Ricordati che sei sempre il migliore, tutti gli altri sono cento metri sotto di te. Ora basta però con tutti questi complimenti, non ne potrai più di quelle come me. Chiamami, se vuoi. Lisa

Fabrizio Ciba rilesse tre volte il bigliettino e a ogni lettura si sentiva il fisico e lo spirito più tonificati.

Si ripeté tutto soddisfatto: – Tu sei il numero uno. Sei sempre il migliore, tutti gli altri sono a cento metri. Avrei potuto approfittare di te – . Indicò la finestra e disse: – Ti amo dolce Lisa.

Ecco chi è Fabrizio Ciba, fanculo!
Ebbe l’impulso infantile di scannerizzare la lettera e mandarla a quelle carogne di Gianni & soci, invece accese lo stereo e infilò dentro un vecchio cd live di Otis Redding. I woofer delle grandi casse Tannoy cominciarono a smuoversi e i VU meter azzurrini del suo vecchio McIntosh a ondeggiare mentre il cantante della Georgia attaccava Try a Little Tenderness.
Fabrizio adorava quella canzone. Gli piaceva che cominciava piano, tranquilla e poi lentamente cresceva fino a trasformarsi in un ritmo forsennato con la voce rauca e impastata del vecchio Otis che faceva da contrappunto.
Lo scrittore prese dal frigo una birra e iniziò a ballare nudo per il salotto. Saltava come il grande Muhammad Ali prima di un incontro e gridava all’universo intero: – Fan–culo! Fanculo! Io sono Ciba! Io sono il più figo di tutti! –Poi zompò sul tavolino di Gae Aulenti e usando la lattina come un microfono prese a cantare. Alla fine del pezzo crollò sul divano esausto. Aveva il fiatone, lo stomaco gonfio come un parabordo, ma era ancora forte. Ci voleva altro per buttarlo giù. Non sarebbe scappato a Maiorca con la coda tra le gambe. Gli venne naturale pensare al grande scrittore Francis Scott Fitzgerald. Uno che aveva vissuto nella dissoluzione, tra feste meravigliose e donne da favola.
Era di nuovo lui. Il vecchio combattente.
Fabrizio Ciba cominciò a cercare, tra i fogli e la posta che affollavano il tavolo, l’invito della festa.

2.

Le Belve di Abaddon, a bordo della Ford Mondeo del loro leader, erano ferme nel traffico. Il navigatore satellitare segnava un chilometro e mezzo a Villa Ada, ma i posti di blocco a via Salaria avevano creato un ingorgo sull’Olimpica e su via dei Prati fiscali.

Mantos, al volante, osservò i suoi adepti nello specchietto retrovisore. Erano stati molto bravi. Si erano tolti i piercing e lavati. Silvietta si era addirittura tinta di nero i capelli. Ma da quando erano partiti da Oriolo stavano in silenzio, con delle facce lunghe e preoccupate. Doveva risvegliarli, questo è il compito di un leader. – Allora, ragazzi? Siete pronti?

– Un po’ nervosi… – Murder aveva la bocca secca.

