5.Buffet di benvenuto

Anche Fabrizio Ciba e gli altri invitati furono costretti a sottoporsi a una trafila simile a quella subita dalle Belve per entrare nella Villa. Lo scrittore attraversò il metal detector.

Quando toccò alla Somaini, fu costretta a lasciare il cellulare.
– Ma che è ’sta pagliacciata? – domandò lo scrittore a una hostess. La ragazza spiegò che Chiatti non voleva che la festa diventasse un evento pubblico. Quindi non si potevano mandare foto, video né tantomeno comunicare con l’esterno. Per questa ragione non erano stati accreditati i giornalisti.
– Non preoccuparti, ci stanno i fotografi di «Sorrisi & Canzoni». Chiatti gli ha dato l’esclusiva, – gli confidò a bassa voce la Somaini, che di queste cose era un’esperta.
I due uscirono dal posto di controllo e si trovarono di fronte a un piccolo treno a forma di siluro, poggiato su una monorotaia. Sopra c’era scritto:

VILLA ADA ENTERPRISE.

Si sedettero su delle poltroncine di pelle nera. Gli altoparlanti della carrozza diffondevano la voce di Louis Armstrong che cantava What a Wonderful World. Insieme a loro montò in carrozza Paco Jiménez de la Frontera, con i lunghi capelli ossigenati e il mascellone che faceva impazzire le donne. Per l’occasione il calciatore indossava uno smoking sbrilluccicante e sotto una maglietta di raso bianca. La sua donna, la statuaria modella di Montopoli di Sabina, Taja Testari, era ricoperta da capo a piedi da un vestito di organza nera che le velava il corpo nudo.

Fabrizio, dopo il gran galà di Canale 5, se l’era fatta, ma era talmente ubriaco che si ricordava solo che mentre scopavano lei gli aveva tirato un cartone sul naso, non sapeva se per un gioco erotico o perché lui le aveva strappato il vestito.

Lo raggiunse anche il compagno di squadra Milo Serinov con un’ex velina al seguito, lasciando dietro di sé una scia nauseabonda di dopobarba. Simona Somaini continuava a squittire stringendosi al braccio di Fabrizio Ciba e incollandogli addosso le tette. Lo scrittore sospettava facesse tutto questo perché sapeva che i diritti della Fossa dei leoni erano stati venduti alla Paramount e chissà cosa sperava. Non sapeva che lui non aveva alcun potere sul film. Gli americani non lo avevano nemmeno voluto incontrare. Alla sua agente avevano risposto che non lo ritenevano necessario. Gli avevano dato una paccata di soldi con il patto di non rompere i coglioni.

Lo schermo piatto sullo schienale della poltrona davanti prese vita e apparve il faccione di Salvatore Chiatti.

