato la controffensiva.
Arrivò sul lungotevere. Milioni di macchine immobili si imbottigliavano nel sottopassaggio. Tutte suonavano. La pioggia frustava le lamiere, l’asfalto e tutto il resto. I fari creavano un riverbero accecante.
Che diavolo succede?
Venerdì sera + coatti in uscita libera + pioggia = Il centro bloccato tutta la notte.

Fabrizio detestava il venerdì sera. Orde di barbari provenienti dal Prenestino, da Mentana, da Cinecittà, dai Castelli, dalla cinta del Grande Raccordo Anulare si riversavano sul centro storico, Trastevere e la Piramide, alla ricerca di pizzerie, pub irlandesi, ristoranti messicani e paninoteche. Tutti determinati a divertirsi.
Lo scrittore, bestemmiando, si gettò anche lui sul lungotevere. Non riusciva ad avanzare. La vespa non passava tra una macchina e l’altra. Si inerpicò sul marciapiede, ma anche lì era difficile proseguire. C’erano automobili parcheggiate dovunque, gettate senza ordine una sull’altra, come le macchinine di un ragazzino viziato. Arrivò, bagnato fino alle mutande, in una specie di strettoia che terminava in un lago. Le macchine lo attraversavano sollevando onde da motoscafo. Prese un bel respiro e si lanciò. Fece i primi venti metri in un tripudio di schizzi. Le ruote scomparvero in un liquido scuro e gelato. Ora avanzava più fiaccamente. Il livello dell’acqua si alzava oltre il fondo della vespa. Gli arrivava alle caviglie. Il motore cominciò a sputacchiare, a balbettare. Come una bestia ferita lo scooter si trascinava avanti a spasmi emettendo un suono disperato. Fabrizio in sella implorava tra i denti. – Dài cazzo, dài cazzo, dài porca troia… Ce la fai!
Ma la vespa emise un rantolo e morì nel punto più profondo.
Fabrizio Ciba smontò smadonnando. L’acqua gli arrivava ai polpacci. I piedi gli sciacquettavano nelle vecchie Church’s. Prese a calci lo scooter. Non poteva credere che l’umanità, la meccanica e la natura, in combutta, nell’arco di quaranta minuti, gli si fossero rivoltate contro.
Le macchine, stipate di mostri rasati e tatuati, gli passavano accanto facendogli la doccia. Lo indicavano, scuotevano la testa, ridevano e si allontanavano.
Si guardò. La giacca si era trasformata in un orrendo poncho gocciolante. I pantaloni tutti bagnati e infangati.
A testa bassa, tremando, spinse la vespa fuori dal lago. La pioggia gli colava sul collo, gli scivolava sulla schiena e tra le chiappe. Non sentiva più i piedi. Mollò lo scooter e si incamminò.
Per fortuna non era lontano dalla casa della sua agente. Sarebbe rimasto a dormire da lei. Si sarebbe fatto preparare una camomilla con il miele. Si sarebbe preso un paio di aspirine e fatto coccolare e rassicurare. Si sarebbe addormentato avvinghiato a quei seni caldi mentre lei gli sussurrava dolcemente che avrebbero fatto il culo alla Martinelli.
Cominciò a marciare risollevato mentre raffiche di vento lo spingevano indietro. La lugubre sagoma di Castel Sant’Angelo era avvolta dall’acqua. Attraversò il ponte degli angeli. Il fiume in piena gli rombava sotto i piedi incanalandosi tra i pilastri.
Sulla riva opposta il lungotevere era un boa di lamiera che strombazzava immobile e insofferente. I tombini vomitavano torrenti grigi che correvano impetuosi lungo i marciapiedi. Tutte le strade, vicoli, buchi che entravano nel centro storico erano presidiati da gruppi di agenti con gli impermeabili gialli e le palette che tentavano di arginare il flusso di automobili. Sembrava l’esodo da una città sotto la minaccia delle bombe.
Fabrizio si fece largo tra le macchine e si infilò nel primo viottolo che gli si parò davanti. Sbucò in una piazzetta dove due tipi si prendevano a spinte per un posto libero. Le fidanzate, tutte e due bionde, tutte e due vestite come modelle di Versace, si sgolavano dai finestrini delle macchine.
– Enrico! Non lo vedi che è un testa di cazzo, lascialo perdere.
– Franco! Non ne vale la pena, è un pezzo di merda. Fabrizio gli passò accanto non degnandoli di uno sguardo. Entrò a via dei Coronari.
Un incubo.
Ma era finito, era arrivato.

17.

– E così non vuoi fare l’amore con me?

Serena aprì un occhio. Per riuscire ad addormentarsi si era fatta venticinque gocce di EN. Sollevò appena la testa e vide sulla porta della stanza la sagoma scura di suo marito.