Silvietta si mordeva il labbro. – Io non ero così agitata nemmeno all’esame di Psicologia generale.
Mantos mise la freccia, accostò a lato dell’Olimpica e li guardò: – Avete fiducia in me?
La faccia di Zombie aveva il colorito di un cavolfiore lesso. – Ne abbiamo, maestro.
– Ascoltatemi bene. La missione, lo sapete, è suicida. Siete ancora in tempo a mollare. Io non obbligo nessuno. Ma se decidete di restare dovremo essere una squadra perfetta, sincronizzati come un orologio svizzero. Dobbiamo essere spietati e avere fiducia nel Maligno che vigila sulle nostre teste – . A quel punto accese l’autoradio e i cori dei Carmina Burana si diffusero nell’abitacolo. «O Fortuna, velut Luna statu variabilis, semper crescis aut decrescis».
– Ascoltatemi! Noi siamo i più cattivi. E io voglio la testa di Larita. Una volta dentro la Villa nessuno si aspetterà il nostro attacco. Quelli si divertono, bevono, abbassano le difese e noi li stronchiamo. Zombie, dietro c’è un tappetino del bagno arrotolato. Prendilo ma fai molta attenzione.
L’adepto si allungò nel bagagliaio e consegnò il rotolo nelle mani di Saverio. Il leader delle Belve di Abaddon poggiò sulle ginocchia il tappeto e lento e solenne lo srotolò.
Un raggio di sole attraversò il finestrino e fece brillare l’acciaio.
«Vita detestabilis nunc obdurat et nunc curat». Il coro continuava il suo crescendo impetuoso.
Mantos, con un po’ di difficoltà, sollevò l’arma oltre i poggiatesta. – Questa è la Durlindana, l’esatta riproduzione della spada di Orlando a Roncisvalle.
– Nooo! – fecero in coro gli adepti. – È stupenda!
Saverio aprì lo sportello. – Usciamo dalla macchina.
Silvietta gli strinse la spalla cercando di fermarlo.
– Aspetta Sommo, ci possono vedere.
– Non importa. Ci nascondiamo dietro la macchina.
Le Belve uscirono e si acquattarono dietro la Ford.
– Inginocchiatevi – . Saverio poggiò la lama della Durlindana sulla testa dei suoi adepti. – Murder! Zombie! Silvietta! Io Mantos, vostro padre carismatico, Gran Sacerdote del Maligno e umile servitore di Satana vi nomino Paladini del Male. Che nessuno osi rompere il nostro giuramento, ora e per l’eternità! Porteremo la missione fino in fondo. Fino al sacrificio finale delle nostre stesse vite. Ora baciamoci!
Le Belve a quel punto si abbracciarono e si baciarono commosse.
– Ma che state a fa’? Siete impazziti?
Si girarono.
Il cugino di Saverio, Antonio Zauli, al volante di un furgone, li guardava basito.
– No… È che… – bofonchiò il leader delle Belve imbarazzato.
– Dài… Che siete in ritardo… Dovete registrarvi. Salite in macchina.

Li fecero entrare dal GATE OVEST, quello di servizio. In tutta la Villa c’erano altri tre ingressi. Due erano chiusi e servivano in caso di emergenza e il terzo, su via Salaria, quello principale, era destinato agli ospiti. Delle imponenti porte di ferro alte dieci metri scorrevano su binari, mosse da pompe idrauliche.

L’ingresso di servizio era pattugliato da guardie private che controllavano la merce in entrata e in uscita. Poco dopo sorgeva il punto di registrazione, una struttura a due piani tutta vetro e colonne d’acciaio anodizzato. Il personale, dai cuochi fino ai battitori per la caccia, doveva essere registrato prima di accedere all’interno.

Le Belve di Abaddon si misero in fila. Davanti a loro c’erano una trentina di persone, la maggior parte di colore.

– Pare di stare all’aeroporto, – commentò Zombie, che una volta era andato a Colonia per il concerto degli AC/DC.

Quando fu il loro turno una guardia gli fece compilare un lunghissimo questionario e firmare un contratto scritto piccolo piccolo. Poi gli stamparono sul polso un codice a barre identificativo. Da li, attraverso un basso corridoio illuminato da una luce soffusa, passarono in una lunga stanza con file di armadietti metallici dove deporre gli abiti e prendere le uniformi. Silvietta si cambiò nello spogliatoio delle donne. Le avevano consegnato una gonna nera, una camicetta bianca e degli scarponcini con la suola carrarmato. Quando riapparve, gli altri cominciarono a ridere e prenderla in giro. Nessuno l’aveva mai vista con la gonna. Però dovettero ammettere che non le stava male.

Su un cartello era scritto in molte lingue che era tassativamente vietato portare all’interno della Villa oggetti personali, compresi telefoni cellulari, macchine fotografiche e videocamere.

– E come facciamo a far passare la spada? E le tuniche? Non possiamo fare il rito senza le tuniche, – sussurrò Murder in un orecchio a Mantos, che le teneva nascoste nello zaino. Sotto il braccio aveva il tappetino del cesso in cui aveva arrotolato la Durlindana.

A questo Saverio non aveva pensato. E ora? L’importante era far credere che era tutto sotto controllo. – Non c’è problema. Sereni – . Prese un respiro e attraversò il metal detector, pregando che l’allarme non suonasse.

Ma così non fu.

