37.Amatriciana di mezzanotte
Fabrizio prese da parte Larita e le disse sottovoce: – Adesso io e te, belli come il sole, ce ne andiamo via da questo posto. E anche di corsa. Ho un brutto presentimento.
– E quella povera donna? – La cantante indicò
Mara Baglione Montuori, che continuava a sbrogliarsi i capelli con
la forchetta. – Che facciamo?
– Non possiamo portarcela dietro, ci rallenterebbe. Appena troviamo
qualcuno gli diciamo di andare a prenderla.
Larita era incerta. – Non so… Lasciarla qui da
sola non mi sembra giusto.
– È giusto, dài retta a me – . Fabrizio le prese una mano e la tirò
sul pontile. – Mi pare di ricordare che vicino al lago c’è un
ingresso alla Villa – . Strappò da terra una lunga canna di bambù
su cui bruciava una lampada a petrolio. – Muoviamoci.
Si incamminarono lungo un viale costeggiato da grandi platani,
lasciandosi alle spalle il lago.
Un sacco di domande giravano in testa allo scrittore. Continuava a
vedere i coccodrilli che strappavano pezzi di carne dal corpo
dilaniato del gallerista.
Larita gli camminava accanto a testa bassa e non parlava.
Stava per dirle di spicciarsi quando avverti, o gli parve di
avvertire, dei movimenti nel buio. Fece segno a Larita di fermarsi
e rimase in ascolto. Nulla. Si sentiva soltanto, in lontananza, il
rumore delle automobili sulla Salaria.
Devo essermi sbagliato.
Guardò Larita. Aveva gli occhi lucidi e tremava.
Fabrizio si accorse che il cuore gli andava a mille. Le prese la
mano. – Dovremmo essere quasi arrivati.
Ripresero la marcia.
– Cosa c’è lì? – strillò Larita facendo un salto
indietro.
Fabrizio si immobilizzò. – Dove?
– Quell’albero.
Fabrizio, con le gambe molli come tentacoli, alzò la lampada verso
il punto che gli aveva indicato Larita. Non vedeva nulla. Fece un
passo in avanti agitando la lampada intorno a sé. I rami degli
alberi si protendevano sulla stradina. Non c’era nulla, ma che
cazzo, si stava cagando sotto. Il panico gli afferrò la gola…
quella cos’era?
Una sagoma nera era appesa a un ramo.
Una scimmia?
Non poteva essere una scimmia. Troppo grande.
Un gorilla?
Troppo grasso. Per un attimo pensò che fosse una scultura, un
manichino appeso.
Si tirò indietro e la flebile luce della lampada rischiarò il resto
della chioma dell’albero. Appesi c’erano altri due…
Uomini.
Dei ciccioni che si dondolano.
Si girò su se stesso e urlò a Larita: – Scappa! Veloce!
Sentì alle sue spalle un rumore attutito e un rantolo. Uno di quei
mostri doveva essersi buttato giù.
Cominciò a correre a perdifiato. La lanterna gli si spense in mano
e l’unica luce rimase quella lontana del bivacco.
Galoppava disperato come mai aveva fatto in vita sua, sentendo il
brecciolino che strideva sotto le suole delle scarpe e l’aria che
gli turbinava giù per la trachea.
Sperava che Larita gli fosse accanto.
E se è rimasta indietro?
Girati! Fermati! Chiamala!, gli urlava la testa.
Avrebbe voluto farlo, ma riusciva solo a correre e a pregare che
lei stesse facendo altrettanto.
Ma dopo poche decine di metri la sentì gridare.
L’hanno presa! Porca troia bastarda, l’hanno
presa!
Mentre correva girò la testa. Tutto era immerso nel nero e in quel
nero sentì i suoi lamenti e i versi gutturali dei mostri. –
Fabrizio! Aiutami! Fabrizio!
Si fermò, piegato in due dal fiatone e sospirò: – Sono troppo
vecchio per questa merda – . Poi con un coraggio inaspettato urlò:
– Lasciatela bastardi!
– E tornò indietro, a pugni chiusi, a occhi chiusi, mulinellando le
braccia, sperando di spaventarli, di cacciarli, di
annientarli.
Ma inciampò, cadde a terra e sbatté la mandibola contro la ghiaia.