– Oddio è uguale a Minosse! – fece Simona mettendosi una mano sulla bocca per la sorpresa.
Fabrizio rimase stupito. Non immaginava che l’attrice fosse esperta di mitologia greca. – Minosse?
– Sì, il carlino di Diego Malara, il mio parrucchiere. È identico.
L’attrice non si sbagliava, l’immobiliarista campano aveva una rassomiglianza incredibile con il piccolo molossoide. Gli occhi esoftalmici, il naso piccolo e rincagnato, il cranio tondo che s’incastonava direttamente nelle spalle larghe. Ai lati, sopra le orecchie minute, gli cresceva una striscia di capelli argentati, ma per il resto era completamente calvo.
– Buongiorno, sono Salvatore Chiatti. Spero che questa festa possa superare ogni vostra immaginazione. Io e i miei assistenti abbiamo profuso ogni sforzo perché ciò possa accadere. Ora per favore chiudete gli occhi. Non sto scherzando, fatelo davvero – . I viaggiatori si guardarono tra loro e poi un po’ imbarazzati obbedirono.
La voce di Chiatti era sempre più zuccherosa. – Immaginate di tornare bambini. Siete soli in una piccola capanna di legno, la nonna è andata in paese. A un tratto il cielo inizia a brontolare. Aprite la finestra e che cosa vedete? In fondo alla pianura un tornado avanza verso di voi. Allora disperati cominciate a chiudere tutte le imposte, a serrare la porticina, ma la tromba d’aria in un attimo è sulla casetta e vi trascina in cielo con tutta la capanna. La casa gira, gira, gira… E il tornado vi porta in alto, sempre più in alto, sempre più in alto, oltre l’arcobaleno – . Di sottofondo attaccò una versione strumentale di Over the Rainbow. – E per finire vi deposita gentilmente in un nuovo mondo mai esplorato. In un mondo dove la natura selvaggia e incontaminata vive in armonia con gli uomini. Ora potete aprire gli occhi. Benvenuti nel paradiso terrestre. Benvenuti a Villa Ada. Reggetevi forte. Un, due, tre, si parte!
– Oddio – . Simona Somaini strinse la mano di Fabrizio Ciba mentre il treno partiva appiccicandoli agli schienali. Attraversarono a tutta velocità poche decine di metri di bosco e poi la rotaia come le montagne russe puntò in alto portandoli al di sopra delle fronde dei pini. Al loro passaggio si sollevavano stormi di pappagalli colorati, gru cenerine ed enormi avvoltoi dal collo spelacchiato. Poi lentamente ridiscesero e si trovarono in una prateria verde, passarono tra mandrie di gnu, zebre, bufali e giraffe che non sembravano turbati dal treno. Proseguirono su una piccola altura dove una colonia di leoni sonnecchiava al sole accanto a un branco di licaoni, e da lì giù per un costone su cui crescevano degli alberi bassi.
I passeggeri urlavano dall’eccitazione indicando gli animali. Tra la vegetazione a Fabrizio sembrò di intravedere delle scimmie. Il treno fece un’ampia curva che lentamente li riportò a una trentina di metri d’altezza. Da quella posizione ebbero una visione completa del parco. Era un immenso tappeto verde e i palazzi del quartiere Salario e il viadotto dell’Olimpica si scorgevano appena.
In una discesa da mozzare il respiro il treno scivolò su un grande lago dove erano ormeggiate tre case galleggianti. Il siluro s’incuneò sott’acqua in un tripudio di schizzi e urla dei viaggiatori.
Simona era entusiasta. – Nemmeno a Gardaland nelle cascate dei pirati mi sono divertita tanto.
Il treno tornò indietro puntando verso un palazzetto con una torretta e un giardino all’italiana con le siepi che formavano grandi disegni geometrici. Li rallentò bruscamente e si fermò. Le porte si aprirono con uno sbuffo. Ad attenderli sulla piattaforma c’erano hostess che offrivano binocoli e libretti con le foto degli animali della riserva.
– Dove si beve? Ho bisogno di un bourbon, – fece Ciba, impedendosi di esprimere tutto il profondo disprezzo che provava per Chiatti e quella messa in scena dello zoosafari. E vogliamo parlare della storiella che aveva raccontato, copiata alla cazzo di cane dal Mago di Oz? Quello sdegno lo avrebbe fatto crescere, l’avrebbe raffinato, reso sublime e poi lo avrebbe riversato con la potenza di una bomba nucleare sull’articolone per «Repubblica».
A questo pensiero si sentì meglio. Era ancora l’enfant terrible di un tempo, lo scrittore acuto e tagliente come una scheggia impazzita che avrebbe fatto a pezzi quel patetico baraccone.

6.

Nello stesso momento, dietro un capanno degli attrezzi, si teneva il briefing delle Belve di Abaddon.

Mantos era seduto su un trattorino per tagliare il prato. – Allora discepoli ascoltatemi bene – . Dallo zainetto tirò fuori un vecchio Tutto Città. Si bagnò l’indice e cominciò a sfogliarlo. – Questa è Villa Ada – . Lo poggiò sul cofano e tutti fecero capannello. – Noi siamo qui, alla Villa Reale. E da quello che ho letto sul programma tra circa un’ora cominceranno le tre cacce. Seguiranno tre diversi percorsi e poi ogni gruppo finirà in un accampamento per la cena. Dopo mangiato tutti gli ospiti si riuniranno e ci dovrebbe essere il concerto di Larita – . Schioccò le dita e strinse i denti. – Peccato che in quel momento Larita sarà bella che sacrificata. Perché noi la rapiremo durante la caccia.