– Venga qua, – gli intimò una guardia appesantita dal giubbotto antiproiettile. – Che ha lì?
Mantos srotolò il tappetino con disinvoltura.
La guardia scosse la testa. – Le armi non sono ammesse.
Mantos sollevò le spalle, come se fosse la centesima volta che gli capitava una scocciatura del genere. – Non è un’arma. È solo una riproduzione di una Durlindana, appartenuta a Orlando e prima di lui a Ettore.
L’uomo si tolse gli occhiali scuri mostrando due occhietti espressivi quanto un abat–jour. – In che senso?
Il leader delle Belve guardò i suoi adepti che, insieme alla guardia, aspettavano una risposta. Sorrise. – Nel senso che ha esclusivamente valore estetico – . Gli sembrò un’ottima risposta. Di quelle definitive, a cui non si replica.
– E a che le serve? – replicò invece il tipo.
– A che serve? Ora glielo spiego – . Prese un respiro e si buttò. – Serve per tagliare l’arrosto. Io sono l’addetto al taglio delle carni rosse. E gli abiti che ho nello zainetto servono per uno spettacolo di magia. Sono il mago Mantos e loro tre i miei assistenti.
La guardia si grattò la nuca rasata. – Quindi, mi faccia capire, lei è un mago addetto al taglio delle carni rosse?
– Esattamente.
Qualcosa si ruppe nelle poche certezze granitiche del tipo. – Un attimo – . Si allontanò e cominciò a confabulare con uno che doveva essere il suo superiore.
Poi tornò e disse: – D’accordo, potete andare.
Le Belve tutte irrigidite superarono la zona di controllo e si trovarono in un piazzale pieno di casse di vino, di cibo e di container. Da un lato erano parcheggiate una fila di macchinette come quelle che si usano per il golf. Lo spiazzo era circondato da una rete d’acciaio e sopra erano appesi dei car

telli con scritto: ATTENZIONE. RETI ELETTRIFICATE.

Appena si ritrovarono sole, le Belve non riuscirono a contenere la gioia.
– Grande Mantos! Sei un mito! – Murder diede un paio di pacche affettuose al maestro.
Silvietta si strinse al Sommo. – Bellissima la storia del mago tagliatore di carni.
– Chissà che si sono detti quei due. Li hai spiazzati, –sghignazzava Zombie.
– Basta! Basta così – . Il leader tentava di arginare i baci dei suoi adepti.
– Ancora! Ma allora siete froci? – gli urlò Antonio alla guida di una macchinetta elettrica. – Dài salite, veloci. Vi porto alla zona cucine. C’è un sacco da fare e tra poco cominceranno ad arrivare gli ospiti.
Mantos si guardò intorno. – Ma a che serve tutta ’sta sicurezza?
Antonio schiacciò l’acceleratore: – Adesso lo scoprirete.
Attraversarono il cancello e imboccarono una stradina di terra che si immergeva nel bosco. All’inizio non si accorsero di nulla, poi a Zombie sembrò di vedere qualcosa saltare fra le fronde degli alberi. Finché sentirono degli urli striduli al loro passaggio.
– Gibboni. Tranquilli. Sono inoffensivi.
– Nooo. Non è possibile! Guardate – . Zombie indicò qualcosa al di là del bosco. Dove gli alberi si diradavano si stendeva una prateria verdissima, in cui pascolavano gnu, gazzelle e giraffe. Più in là, in un lago limaccioso, si scorgevano le groppe infangate di un branco di ippopotami. In cielo volavano stormi di avvoltoi.
Mantos era incredulo. – Sembra di stare allo zoosafari di Fiumicino.
– E questo è niente. Vedrete dopo, – sorrise soddisfatto Antonio.
Sulla loro destra, nascosta da una fila di lecci, scorsero una specie di centrale elettrica in miniatura. Grandi trasformatori dipinti di verde si confondevano con la vegetazione emettendo un ronzio sordo. Tubi colorati spuntavano dalla struttura e si piantavano nel terreno.
– Questa è la fonte che alimenta tutto il parco, – spiegò Antonio. – Chiatti si produce l’energia elettrica da solo utilizzando gas. È più conveniente che acquistarla dall’Acea, vista la quantità di kilowatt che gli servono per mantenere sotto tensione i recinti, illuminare il parco, alimentare la sala dei computer…
La strada fu attraversata da una decina di zebre con un paio di puledrini al seguito. Silvietta era in estasi. – Guardate i cuccioli. Sono tenerissimi.
Attesero che passassero e ripresero il viaggio.
Saverio, con tono disinteressato, domandò al cugino: – Senti, ma Larita è arrivata?
Antonio sollevò le braccia. – Credo che Chiatti le abbia riservato un appartamento nella Villa Reale, più di questo non so.
Poco dopo tra le cime degli alberi apparve un vecchio edificio di tre piani coronato da un terrazzo con due torrette.
– Siamo arrivati alla Villa Reale.
Il cortile posteriore della casa, nascosta da alte siepi di bosso, era un viavai frenetico di uomini e mezzi nel polverone alzato dagli pneumatici di furgoni, pick–up e Land Rover. Squadre di operai in uniformi verdi scaricavano cibi, bottiglie, tovaglie, bicchieri, posate e tavoli sotto il comando di uomini vestiti di nero che urlavano neanche fossero in un carcere militare. Sotto una tettoia, accovacciati nella polvere, i battitori di colore, in perizoma, mangiavano dalle gavette quelli che sembravano dei tortellini in brodo.
In un angolo c’erano dei prefabbricati da cui usciva fumo e odore di cibo.
– Quelle sono le cucine. Tra poco arriverà Zóltan Patrovič a controllare come procedono le cose. Mi raccomando – . La faccia di Antonio si fece seria. – Non fatevi trovare con le mani in mano.
– Chi è Zóltan Patrovič? – deglutì Silvietta preoccupata.
– Si vede che venite da Oriolo. È un famoso chef bulgaro. È molto esigente, quindi fate bene il vostro lavoro.
I quattro scesero dalla macchinetta.
Antonio indicò un uomo in nero. – Adesso andate da quello li e domandategli che dovete fare. Ci rivediamo dopo… E mi raccomando, niente cazzate.