– Che vuoi? – biascicò sentendo il sapore dolciastro delle benzodiazepine sulla lingua intorpidita. – Non vedi che sto dormendo? Vuoi litigare?
– Hai detto che non vuoi fare l’amore con me.
– Piantala. Lasciami stare. È meglio, – lo liquidò, riaffondando la testa nel cuscino. Nonostante il sonno, una parte del cervello di Serena notò che Saverio aveva un tono diverso, molto deciso. E non era da lui affrontare le cose in quella maniera diretta. L’imbecille si sarà ubriacato. Cominciò a frugare nel cassetto del comodino cercando la mascherina per gli occhi e i tappi per le orecchie. Era stata tutto il giorno a Roma a cercare un tornio per la creta ed era distrutta. Non aveva nessuna voglia di mettersi a litigare.
– Ridillo. Ridillo, se hai coraggio, che non vuoi fare l’amore con me.
– Non voglio fare l’amore con te. Sei contento ora? –Trovò la mascherina.
– Preferisci essere scopata da quelli delle spedizioni, vero?

Adesso, però, stava esagerando. Andava rimesso al posto suo. Si tirò su e ringhiò: – Sei impazzito? Ma come ti permetti? Io ti… – Ma non riuscì ad andare avanti perché, nonostante avesse le luci del corridoio negli occhi, le sembrava che Saverio fosse nudo e… No, non è possibile… Si è rapato a zero. Un brivido le sali lungo la colonna vertebrale.

– Lo sai che mi dicono ogni volta che vado in magazzino? Che potresti essere una pornostar. E in fondo non hanno tutti i torti visto come vai vestita. Che puttana che sei! Sei talmente puttana che dici che scopare è burino, però ti rifai le tette – . E prese a ridere sguaiatamente.

Serena era pietrificata. Non respirava nemmeno, nel torace il cuore le batteva impazzito e il sangue le rombava nelle arterie. C’era qualcosa che non andava in suo marito. E non era perché era diventato improvvisamente geloso o perché si era tagliato i capelli. Sì, questi erano sintomi preoccupanti. Ma la cosa che la terrorizzava era la voce. Gli era cambiata. Non sembrava la sua. Era profonda e cattiva. E quella risata malvagia, da psicopatico, da posseduto.

Serena Mastrodomenico era sempre stata cosciente che prima o poi a suo marito sarebbe potuta partire la brocca. Era un frustrato. Troppo compresso, troppo accondiscendente, troppo remissivo, troppo gentile con tutti. A lei piaceva così. Le ricordava quei cavalli da tiro che trascinano il carretto e prendono botte tutta la vita e muoiono stroncati dalla fatica. Dentro però sapeva che Saverio aveva un inferno che gli bruciava notte e giorno. E lei si divertiva a stuzzicarlo, per vedere fino a che punto resisteva, e se ogni tanto si lasciava scappare una vampata di rabbia. In dieci anni di matrimonio non era mai successo.

Sta succedendo ora, porca puttana. Si ricordò di quel film. Era la storia di un impiegato modello, con famiglia perfetta, che intrappolato nel traffico mollava ogni freno e cominciava a fare una strage con un fucile a pompa. Suo marito era tale e quale a quello li.

Saverio avanzò lentamente verso il letto. – Tu non mi conosci Serena. Tu non hai neanche idea di cosa sono capace io. Tu credi di sapere tutto, ma non sai niente.

Serena vide che suo marito impugnava lo spadone, le uscì un urletto e si appiccicò al muro.
– Stai zitta! Stai zitta! Che svegli i bambini! Ahh… Giusto! Parliamo di bambini. Credi che io non sappia perché hai tanto insistito per farli in provetta. Non è per l’età. Credevi che me la fossi bevuta la stronzata dell’età. No! È perché ti faccio schifo – . Saverio sollevò le braccia e la spada mostrandosi nudo. – Dimmi, faccio tanto schifo?
Serena Mastrodomenico non era esperta di sindromi psicotiche, nonostante avesse frequentato il biennio di Psicologia. Ma la saggezza popolare sosteneva che ai pazzi bisogna sempre dare ragione. E in quel momento le sembrava un comportamento più appropriato che mai.
– No… No… che non fai schifo, – balbettò, stupita di avere ancora fiato per parlare. – Ascoltami Saverio. Posa quella spada. Mi dispiace per quello che ti ho detto – . Deglutì. – Lo sai che ti amo…
Lui cominciò a sussultare in preda al riso. – No… Questa no, ti prego… Questa proprio non la dovevi dire. Mi ami! Tu mi ami? È la prima volta che ti sento dire che mi ami da quando ti conosco. Nemmeno quando ti ho dato l’anello di fidanzamento me lo hai detto. Mi hai chiesto se si poteva cambiare – . Voltò la testa verso la finestra, come se li ci fosse qualcuno. – Hai capito? Hai capito cosa bisogna fare per essere amati dalla propria moglie? E poi dicono che il matrimonio è un’istituzione in crisi.
Doveva scappare. La finestra che dava sul terrazzino era chiusa e le tapparelle abbassate. E se anche fosse riuscita ad aprirla, erano al terzo piano e sotto c’era la spianata d’asfalto del parcheggio. E se avesse urlato aiuto, lui l’avrebbe colpita con la spada. L’unica cosa che le restava da fare era implorare pietà e appellarsi al vecchio e buon Saverio, che da qualche parte ancora doveva nascondersi dentro la mente malata di quello schizofrenico.
Ma questo era impensabile. In quarantatre anni Serena non aveva chiesto pietà a nessuno. Nemmeno alle Orsoline che le colpivano le nocche con il righello. Il carattere di Serena Mastrodomenico era stato forgiato secondo la rigida etica luterana dei Mastri d’Ascia Tirolesi. Papà, che aveva passato gli anni della gioventù come apprendista in una falegnameria di Brunico, le aveva detto che i legni più pregiati si spezzano ma non si piegano.
(E tu, stellina, sei dura e preziosa come l’ebano. E non ti farai mettere i piedi in testa da nessuno .Nemmeno da tuo marito. Promettimelo).
Sì, paparino, te lo prometto.