Nonostante il dolore si rialzò, il sangue tra i denti, e nel
momento in cui si rialzava, un pugno, un bastone, qualcosa di
pesante, si abbatté con una violenza inaudita sulla sua spalla
destra e lui si ritrovò ancora a terra e urlando fino a farsi
scoppiare le tempie provò di nuovo, caparbio, a rialzarsi, ma un
altro pugno gli affondò nello stomaco.
Fabrizio Ciba si afflosciò come un pallone squarciato e mille
lucine arancioni gli esplosero davanti agli occhi. Cacciò fuori
tutta l’aria che aveva in corpo e mentre era li che agonizzava
sentì delle mani enormi che lo afferravano e lo sollevavano con la
stessa facilità con cui un essere umano solleva una busta della
spesa.
Era in apnea, adagiato sopra la spalla dell’essere che camminava.
Schiuse gli occhi. Il cielo rosato era sopra di lui, poteva
toccarlo con una mano e sentiva il rantolo dei suoi polmoni
strizzati che, come sacchetti sotto vuoto, risucchiavano
l’aria.
E mentre si diceva che ce la poteva fare a respirare di nuovo e a
non morire, si rese conto che l’oscurità era qualcosa di più che la
semplice assenza di luce. Era la sostanza nella quale sarebbe
affogato.
Un colpo alla nuca gli strappò via quell’ultimo pensiero.
38.
– Che stai mangiando? E dacci qualcosa. Non
fare l’infame.
Saverio Moneta vide tre tizi che si affacciavano alla porta. Quello
più alto con il frangettone e gli occhiali senza montatura l’aveva
visto sicuramente in tv, doveva essere un presentatore. L’altro,
più tracagnotto e con la fronte alta due dita, doveva essere un
politico. E il terzo, boh… Non lo conosceva.
Con le loro divise da cacciatori marchiate Ralph Lauren, con i loro
capelli pieni di gel, con le bottiglie di Champagne in mano si
sentivano dei Padreterni, ma erano solo tre pezzi di merda
ubriachi.
Saverio se ne intendeva di pezzi di merda. Aveva avuto a che fare
con quel tipo di persone precocemente, negli anni della scuola. Di
solito si aggiravano in gruppo per potersi fare forza l’uno con
l’altro. E se ti inquadravano, se capivano che volevi essere
lasciato in pace, ti giravano intorno come iene affamate.
Se ti diceva bene ti aspettavano fuori da scuola e con un’occasione
qualsiasi attaccavano briga, ti picchiavano e lì finiva. Altre
volte invece si mascheravano da amici, erano simpatici e cordiali e
ti facevano credere che potevi essere uno di loro e a quel punto,
come uno scemo, abbassavi le difese e quelli ti spezzavano il cuore
prendendoti per il culo. Poi ti buttavano via come un giocattolo
rotto. La domenica però andavano a messa con le famiglie e
prendevano la comunione. Dopo le superiori, sponsorizzati dal
capitale familiare, partivano per studiare all’estero. Li si
ripulivano e quando tornavano a Oriolo erano avvocati,
commercialisti, dentisti. Sembravano persone perbene, ma sotto
erano ancora dei pezzi di merda. Spesso finivano in politica e
parlavano di Dio, di valori familiari e patria. Questi erano i
nuovi cavalieri della cultura cattolica.
Saverio si cacciò in fretta in fondo alla tasca dei pantaloni il
biglietto di Zombie. Strizzò gli occhi e le labbra gli si stirarono
in un ghigno sardonico. – Vuoi vedere che sto mangiando?
Il tipo con il pizzetto gongolò. – Io e te ci capiamo, fratello.
Mostra i tesori che nascondi.
E il politico aggiunse. – Condividilo con i tuoi amici.
Saverio si girò con gli occhi spiritati. Raccolse il corpo di
Zombie da terra. Si stupì di come pesasse poco. – Cosa preferite,
una coscia o un braccio? – E gli mostrò i resti
carbonizzati.
I tre sulle prime non capirono che roba fosse. Il tipo con il
pizzetto fece un passo in avanti e poi uno indietro in una specie
di maldestra tarantella. – Oddio…
– Ma che cazzo è? – Il politico afferrò il braccio al
presentatore.
– Pare un morto abbrustolito. Ammazza che schifo, –concluse il
terzo facendo cadere la bottiglia di Champagne, che si disintegrò
in mille schegge.
Saverio poggiò a terra Zombie, afferrò la Durlindana con due mani e
la sollevò oltre la spalla. – Allora cosa vi taglio? Un braccio o
una coscia?