3.

Fabrizio Ciba era fermo al semaforo all’incrocio della Salaria con viale Regina Margherita in sella alla sua vespa che sputacchiava fumo scuro. Era riuscito a recuperarla e rimetterla in moto.

Gli inchiodarono accanto, sopra uno scooter, due adolescenti con le chiappe e le mutande che spuntavano dai jeans a vita bassa. L’osservarono un istante, squittirono eccitate e poi quella di dietro gli domandò: – Scusa? Ma sei Ciba? Lo scrittore della televisione?

Fabrizio sfoderò la sua espressione ironica mettendo in mostra la dentatura sbiancata. – Sì, ma non ditelo a nessuno. Sono in missione segreta.

La biondina gli chiese: – Ma che vai alla festa a Villa Ada?

Lo scrittore fece spallucce come a dire: «Mi tocca».
L’altra ragazzina masticando la gomma gli domandò: – Non è che ci puoi imbucare? Ti prego… Ti prego… Ti scongiuro… Ci sono tutti…
– Magari, ma mi sa proprio che non si può. Mi divertirei molto di più se ci foste pure voi.
Il semaforo divenne verde. Lo scrittore ingranò la prima e la vespa scattò. Per un secondo Ciba si vide riflesso nella vetrina di una boutique. Per l’occasione si era messo un paio di pantaloni di tela marrone chiaro, una camicia oxford azzurrina, una cravatta Cambridge blu lisa che era appartenuta a suo nonno e una giacca di cotone madras a tre bottoni di J. Crew, a righine bianche e grigie. Il tutto rigorosamente stropicciato.
Più avanzava verso Villa Ada e più il traffico aumentava. Drappelli di vigili cercavano di deviarlo su via Chiana e via Panama. In alto ronzava un elicottero dei Carabinieri. Sui marciapiedi ai lati della strada la folla si accalcava, dietro le transenne controllate da celerini in tenuta antisommossa. Molti erano giovani dissidenti dei centri sociali che manifestavano contro la privatizzazione di Villa Ada. Dai balconi pendevano degli striscioni. Uno lun

ghissimo diceva: CHIATTI MAFIOSO!RIDACCI IL NOSTRO PARCO! Un altro: GIUNTA COMUNALE MANICA DI LADRI! E

poi: VILLA ADA TORNI AI ROMANI!

Fabrizio decise di parcheggiare la vespa e di riflettere su un aspetto che non aveva considerato. Partecipando alla festa di Chiatti la sua immagine pubblica di intellettuale impegnato ne avrebbe risentito negativamente. Lui era uno scrittore di sinistra. Aveva aperto il congresso nazionale del Pd, chiedendo un impegno urgente per la cultura italiana oramai agonizzante. Non si era mai tirato indietro da una presentazione al Leoncavallo o al Brancaleone.