E quindi figuriamoci se avrebbe chiesto pietà a quel fallito pezzo di merda scroccone psicopatico di Saverio Moneta, figlio di un modesto operaio della Osram e di una massaia ignorante. Lei lo aveva ripulito, lo aveva fatto entrare nel suo letto, lo aveva fatto accettare a quel sant’uomo di suo padre, aveva accolto il suo sperma bacato per farci dei figli e adesso quello la minacciava con una spada.
Serena afferrò la sveglia dal comodino e gliela lanciò contro digrignando i denti: – Fanculo! Uccidimi! Fallo se hai coraggio. Non ho paura di te, scarafaggio senza palle! – E con le mani gli fece segno di farsi avanti.

18.

Il palazzo di Margherita Levin Gritti era vecchio e signorile, con un grande portone che nascondeva una porticina.

Fabrizio Ciba premette un pulsante del citofono dorato. Un faretto sopra una telecamera gli sparò una luce negli occhi. Battendo i denti attese mezzo minuto poi diede una seconda scampanellata. Guardò l’orologio. Mezzanotte e dieci.

Dal punto di vista stocastico, si disse Fabrizio, era altamente improbabile che non ci fosse. Non era possibile infilare una dietro l’altra un numero così alto di sfighe. Sarebbe stato come lanciare i dadi e fare per dieci volte sette.

Si attaccò al pulsante. – Rispondi! Rispondi! Svegliati.

E, ringraziando Iddio, una voce rispose: – Chi è? Fabrizio, sei tu?
– Sì, sono io. Apri, – disse all’occhio della telecamera.
– Che ci fai qui, a quest’ora? – La voce era stupita.
– Fammi salire. Sono tutto bagnato.
La donna rimase in silenzio, poi: – Non posso… Non stasera. Scusami.
– Ma che dici? – Fabrizio non credeva alle sue orecchie.
– Mi dispiace…
– Ascolta, è successa una cosa gravissima. La Martinelli mi vuole fare le scarpe. Apri, – le ordinò.
– Non voglio scopare.
– …Io sto scopando.
– Come, stai scopando? Non è possibile!
– Perché non è possibile? Che vuoi dire? – La voce dell’agente si stava alterando.
– Niente, niente. Vabbe’, non importa, apri lo stesso. Ti spiego due cose, mi asciugo e chiamo un taxi.
– Chiamalo con il cellulare.
– Lo sai che non uso il cellulare. Ascolta, smetti un attimo di scopare e riprendi dopo. Che sarà mai?
– Fabrizio, tu non ti rendi conto di quello che stai dicendo.
Ciba sentì la rabbia espandersi dentro le viscere.
– Sei tu che non ti rendi conto! E guardami, cazzo! – Allargò le braccia. – Sono tutto bagnato! Rischio una polmonite. Sto male! Apri ’sta maledetta porta, porca puttana!
La voce dell’agente era ferma. – Chiamami domani mattina.
– Quindi non mi apri?
– No! Te l’ho detto, non ti apro.
Fabrizio Ciba esplose. – Allora sai che ti dico? Vaffanculo! Vaffanculo tu e quella poveraccia, lo so che è la poetessa, che ti credi? Come cazzo si chiama… Vabbe’, andatevene a fare in culo tutte e due, lesbiche ciccione di merda. Sei licenziata.
Si allontanò dando calci alle macchine posteggiate.

19.