I tre disgraziati si voltarono e scapparono, spintonandosi per
passare per primi attraverso il piccolo cancello. Il politico
cacciò un urlo disperato e sprofondò fino al busto nella terra, che
si aprì come una bocca per inghiottirlo. Il poveretto cominciò a
sbracciarsi ma qualcosa, da sotto, lo tirava giù. Allargò le
braccia cercando di opporsi ma un attimo dopo era sparito nel buco
nero.
Gli altri due rimasero li, in piedi sul bordo, imbambolati, senza
sapere che fare. Poi il presentatore prese coraggio e si sporse un
attimo sul buco, ma un attimo fu sufficiente perché un enorme
braccio schizzasse fuori e lo afferrasse per la barbetta. L’uomo,
di testa, fu trascinato dentro la buca e venne risucchiato anche
lui nelle vìscere della terra.
Il terzo stava per fuggire quando una mano spuntò fuori e gli
afferrò la caviglia per tirarlo dentro. L’uomo finì a terra e prese
a scalciare per liberarsi dalla morsa. Con l’altro piede colpiva la
manona avvinghiata alla sua gamba. Ma non le faceva nulla. Quelle
dita grosse come sigari e con le unghie nere erano insensibili al
dolore. Cercava di opporsi puntando le mani contro il terreno e
implorava: – Aiutatemi! Vi prego! Aiutatemi! – Riuscì ad
aggrapparsi a un palo del cancello. Un’altra mano gli prese la
gamba libera e a quel punto non ci fu nulla da fare, anche lui
sparì nel buco.
Saverio Moneta, impietrito sulla porta della cabina, aveva visto la
scena. Era durata nemmeno tre minuti.
Cazzo… Cazzo… Cazzo… Era l’unica parola
che il suo cervello riusciva a concepire mentre vedeva che dal
buco, lentamente, ma senza troppi sforzi, uscivano due braccia
grosse come prosciutti, seguite da una testa piccola e calva
incassata tra due scapole spioventi e poi dal resto di un essere
enorme avvolto da copertoni di ciccia. Sembrava indossasse una tuta
da ginnastica verde di Sergio Tacchini.
Peserà almeno duecento chili.
Saverio aveva letto diversi trattati sull’uso delle armi bianche
nel Giappone feudale e sapeva che esisteva un mitico colpo mortale
che il maestro del sedicesimo secolo Hiroyuki Utatane aveva
chiamato Il Vento tra i Loti. Richiedeva molto equilibrio, ma se
ben effettuato era capace di staccare di netto la testa
all’avversario.
Cacciò un urlo, sollevò un piede, saltò in aria e nello stesso
tempo compi una piroetta di centottanta gradi tenendo la Durlindana
dritta davanti a sé.
La spada tagliò l’aria mentre l’essere, con la rapidità e la grazia
di una ballerina obesa, fece un passo indietro, allungò una mano e
afferrò la lama.
Saverio, per il contraccolpo, volò indietro e finì contro il muro
della casetta. Aveva ancora il manico tra le mani. Ma il resto
della spada era stretta nel pugno dell’essere, che la gettò a terra
come spazzatura.
La solita monnezza di eBay… Saverio
buttò via ciò che restava della sua spada sacrificale. Non credo che potrò dare un feedback negativo a quei
bastardi di The Art of War di
Caserta.
Il bestione gli si avvicinò a meno di un metro. Gli incombeva
addosso con tutta la sua stazza.
Il leader delle Belve di Abaddon alzò la testa per guardarlo. Uno
smunto raggio di luna brillava negli occhietti rossi e inespressivi
del mostro, che scosse la testa e sorrise mostrando una sfilza di
denti storti e cariati. Saverio si sentì afferrare per le braccia e
sollevare in alto. Chiuse gli occhi cercando di risucchiare nei
polmoni tutto il dolore.
Sentiva il respiro putrido del mostro. Avrebbe voluto sputargli in
faccia, ma in bocca non aveva più saliva.
Non importa. Era pronto a morire. Non
avrebbe pregato, non avrebbe implorato. Sarebbe morto come Mantos,
il dio etrusco della Morte.
Il mostro lo lanciò contro un albero e l’ultima cosa che Saverio
vide prima di schiantarsi contro il tronco fu la luna, tonda e
immensa, che era riuscita a trovare un varco tra i veli lattiginosi
delle nuvole. Era così vicina.