Sono ancora in tempo a tornarmene a casa, nessuno mi ha visto…
– A frocione!
Fabrizio si girò. Paolo Bocchi alla guida di una Porsche Cayenne gli si fermò accanto.
E no!
– Scritto’, lascia ’sto catorcio e sali in macchina, va’! Fai un ingresso come si deve.
– Vai vai, ho una telefonata di lavoro, ci vediamo dentro, – mentì Fabrizio.
Il chirurgo indicò un gruppo di ragazzotti con la kefiah. – Ma che vogliono ’sti scassacazzi? – E parti strombazzando.
Che fare? Se bisognava andarsene era meglio farlo in fretta. Fotografi e troupe televisive si aggiravano famelici alla ricerca degli invitati.
Mentre osservava i ragazzi dei centri sociali che urlavano ai poliziotti: «Siete merde e merde resterete», a Fabrizio tornò in mente una cosa che ogni tanto inspiegabilmente si scordava: Io sono uno scrittore. Io racconto la vita. Come ho denunciato l’abbattimento delle foreste millenarie finlandesi, posso sputtanare ’sta banda di arricchiti e mafiosi. Un bell’articolo tosto in cultura di «Repubblica» e li sistemo tutti. Io sono diverso. Si osservò il vestito stropicciato. A me non mi comprate! Io vi faccio il culo! Rimontò sulla vespa, ingranò la prima e affrontò la folla.
La composizione degli spettatori dietro le transenne stava cambiando. Ora c’erano più ragazzine e famiglie intere coi cellulari, che presero a fotografarlo e a urlargli di fermarsi.
Finalmente arrivò al varco presidiato da una ventina di hostess e un drappello di guardie private. Una ragazza bionda fasciata in un tailleur attillato gli si fece incontro. – Buon giorno, felice di averla con noi. Non eravamo certi della sua presenza, lei non ha confermato.
Fabrizio si sfilò i Ray–Ban e la guardò. – Ha ragione, sono terribilmente colpevole. Come posso farmi perdonare?
La ragazza sorrise. – Lei non ha niente da farsi perdonare… basta che mi dia il suo invito – . E protese la mano verso lo scrittore.
Fabrizio prese la busta. Dentro, oltre all’invito, c’era una tessera magnetica. La consegnò alla hostess, che la strisciò su un lettore. – Tutto a posto dottor Ciba. La vespa le conviene parcheggiarla qui a sinistra e farsi la passerella a piedi. Buon divertimento.
– Grazie, – rispose lo scrittore e inserì la prima. Girò a sinistra oltre il tappeto rosso che portava all’ingresso, verso uno spiazzo dove erano parcheggiate Bmw, Mercedes, Hummer, Ferrari. Mise la vespa sul cavalletto, si tolse il casco e si ravviò la chioma con le mani. Mentre si dava un’occhiata di controllo allo specchietto, dalle transenne sentì un urlo strozzato: – A falsoooo! – Non ebbe neanche il tempo di capire cosa stesse succedendo che qualcosa di pesante lo colpì sulla spalla sinistra. Pensò per un attimo che i Black Bloc avessero lanciato una gragnola di sampietrini. Sbiancò e arretrò terrorizzato e si acquattò dietro un Suv. Poi ingoiando aria si guardò la spalla offesa. Un arancino siciliano, ripieno di riso e piselli, gli era esploso sulla giacca e colava lentamente sul petto lasciando una bava oleosa di mozzarella e sugo bollente. Fabrizio si strappò dalla spalla l’arancino come fosse una sanguisuga infetta e lo scagliò a terra. Offeso, deriso e umiliato si girò verso la folla. Tre uomini in giacca e cravatta con i capelli ricci e la barba lo guardavano con odio, neanche fosse Mussolini (arrestato tra l’altro proprio a Villa Ada). Lo indicavano con le braccia tese e gli urlavano in coro: – Ciba bastardo! Devi morire! Sei un venduto – . Lo scrittore riuscì a schivare per un pelo un bicchierone da un litro di Coca-Cola che esplose sul muso del Suv.
Un blindato vomitò una falange di celerini che aggredì a manganellate i facinorosi. I tre cercarono di difendersi tirando su una transenna. A quello che gli aveva lanciato l’arancino un poliziotto colpì l’arcata sopraciliare, un fiotto di sangue sprizzò trasformandogli la faccia in una maschera rossa. Gli altri due finirono a terra sotto i colpi dei manganelli.
Un giovane poliziotto prese lo scrittore per un braccio e lo trascinò indietro urlando: – Via, via da là!
Fabrizio, angosciato e confuso, lo segui senza riuscire a staccare gli occhi dall’uomo insanguinato che da terra continuava a urlare: – Ciba maledetto! Sei uguale agli altriiii! Ipocrita venduto! Fai schifo – . Mentre i celerini continuavano a pestare, sul tappeto rosso si fermavano le ammiraglie e gli invitati facevano la loro passerella fra i flash dei fan e dei fotografi. Fabrizio Ciba si rifugiò tra le macchine con il cuore che gli martellava lo sterno. – Ma che cazzo… – ansimò asciugandosi il sudore dalla fronte, – … so’ matti!
– Si sente bene? – gli chiese il poliziotto.
Ciba gli fece cenno di sì con la testa.
– Che aspetta? Vada, vada che qui è pericoloso.
Fabrizio si sentì morire. No, no, io tomo a casa.
Non poteva. Si immaginò i titoli dei giornali: Lo scrittore Fabrizio Ciba contestato dai centri sociali alla festa di Chiatti scappa via. Che poi quei tre tutto sembravano, tranne che ragazzi dei centri sociali.