Silvietta alzò la mano. – Posso dire una cosa?

Mantos odiava essere interrotto quando spiegava un’azione. – Prego.
– Secondo me Larita non parteciperà al safari. Io la conosco. È contro la caccia. Ha fatto pure una campagna.
Cazzo, a questa possibilità non ci aveva pensato. Mantos fece finta di nulla. – Ottimo Silvietta, questa è un’ipotesi da prendere in considerazione. Però non possiamo esserne sicuri. Lo scopriremo. E per farlo dobbiamo essere il più vicino possibile agli ospiti e a Larita. Dobbiamo travestirci da camerieri.
– Senti Mantos, c’è una cosa che non mi è molto chiara, – intervenne Zombie. – Ma durante la caccia chi ti dice che la beccheremo da sola? Ci sarà un sacco di gente.
Il leader questa volta non si fece cogliere impreparato. – Bravo. Tu sei bravo! E sai perché Zombie? Perché tu, –lo indicò, – proprio tu, ci permetterai di non essere beccati.
– Io? E come?
– Tu sei elettricista, giusto?
Zombie si grattò la nuca. – Be’, si.
– Bene. Al crepuscolo andrai alla centrale elettrica, quella che abbiamo visto appena entrati. Ti ci introdurrai di soppiatto e toglierai la corrente al parco. A questo punto senza illuminazione sarà uno scherzo agire. Con il favore delle tenebre rapiremo la stronza. E per farlo useremo questo – . Sempre dallo zainetto tirò fuori un flaconcino con un liquido trasparente. – È un anestetico veterinario potentissimo, il Sedaron. Lo usano per i cavalli. Ne bastano due gocce e sei steso. Questo qui invece l’ho trovato nelle officine – . Mostrò un tubo di plastica rigida. Poi strappò un foglio dallo stradario e ci arrotolò un cono. Dalla giacca tolse uno spillo e lo infilò sulla punta del cartoccetto. – Signori, ecco a voi una cerbottana. Gli indigeni dell’Amazzonia con quest’arma micidiale ci vanno a caccia. Io a scuola ero un asso con la cerbottana, mi chiamavano l’Indio. Stendo Larita e poi… – Mostrò sulla mappetta le alture di Forte Antenne. – La portiamo qui. Dove ci sono i resti di un antico tempio romano. E li si compirà il sacrificio a Satana – . Li guardò uno a uno. – Bene. Mi sembra di essere stato chiaro. Ci sono domande?
Zombie sollevò la mano. – Ma io come li taglio i fili, con i denti?
– Tranquillo, anche a questo c’è una risposta. In una scatola di posate ho visto che c’è un enorme trinciapollo d’argento. Userai quello. Altre domande?
Murder sollevò timidamente l’indice.
– Dimmi.
L’adepto prese un respirone prima di parlare. – Ecco… Mi chiedevo se per caso ci avevi ripensato al suicidio di massa.
– In che senso?
– Insomma… È proprio necessario?
Mantos strinse i pugni per non arrabbiarsi. – Ma allora non ci siamo capiti? Vuoi passare il resto della tua vita a marcire in una galera? Io no. In questo modo li fottiamo. Non ci potranno mai arrestare. Ci dobbiamo sacrificare per salvarci e renderci immortali. Volete o no diventare un mito?
– In effetti… – ammise Murder.
Gli altri, in silenzio, fecero segno di si con la testa.
– Ottimo. Allora possiamo passare alla fase uno del nostro piano: Silvietta e Murder andate a recuperare delle divise da camerieri, tu Zombie vai a cercare il trinciapollo, io…
– Oh! Voi quattro. Che state facendo? – Uno degli uomini di Antonio gli era apparso alle spalle. – Ho bisogno di una mano. Tu – . Indicò Mantos. – Devi portare una cassa di Merlot di Aprilia nella villa, veloce.
Mantos si alzò e sussurrò ai suoi adepti: – Ci rivediamo qui tra un quarto d’ora.

7.

Dopo mille dubbi su come sarebbe stata più efficace la sua entrata, Fabrizio Ciba decise di fare il suo ingresso insieme a Simona Somaini.