Che donna! Che leonessa!
Saverio Moneta aveva sempre saputo che sua moglie aveva i coglioni, ma non credeva fino a quel punto. Era pronta a battersi anche a rischio della vita. Proprio per quello aveva deciso di sposarla. Suo padre e sua madre e tutti i parenti (anche quelli di Benevento, che l’avevano vista una volta sola) lo avevano avvertito che non era il tipo giusto per lui. Era viziata, lo avrebbe messo sotto, calpestato, ridotto al rango di un cameriere filippino. Ma lui non era stato a sentire nessuno e l’aveva sposata.
Allungò la spada e gliela puntò sulla gola. – E quindi non hai paura?
– No! Mi fai schifo! – Serena gli sputò addosso.
Saverio si pulì la guancia sorridendo. – Ah, così ti faccio schifo – . Infilò la punta della Durlindana nell’asola della camicetta da notte e con un colpo di polso fece saltare il primo bottone.
Serena era tutta contratta, con gli artigli smaltati di rosso pronti a graffiarlo.
– Adesso ti ammazzo – . Saverio le fece saltare il secondo bottone della camicia da notte. Le tette, grosse come due meloni, con i piccoli capezzoli scuri intirizziti dalla paura, apparvero nel loro sintetico splendore.
– Che fai? Schifoso! Non ti permettere, – sibilò Serena con gli occhi ridotti a due fessure buie.
Saverio le mise la lama sotto la gola e l’appiccicò contro la testiera del letto. – Zitta! Devi stare zitta! Non ti voglio sentire.
– Sei un pezzente.
Lui l’afferrò per i capelli e le spinse la testa contro il cuscino. Gettò via la spada e con la destra le strinse il collo come si farebbe con una serpe velenosa, poi le si buttò sopra con tutto il peso. – E adesso che fai? Che fai? Non ti puoi più muovere. Non puoi urlare. Hai paura, vero? Dillo che hai paura.
Serena non mollava. – Io non ho paura di nessuno.
Saverio si accorse di avere una violenta erezione e di desiderarla da impazzire. – Adesso ti faccio vedere… –Le strappò le mutande e le diede un morso su una chiappa. – Ti faccio vedere io chi comanda qui.
Un urlo soffocato uscì dal cuscino. – Se ci provi, ti giuro sui nostri figli che ti ammazzo.
– Ammazzami! Ammazzami pure. Tanto non me ne importa niente di questa vita di merda – . Le divaricò le gambe e le infilò una mano tra le cosce. Si fece spazio e la penetrò di colpo. Il cazzo le affondò dentro fino alle viscere bollenti.
Lei, come una gatta impazzita, si liberò un braccio e con una zampata gli graffiò quattro strisce sanguinolente sul costato. – Mi stai violentando, maiale. Io ti odio… Tu non sai quanto ti odio…
Saverio, esaltato dal dolore, continuava a pompare disperatamente. Gli girava la testa mentre il sangue gli turbinava nei timpani.
Serena era riuscita a tirare su la faccia dal cuscino e mugugnava. – Smettila! Mi fai schifo… Mi fai… – Non riuscì a continuare perché cominciò a inarcare la schiena offrendosi di più.
Saverio si rese conto che ce l’aveva fatta. La troia stava godendo. Quella era la sua giornata! Ora però c’era un problema. A quel ritmo forsennato non avrebbe retto a lungo. Sentiva l’orgasmo che gli attraversava i tendini delle gambe, gli azzannava i muscoli delle cosce e incurante della sua volontà puntava dritto verso il buco del culo e i coglioni. Pensò a Sting. A quel gran figlio di mignotta di Sting che poteva scopare anche quattro ore senza venire. Come faceva? Si ricordò che in un’intervista l’artista inglese aveva spiegato di avere imparato la tecnica dai monaci tibetani… Qualcosa del genere. Comunque era tutto un problema di respirazione.
Saverio, reggendosi con una mano su una scapola di sua moglie e con l’altra contro il muro, cominciò a inspirare ed espirare come un gonfiatore per canotti, cercando di rallentare un pochino il ritmo.
Serena, sotto di lui, si contorceva come la coda mozza di una lucertola.
L’afferrò di nuovo per i capelli e le strinse una tetta. – Ti piace. Dillo!
– No. No. Non mi piace. Mi fa schifo – . Eppure non sembrava che le facesse così schifo. – Bastardo. Sei un lurido bastardo – . Mollò una manata sul materasso e colpì la radiosveglia, che si destò dal torpore e cominciò a cantare She’s Always a Woman di Billy Joel.
Altro segno inequivocabile che Satana era dalla sua parte. Saverio diceva ai suoi discepoli di amare i Sepultura e i Metallica, ma in segreto adorava il vecchio Billy Joel. Nessuno scriveva canzoni così romantiche.
Strinse i denti e con rinnovato vigore riprese a martellarla. – Ti sfondo… Giuro che ti sfondo. Beccati pure questo, troia – . E le infilò un dito in culo.
Serena si irrigidì tutta, stirò gambe e braccia e sollevò la testa, lo guardò con una smorfia di dolore e poi si arrese sospirando con un filo di voce: – Vengo… Vengo, vaffanculo. Vaffanculo, maledetto.
Saverio finalmente si lasciò andare, rilassò le cosce e venne a bocca aperta. Stravolto dalla fatica, tutto sudato, si accasciò sul collo di Serena, infilò la bocca fra i suoi capelli e sospirò: – Ora dimmi che mi ami!
– Sì. Ti amo. Ma adesso fammi dormire.

20.

Su corso Vittorio Emanuele Fabrizio Ciba aveva rinunciato a cercare un taxi. Il lungo viale era intasato di macchine. I bassi dei woofer facevano pulsare le automobili ferme. In un angolo c’era un bar illuminato. Si fiondò dentro.

Un caldo asfissiante. Una puzza di sudore da capogiro. Gente dappertutto che si spintonava accalcandosi nello spazio angusto. E ballavano. Sul bancone. Sui tavoli. Un’orchestra di caraibici invasati suonava una merdosa salsa spaccatimpani.

Gli si parò davanti un tipo basso con la frangetta bionda e la canottiera. Portava legato in vita una specie di cinturone da cowboy con dei bicchierini al posto delle pallottole. In mano stringeva una bottiglia. – Come sei ridotto? Fatti una bella tequila bum bum. Ti fa bene.