Ormai era nella merda e l’unica via per uscirne, a questo punto, era stare un paio d’ore alla festa e poi andarsene a casa e scrivere un bell’articolo infuocato. Si avviò verso la passerella con la giacca unta di olio e pomodoro. Decise che era meglio levarsela e tenerla con nonchalance appesa a una spalla.
Davanti all’ingresso della Villa la situazione era completamente diversa. Macchinoni eleganti continuavano a sputare fuori attori, calciatori, politici, veline fra gli applausi e le urla degli spettatori schiacciati sulle transenne come polli alla griglia. Una roba del genere non l’aveva vista nemmeno al festival di Venezia. I vip salutavano e le donne si lasciavano fotografare nei loro abiti firmati. Una ragazza riuscì a superare le transenne e si lanciò su Fabio Sartoretti, il comico di Bazar. Ma le guardie del corpo la inchiodarono a terra e la rigettarono nella folla, che se la risucchiò.
Ciba prese il coraggio a due mani e si avviò a testa bassa, sperando di non essere riconosciuto, verso il tappeto rosso. Ma vedendo che i fan lo salutavano così calorosamente non riuscì a trattenersi e cominciò a sventolare la mano.
In quel momento una Bmw con i vetri neri frenò davanti alla passerella. Dall’auto uscirono un paio di gambe abbronzate che sembravano non finire mai. Poi uscì il resto di Simona Somaini. La miss Italia 2003, che aveva intrapreso con successo la carriera di attrice con Sms dall’aldilà, addosso aveva un fazzoletto di Strass che le lasciava scoperta la schiena e una buona porzione di culo e davanti le velava appena i seni ma non il ventre liscio e abbronzato. Accanto a lei riconobbe la famosa agente dello spettacolo Elena Paleologo Rossi Strozzi che sembrava, in confronto alla diva, un pigmeo con il verme solitario. Ciba, nonostante fosse ancora scosso dall’incidente, alla vista di quella puledra di razza pensò che la giornata in fondo non era da buttare via. E soprattutto pensò che non se l’era mai scopata, e questa mancanza andava colmata.
Fabrizio spalancò il torace, cacciò in dentro lo stomaco e mise su la sua ineffabile espressione da scrittore maledetto. Si accese una sigaretta, se la piazzò all’angolo della bocca e le passò accanto distratto.
– Fabri! Fabri!
Ciba contò fino a cinque, poi si girò e la guardò perplesso, come se davanti avesse un’opera di Mondrian. – Aspetta… Aspetta…? – Poi scosse la testa. – No… Scusami…
L’attrice non era proprio offesa, era, piuttosto, disorientata. Negli ultimi anni non l’avevano riconosciuta solo quando era andata a trovare suo zio Pasquale in un istituto per ciechi a Subiaco. Poi pensò che lo scrittore soffrisse di miopia. – Fabrizio? Sono Simona. Non dirmi che non ti ricordi di me?
– A Recanati, forse? – Fabrizio buttò li il primo nome che gli venne in testa. – Per il seminario su Leopardi?
– Porta a Porta un mese fa! – La Somaini avrebbe voluto fare il broncio, ma il botulino glielo impedi.
– La triste storia del piccolo Hans…
Ciba si diede un colpetto sulla fronte. – Cazzo, l’Alzheimer… Come si fa a dimenticare la venere di Milo! Ho pure il tuo calendario in bagno.
La Somaini emise un verso simile al richiamo del chiurlo in amore: – Non dirmi che tu hai il mio calendario! Uno scrittore come te con quel calendario da camionisti.
Fabrizio mentì spudoratamente. – Adoro Febbraio.
Lei si diede un colpo alla chioma. – Ma che ci fai qui? Non pensavo che tu fossi tipo da queste feste.
Ciba alzò le mani. – Non lo so… Una forma congenita e mai riconosciuta di masochismo? Un’insostenibile voglia di socialità?
– Fabrizio, ma non senti come… un odore buono di sugo, di pomodoro e mozzarella? – L’ultimo arancino che la Somaini aveva assaggiato era stato per la sua cresima.
– Boh… No, non mi pare, – disse Ciba odorando l’aria. Rita Baudo del Tg4 lo tolse dall’impaccio. Arrivò con un microfono seguita da un cameraman.
– Ma ecco qui l’attrice Simona Somaini come sempre in splendida forma con lo scrittore Fabrizio Ciba! Non mi dite che ho beccato lo scoop!
La Somaini con un riflesso pavloviano si appolipò al braccio di Ciba. – Ma che dici, Rita? Siamo amici!
– Non volete svelare niente agli ascoltatori di Varietà? –Rita Baudo piazzò il microfono sui denti di Ciba, che lo allontanò infastidito. – Hai sentito cosa ha detto Simona? Solo vecchi amici.
– Un saluto ai nostri telespettatori ce lo fai?
Fabrizio agitò una mano davanti alla telecamera:
– Ciao – . E si allontanò con la Somaini al braccio.
La Baudo si girò verso l’operatore e guardò sorniona in macchina: – Secondo me questi due non ce la raccontano giusta!
Un urlo disumano si levò dal girone infernale oltre le transenne. La Baudo cominciò a correre. Da una Hummer stava scendendo Paco Jiménez de la Frontera e Milo Serinov, il centroavanti e il portiere della Roma.