Fabrizio se la bevve in un sorso. L’alcol gli scaldò le budella gelate. – Ancora.
Il tipo gliene versò un’altra.
Anche questa la buttò giù in un colpo. – Ahhh!! Meglio. Un’altra!
– Sei sicuro?
Fabrizio fece segno di si. Poggiò sul bancone una banconota da cinquanta euro tutta zuppa. – Versa e non rompere.
Il cameriere scosse la testa ma ubbidì.
Si cacciò nello stomaco il bicchierino con una smorfia di disgusto. Poi guardò il ragazzo. – Senti, io sono Fabrizio Ciba e ho un… – Si bloccò. Negli occhi del nano albergava il vuoto siderale. Non aveva la più lontana idea di chi fosse Fabrizio Ciba. Lo guardava come si guardano i barboni alcolisti. – C’è un telefono dove posso chiamare?
– No. A piazza Venezia ci dovrebbe essere una cabina.
D’accordo, si disse lo scrittore, doveva ricorrere al solito metodo che usava con gli idioti come questo. – Senti, ti do altri cento euro se mi accompagni a via Mecenate. Non è lontana, è sopra al Colosseo.
Il frangettato sollevò le spalle. – Magari! Ma qua tocca lavorare.
– Non puoi fare lo stronzo! Cazzo, non ti ho chiesto la luna!
Il cameriere versò un bicchierino e lo sbatté violentemente sul bancone. – Tieni, questo te lo offro io, poi te ne vai però. Da bravo.
Fabrizio buttò giù la tequila con un sorso e si pulì la bocca con la manica. – Se sei nella merda nessuno ti dà una mano, eh? – Fece due passi indietro e finì sui piedi di qualcuno.
Una voce femminile si lamentò: – Che male! Questo idiota mi ha distrutto il ditone!
Cercò di guardarla in viso, ma aveva le luci del bancone dritte negli occhi. Sollevò una mano per chiedere perdono, ma una voce maschile gli abbaiò contro: – Senti… Hai rotto il cazzo. Guarda che le hai fatto!
– E che sarà mai? Non capisco… È una cozza… I molluschi non dovrebbero avere la soglia del dolore più alta? – Chiuse gli occhi, si accorse che la musica si era fermata. – Immagino che nessuno di lor signori… – Non ce la fece a continuare. Doveva sedersi. Riapri gli occhi e il locale con tutti quei volti sfocati iniziò a girargli intorno. – Che mondo orribile è il vostro… – biascicò e cercò di aggrapparsi al nanetto, ma crollò a terra tra le gambe della gente.
– Buttatelo fuori! – E basta un po’! – Ogni volta è la solita storia da queste parti.
– Va bene… – Si sollevò, aiutato da qualcuno.
E senza rendersene conto si ritrovò all’aperto, sotto il diluvio. Il freddo e la pioggia gli diedero una sferzata e si sentì un po’ più lucido. Si sarebbe fatto quel chilometro e mezzo a piedi sotto l’acqua.
Arrivò a piazza Venezia ad occhi chiusi, con le gambe che gli tremavano. L’attraversò senza curarsi delle automobili che inchiodavano suonandogli contro. Gli si parò davanti via dei Fori imperiali. Sembrava infinita. Lontano, come un miraggio, riluceva il Colosseo avvolto dall’acqua. La pioggia frustava i sampietrini, che brillavano sotto i fari delle macchine.
Doveva solo camminare a testa bassa.
Devo vomitare, però.
Continuava a ripensare a quel bastardo di Gianni che lo aveva accoltellato alle spalle, a quella puttana della sua agente che non lo aveva fatto salire, e a quelle merde nel bar.
Domani… mi cerco… un nuovo agente… e mando una bella email… alla Martinelli.
Il Colosseo si faceva più vicino. Sembrava un enorme panettone illuminato.
Fabrizio era sfinito, ma accelerò il passo utilizzando le ultime forze.
Me ne vado dalla Martinelli.
Sentì che gli mancava l’aria e un artiglio gelato gli squarciava il cuore.
Oddio…
Alzò gli occhi al cielo, allungò una mano come per sostenersi a qualcosa, inciampò e il marciapiede si piegò e gli venne incontro colpendolo su uno zigomo.
Si rese conto che era steso a terra e stava perdendo i sensi. La fitta di dolore si era allungata fin dentro il braccio sinistro. Vomitò una roba acida e alcolica che si stemperò in una pozzanghera.
Infarto.
La testa gli si era trasformata in una palla infuocata. Nelle orecchie aveva un reattore. Il Colosseo, la strada, le luci, la pioggia gli vorticavano intorno fondendosi in spire luminose.
Provò ad alzarsi, ma le gambe non lo sostennero. Ricadde a terra. Allora cominciò a trascinarsi a forza di braccia verso la strada, mentre le macchine gli passavano accanto senza neanche rallentare. Alzò una mano e sussurrò: –Aiuto! Aiuto! Vi prego… Aiutatemi!
Fabrizio Ciba, lo scrittore del best seller internazionale La fossa dei leoni, il conduttore del programma culturale Delitto & Castigo, il terzo uomo più sexy d’Italia secondo il settimanale «Yes», capi che nessuno si sarebbe fermato e che sarebbe morto nel suo vomito di fronte ai Fori imperiali. Vide la foto del suo corpo sciolto a terra. Sullo sfondo le rovine romane.
Sarà su tutti i giornali. Che scriveranno? Come Janis Joplin.
Il braccio gli ricadde mollemente a terra. Rimase così chiedendosi perché, perché proprio a lui era toccato questo.
Non ho fatto niente di male.
Tutto si sfocava. C’erano solo puntini viola.
Poggiò la testa a terra e chiuse gli occhi.