4.

A circa trecento metri dal parterre dei vip, nel piazzale dietro la Villa Reale le Belve di Abaddon erano state messe sotto. Zombie smadonnava e scaricava casse di Fiano d’Avellino da un furgone. Mantos era finito in cucina a fare lo sguattero. A Murder e Silvietta invece avevano dato il compito di lucidare sei casse di posate d’argento per la cena indiana.

La vestale strofinava ad occhi bassi una forchetta con un panno. – Sei il solito.
Murder sbuffò. – Senti, possiamo lasciare perdere per una volta…
– No, non lasciamo perdere proprio per niente. Avevi promesso che glielo avresti detto in macchina. Perché non lo hai fatto?
Murder gettò spazientito un coltello da lucidare tra quelli lucidati. – Ci ho provato… Ma alla fine non mi ha retto, dopo quel discorso che ha fatto come facevo? E poi scusa, perché tocca sempre a me dire le cose difficili?
Silvietta scattò in piedi. Certe volte non sopportava il suo fidanzato. – Guarda che sei stato tu a dirmi che glielo avresti detto. Che non c’era problema.
Murder aprì le braccia. – E infatti che problema c’è? Appena posso glielo dico.
La fidanzata lo afferrò per un polso. – No, adesso glielo andiamo a dire subito! Cosi stiamo più tranquilli. Va bene?
Murder si alzò controvoglia. – Va bene. Però che noia che sei… Sai come s’incazza…
I due attraversarono il piazzale facendo attenzione a non farsi beccare da Antonio, che in piedi su una cassa dava ordini a tutti. Da uomo mite e affabile si era trasformato in un kapò.
Murder e Silvietta entrarono nelle cucine. Erano tre stanze enormi. Piene di macchine d’acciaio inox, vapori, profumi e aromi di tutti i tipi. Ci saranno stati almeno una cinquantina di cuochi vestiti di bianco e con il cappello in testa. E un esercito di sguatteri tutti indaffarati. Il rumore di pentole e voci era assordante.
Trovarono Saverio seduto su uno sgabello con un coltellino in mano. Pelava un mucchio di patate con cui si sarebbe potuta sfamare tutta Rebibbia.
Mantos li vide e a bassa voce sussurrò: – Che fate qui? Siete impazziti? Se vi beccano… Ho detto a Zombie che tra mezz’ora ci vediamo fuori per un breve briefing in cui vi comunico il piano d’azione. Adesso, però, uscite.
Murder lo guardò e torcendosi tutto sussurrò: – Aspetta… Abbiamo una cosa importante da dirti.
Mantos si alzò e li portò in un angolo. – Cosa?
– Ecco… – Murder non riusciva ad andare avanti.
– Ecco cosa? Di’, forza!
Una voce flautata con un forte accento dell’Est, alle loro spalle, disse: – A voi due chi vi ha dato il permesso di entrare nel tempio?
Nelle cucine era calato un silenzio sepolcrale. Anche le cappe aspiratrici e i minipimer sembravano essersi zittiti. I passeri fuori erano ammutoliti.
Le Belve si girarono e si trovarono di fronte, avvolto dai vapori del bollito, un monaco. Solo che il saio era di seta nera, ricamato con degli uccelli del paradiso argentati. Teneva le dita incrociate nascoste dentro le ampie maniche del vestito ed era a piedi nudi. Da sotto il cappuccio spuntavano una barbetta bianca appuntita, due zigomi squadrati, un naso a becco e due occhi grigi e freddi come una giornata d’inverno sul Mar Caspio.