21.

I coniugi Moneta erano stesi sul letto. Fuori, il temporale cominciava a perdere di forza.
Saverio guardò sua moglie. Dormiva rivolta dall’altra parte, la mascherina sugli occhi.
Appena finito di fare l’amore Serena gli aveva detto che lo amava. Non doveva crederci. Serena era infida come uno scorpione. Per farselo dire era stato costretto a stuprarla.
Ma alla fine ha goduto.
Una debolezza di Serena che gli sarebbe costata cara.
Domani, ripensandoci, diventerà una bestia. Sarà più egoista, prepotente e insensibile che mai. Potrebbe pure raccontarlo al vecchio.

Nonostante questo non riusciva a odiarla. Si era dovuto trattenere dal dirle: «Anche io. Tu non sai nemmeno quanto. Più di ogni altra cosa al mondo».

Ma ora, a mente fredda, si sentiva diverso. Quel no continuava a ronzargli in testa. Lo stadio da scarafaggio senza palle era terminato. La metamorfosi era finita e non gli restava che prendere il volo e scomparire.

Aveva fatto una promessa alle Belve e l’avrebbe mantenuta. Avrebbero sacrificato Larita a Satana e sarebbero diventati la setta più famosa del mondo. Saverio Moneta avrebbe fatto vedere a tutti che razza di malato di mente era.

La polizia li avrebbe beccati. Questo era sicuro. E l’idea di passare il resto dei suoi giorni in galera lo terrorizzava. C’era gente cattivissima li dentro. Assassini, mafiosi, psicopatici veri. Certo, se lui entrava dentro il carcere come Mantos, il signore del Male, il mostro che aveva decapitato la cantante Larita e si era bagnato nel suo sangue, forse avrebbero avuto paura di lui. E lo avrebbero lasciato in pace.

Forse… Forse no… Forse sono tutti fan di Larita. E mi ammazzano come a quel povero disgraziato di Jeffrey Dahmer.

La storia della galera era una vera rogna.

A meno che…
Sorrise nel buio. Una via c’era.
Si alzò dal letto. Apri l’armadio. Prese una tuta

nera che si era comprato pensando di fare jogging, cosa che non aveva mai fatto. Se la infilò e si mise il cappuccio in testa. Stava uscendo dalla stanza quando Serena bofonchiò: – Dove vai?

– Dormi.
– Ha bisogno di una mano?
… Che?
– Mi sente? Mi sente?

… Cosa? Chi?
– Sta bene?
Una voce. Una donna.
Fabrizio Ciba riapri gli occhi a fatica. – Sto

male… Mi aiuti… La prego – . Afferrò la caviglia di una figura nera in piedi di fronte a lui.

– Oddio, ma lei… Lei è lo scrittore… Certo, lei è Fabrizio Ciba! Che ci fa li a terra? Che emozione incontrarla.
– Sì… Ciba… Sono io… Sono Fabrizio Ciba! La prego mi aiuti, mi porti…
– La porto all’ospedale?

Con quel poco di lucidità che gli restava Fabrizio capi che se fosse andato in ospedale sarebbe finito su tutti i giornali. E avrebbero scritto che era un alcolizzato o peggio. – No. A casa. Mi porti a casa… Via Mecenate…

– Certo, certo. La porto subito a casa. Lo sa, lei è il mio scrittore preferito, molto meglio di Saporelli. Ho letto tutti i suoi libri. Ho adorato La fossa dei leoni. Sono indiscreta se le chiedo un autografo? Non ho il libro però.

Fabrizio sorrise. Quanto amava i suoi lettori.
– Ora la metto in macchina.
Si sentì afferrare per le ascelle. Vide un’auto con

gli sportelli aperti. La donna lo trascinò e lo aiutò a salire sul sedile posteriore.

 

Sono ancora io il più forte, non sono bollito…, si disse mentre sveniva.