Il leader delle Belve di Abaddon ebbe la certezza che quello fosse Zóltan Patrovič, l’imprevedibile chef bulgaro.
Saverio non aveva visto il grande Rasputin, il monaco maledetto che aveva condannato con i suoi imbrogli e malefici lo zar e la sua famiglia. Ma pensò che quello davanti a lui doveva esserne la rincarnazione.
Dietro di lui tutti i cuochi e gli sguatteri erano immobili e con gli occhi bassi.
– No… È che… Non si sa… – A Saverio uscirono dalla bocca un po’ di parole senza costrutto. Avrebbe voluto assumersi la colpa, ma era come se la lingua fosse intorpidita da un’iniezione di lidocaina. E non riusciva a staccare gli occhi da quelli dello chef. Due pozzi neri. Erano così profondi. Gli sembrò di esserci risucchiato dentro.
Zóltan gli afferrò con una mano la fronte.
Il leader delle Belve avverti un benefico flusso di calore scorrere dai polpastrelli dello chef nella sua testa e si ritrovò a pensare alla frittata di maccheroni che gli faceva zia Imma quando da piccolo andava l’estate a Gaeta.
Mi sta ipnotizzando, pensò per un attimo, ma subito dopo rifletté che una frittata così buona non l’aveva più mangiata. Era speciale perché la faceva con i resti della pasta alla puttanesca del giorno prima. Alta e compatta. Leggermente bruciacchiata. E dentro c’erano tante olive e capperi. Peccato che zia Imma era morta, sennò adesso l’avrebbe chiamata pregandola di rifargliela. Poi si disse che in fondo bastava chiedere perdono a Zóltan e sarebbe potuto correre a casa e se la sarebbe potuta fare da solo una frittata così buona. Chissà se in frigo c’erano le uova?
– Mi scusi. Lei ha perfettamente ragione. Abbiamo sbagliato e siamo mortificati. Adesso però dovrei scoprire se Serena ha comprato le uova, – disse serio Mantos.
– In ginocchio, – ordinò Patrovič con tono piatto.
I tre, come se fossero radiocomandati, si misero in ginocchio.
– Testa a terra.
I tre misero la testa a terra.
Il monaco gli montò sulle schiene.

Che strano, non pesa per niente, si disse Saverio. Forse sta levitando.
Lo chef rimase in silenzio per almeno un paio di minuti in piedi su di loro.
Saverio non poteva vedere, avendo la faccia appiccicata al pavimento, ma immaginò che lo chef stesse guardando i cuochi. Alla fine Zóltan disse: – Bene. Ci siamo capiti – . E scese dalle schiene delle Belve.
Tutti fecero segno di si e si rimisero al lavoro senza fiatare.
È telepatico, intuì Saverio.
Poi il monaco attraversò la cucina avanzando rigido come una statua di legno, quasi che sotto al saio avesse uno skateboard. I cuochi s’inchinavano e gli porgevano i piatti. Lui ci passava una mano sopra come un pranoterapeuta.
Ogni tanto sussurrava: – Meno zenzero. Più sale. Troppo cumino. Manca il rosmarino.
E poi, così come c’era, non c’era più.