Zombie, Murder e Silvietta erano in vena di discussioni cinematografiche.
Se ne stavano stravaccati su un divano e si passavano un chilum fatto in casa con una bottiglia di acqua Rocchetta. Sul fondo c’era una miscela grigiastra di vodka e fumo. Da un buco spuntava l’involucro di una Bic in cui era infilato un cannone a due cartine. Avevano da poco finito di vedere Blackwater Valley Exorcism. Tutti e tre erano entusiasti della pellicola ed erano d’accordo che quel film era superiore al tanto osannato L’esorcista. Innanzi tutto era tratto da una storia vera, e secondo i loro criteri le storie vere erano superiori alle storie inventate. Poi la scena iniziale era grandiosa: Isabel, la figlia di una povera famiglia di contadini texani, si mangiava un coniglio vivo. Era un film genuino, fresco, e si capiva che il regista e gli attori ci si erano impegnati di brutto nonostante il basso budget a disposizione.
Silvietta cominciò a rollare un’altra canna. Era lei la rollatrice ufficiale del gruppo. – Ma secondo te, Zombie, Blackwater è migliore anche di Omen?
Zombie sbadigliò. – Bella domanda… Non lo so.
Anche Silvietta sbadigliò. – Sto cotta. ’Sto marocchino è bestiale.
Murder sollevò la schiena dal divano e stirò le braccia. – E se ce ne andassimo a nanna?
La vestale passò la lingua sulla colla della cartina e con un movimento tecnico sigillò la canna e l’accese. – Vabbe’ facciamoci lo spino della buonanotte
– . Poi prese a mettere in ordine i cd di heavy metal, le riviste di tatuaggi e le buste unte dei fiori di zucca fritti e delle olive ascolane sparse sul pavimento. Quando esagerava con il fumo le prendeva la sindrome della casalinga. – Zombie, perché non rimani qui a dormire?
– Ma… Non so… Meglio di no, – fece Zombie cercando gli anfibi. – Domani mattina devo accompagnare mia madre a fare le analisi a Formello.
Non era vero, ma quel divano dove lo facevano dormire aveva le molle sfondate e poi gli scocciava fare sempre la figura di quello che non ha donne, cosa tra l’altro vera. Quei due dicevano tanto che odiavano gli innamorati, le coppiette appiccicose e le stronzate romantiche tipo San Valentino, eppure appena potevano si appartavano per conto loro come se lui non esistesse.
Che gli costava dormire tutti e tre insieme nel lettone? Non che volesse fare sesso di gruppo (anche se in verità la cosa non gli sarebbe dispiaciuta), ma non avevano fatto il giuramento di fratellanza satanica? E poi non riusciva proprio a capire che cosa ci trovasse di tanto interessante Silvietta in quel buzzurro di Murder. Lui era mille volte meglio. D’accordo, aveva questo problema dell’esofagia gastrica, ma con le medicine gli era quasi passato del tutto.
Zombie prese una scarpa da terra. – No… Vado a casa. È meglio.
Murder sollevò i suoi cento chili di ciccia e aprì il frigorifero dell’angolo cottura. – Fai come ti pare.
Silvietta spalancò la finestra per fare uscire il fumo. Fuori la pioggia era quasi finita. Rimase un po’ a fissare la notte e poi si voltò verso gli altri due. – Ma secondo voi Mantos che azione ci vuole proporre?
Murder tirò fuori un vecchio barattolo di maionese e cominciò a ispezionarlo. – Secondo me non lo sa, non ha più idee, è scarico. Ma non lo avete visto a cena? Tutto nervoso… Ve lo avevo detto io che dovevamo andare pure noi con Paolo nei Figli dell’Apocalisse. A quest’ora… sai le orge, i sacrifici.
Zombie si fece il fiocco ai lacci. – Stanno a Pavia. È lontanissimo. E io devo lavorare.
Murder infilò un dito nella crema gialla e se lo cacciò in bocca. – Vedi che non sai un cazzo. I Figli dell’Apocalisse organizzano i raid nel weekend. Parti venerdì e domenica sera te ne torni col treno. Il lunedi sei al lavoro.
Silvietta si diede una ravviata ai capelli. – In effetti… Anche se alla fine, tra andare e tornare, ti costa una cifra.
Zombie si grattò la mascella. – Ve la dico tutta. Saverio non ha il carisma di un Kurtz Minetti o di, che ne so, un Charles Manson. Ammettiamolo, le Belve di Abaddon sono morte!
– Non sono mai nate, – lo corresse Murder.
– No! Non è vero – . Silvietta versò il detersivo per i piatti nel lavandino. – È un periodo. Lo sapete che Saverio ha un sacco di problemi familiari. Io di lui mi fido tantissimo e non l’abbandonerò mai. Se non ci fosse stato lui io non sarei entrata nelle Belve e non vi avrei mai conosciuti. E poi eravamo d’accordo nel dargli un’altra possibilità.
– Sì… Infatti. Glielo dobbiamo, – ripetè Zombie, poco convinto.
In quel momento suonò il citofono.
Murder guardò gli altri due. – E mo’ chi scassa?
Silvietta sbuffò. – Deve essere la vecchia di sotto.
– E che vuole?
– Dice che quando parliamo si sente tutto. Alla riunione di condominio, l’altra volta, ha tirato su un casino che non finiva più.
Murder abbassò la voce. – E che dovremmo fare? Stare muti?
– No. Però Murder, amore mio, te l’ho detto mille volte che devi parlare piano.
– Guarda che se c’è uno che parla forte qui è lui.
Zombie si mise una mano sulla fronte. – E ti pareva. Alla fine è sempre colpa mia.
Il citofono suonò di nuovo.
Silvietta si avvicinò all’apparecchio. – Che faccio? Rispondo? E che le dico?
Murder sollevò le spalle. – Dille di non cagare il cazzo.
La ragazza prese un respiro e afferrò la cornetta.
– Sì?! –Rimase un attimo in silenzio e spinse il pulsante. – D’accordo. Apro.
Murder si avventò sul chilum per farlo sparire. – Ma che sei matta? La fai salire?
Silvietta aprì la porta di casa. – È Saverio.

Un minuto dopo apparve il leader delle Belve di Abaddon. Era tutto vestito di nero. Gli occhiali da sole. E i capelli rasati a zero.

Zombie gli si avvicinò. – Saverio che hai combi…?
Mantos gli fece segno di stare zitto, poi con un gesto teatrale si tolse gli occhiali e li squadrò uno a uno. – Lo so, voi pensate che il grande Mantos sia finito. Che si è rincoglionito appresso alla famiglia e al lavoro.
Murder colpevole abbassò il capo.
Saverio lo guardò deluso. – Murder, proprio tu che sei stato il primo a cui ho fatto leggere le Tavole del Male. Tu, che non sapevi neanche quali sono le corti sataniche. Tu non hai fiducia nel tuo maestro. Questa è una setta unita dalla fede nel Maligno. Ricordati che è difficilissimo entrarci e facilissimo uscirne.
Murder bofonchiò: – No vabbe’ Saverio. Non ce l’avevo con te. Cioè… Lo sai…
Il leader delle Belve di Abaddon guardò fuori dalla finestra e tornò a fissarli. – Da oggi Saverio Moneta non esiste più. È morto in questa serata di tempesta. Da ora esiste solo Mantos, il sommo maestro. Che giorno è oggi?
– Il 28 aprile, mi sembra, – disse Silvietta.
– Segnatevi questa data. Oggi avviene la svolta epocale. Le Belve escono dalle tenebre alla conquista della luce. Questa data verrà inserita nel calendario satanico e ricordata dal mondo cristiano con orrore – . Il leader delle Belve sollevò le braccia verso il soffitto. – Io sono il padre carismatico. Io sono il lupo che porta la morte nel gregge del Buon Pastore. Io sono quello che ha avuto l’Idea!
– Lo sapevo che era un grande, – urlò Silvietta eccitata agli altri due. – Avete visto? Ve lo avevo detto.
– Dicci Mantos! – Murder protese una mano verso il ritrovato padre carismatico.
Il leader abbassò le braccia e tirò fuori dalla tasca della tuta un cd. Lo gettò sul tavolino davanti al divano.
Zombie fece un salto indietro, come se ci fosse una tarantola. – Oddio, perché hai il cd di quella stronza di Larita?
Mantos indicò il disco. – Sapete dove ha registrato questo live? A Lourdes. Sapete che la sua canzone King Karol, in onore di Wojtyla, è nella top ten da sei mesi?
Murder fece una smorfia disgustata. – Traditrice, si è convertita al cristianesimo. È una nemica di Satana.
Silvietta sedette sulle gambe del fidanzato. – Però bisogna capirla. Ho letto su «Gente» un’intervista in cui spiega perché ha abbandonato i Lord of Flies. Ha avuto una storia d’amore con Rotko, il cantante dei Remy Martin, e insieme hanno imboccato il tunnel della droga. Lui è rimasto un tossico, lei ne è uscita grazie a don Toniolo. In comunità ha avuto l’illuminazione e si è convertita al pop.
Mantos l’azzittì. – Larita morirà per mano delle Belve di Abaddon. Questa è la missione.
Nella stanza cadde un silenzio pesante. Un cane da qualche parte prese a ululare.
Zombie cominciò a grattarsi la testa. Silvietta a mangiarsi le unghie. Murder si pulì gli occhiali con la maglietta, poi buttò fuori l’aria e disse: – Questa è grossa! Veramente grossa. Non mi aspettavo una roba del genere.
– E come facciamo? Ce l’hai un piano? – balbettò Zombie.
Mantos abbassò le braccia. – Ovvio. Domani a Roma c’è una festa dove sono invitati tutti i vip d’Italia. E durante la festa Larita canterà. Noi verremo ingaggiati come facchini. Al momento opportuno rapiremo Larita e inzupperemo la terra con il sangue della bastarda.
– Ma prima ce la scopiamo, vero? – chiese Zombie visibilmente eccitato.
– Chiaro, prima c’è l’orgia satanica. Il giorno dopo le Belve di Abaddon saranno su tutti i telegiornali del mondo. Qui parliamo di roba seria, altro che di voci di suore decapitate. Ognuno di voi diventerà un eroe nell’ambiente satanico e un nemico per il resto del mondo.
Zombie si carezzava il collo. – Ma ci beccheranno sicuro, Saverio. Io non voglio andare in galera. Mantos fece no con la testa. – Non ci andrai.
– E come è possibile?
– Tranquillo – . Il leader delle Belve girò lentamente su se stesso, si fermò e mise le mani sui fianchi. – Non ci beccheranno mai. Perché ci suicidiamo.
Le Belve si osservarono in silenzio.
Murder fu il primo a parlare. – Ahò, aspetta un attimo, ma dici veramente Saverio? Non è un po’ troppo?
– Per prima cosa non mi chiamate mai più Saverio. Per seconda cosa, non temete, la morte sarà un liquore dolcissimo per noi. Finiremo seduti di fianco a Lucifero – . Mantos sollevò le braccia. – Ora inginocchiatevi e rendete onore al padre carismatico.
I tre si misero testa a terra.
Mantos si piegò, toccò il capo ai suoi adepti e sgranando gli occhi cominciò a ridere.