Al centro del giardino all’italiana si allargava un piazzale circolare con una grande fontana esagonale di pietra. Sulla superficie dell’acqua galleggiavano petali di rosa. Ai lati erano disposti dei carretti siciliani su cui era poggiato ogni ben di Dio. Sculture di ghiaccio raffiguranti angeli e fauni si scioglievano sotto il tiepido sole di una giornata primaverile romana. In un angolo erano sistemati i tavoli apparecchiati. Tra gli invitati si muovevano pavoni, fagiani e tacchini addomesticati. Un gruppo di musicisti sui trampoli suonava arie barocche.

Erano arrivati già un sacco di ospiti. Gente dello spettacolo, politici e tutta la squadra della Roma di cui Chiatti era un gran tifoso.

Fabrizio, a braccetto di Simona, si fece largo tra la folla. Si sentiva osservato e invidiato. Ripropose l’atteggiamento usato alla presentazione a Villa Malaparte. Confuso e annoiato, costretto per ragioni inesplicabili a mischiarsi tra quella gente così diversa da lui. Vide il carretto con i superalcolici. – Vuoi qualcosa, Simona?

L’attrice guardò con orrore le bottiglie di alcol. – Un bel bicchiere d’acqua naturale.
Fabrizio si fece uno dopo l’altro un paio di scotch. L’alcol lo rilassò. Si accese una sigaretta e si mise a osservare gli invitati come fossero dentro un acquario. Tutti si guardavano, si riconoscevano, si criticavano, si salutavano con un leggero cenno del capo e si sorridevano soddisfatti sapendo di essere parte di una comunità di Padreterni. Fabrizio non riuscì a capire se il fatto che li non ci fosse un pubblico ad applaudire li innervosiva o li rendeva felici.
Poi si accorse che in disparte, seduto a un tavolino, tutto solo, c’era un vecchio.
No! Non è possibile! Anche lui…

Umberto Cruciani, il grande scrittore della Muraglia occidentale e di Pane e chiodi, i capolavori della letteratura italiana degli anni Settanta.

– Ma quello…? – Stava per chiedere conferma a Simona, ma lasciò perdere.
Che ci faceva lì Cruciani? Viveva recluso in una fattoria nell’Oltrepò pavese da vent’anni.
Il maestro guardava lontano verso le colline, lo sguardo corrucciato sotto le sopracciglia folte. Sembrava che non fosse nemmeno li, come se una bolla di solitudine lo dividesse dal tutto il resto.
– Che ti pare ’sta festa? A me pare esagerata. Chiatti ha già vinto.
Fabrizio si girò.
Bocchi stringeva un bicchierone di Mojito. Era già tutto sudato, paonazzo in volto, gli occhi eccitati.
– Sì, bella, – tagliò corto lo scrittore.
– Alla fine ci stanno tutti. Sai quanti dicevano che non sarebbero venuti nemmeno pagati, che era una burinata. Non ne manca uno.
Fabrizio gli indicò il vecchio scrittore. – C’è pure Umberto Cruciani.
– E chi cazzo è?
– Come chi cazzo è? È un maestro. Al pari di Moravia, Calvino, Taburni. Ma ti rendi conto che i suoi libri a quarant’anni di distanza sono ancora in classifica? Magari ha fossa dei leoni vendesse la metà di Pane e chiodi. Starei tranquillo, potrei pure smettere di scrivere…
– Ma lui ha smesso di scrivere?
– È dal ’76 che non pubblica più. Però mi ha detto la mia agente che sta lavorando da vent’anni su un romanzo che vuole pubblicare postumo.
– Non mi pare che gli manca tanto.
– Cruciani fa parte di una generazione di artisti che non esiste più. Gente seria, legata alla sua terra d’origine, alla vita contadina, al ritmo dei campi. Guarda com’è concentrato, sembra quasi che si stia sforzando di trovare la fine del suo libro.
Il chirurgo diede una succhiata dalla cannuccia. – Sta cagando.
– Come?
– Non sta pensando. Sta cagando. La vedi quella borsa di Vuitton accanto ai piedi? È la sacca di contenimento delle feci.
Fabrizio ci rimase male. – Poveretto. Ed è pure un tipo strano. Pensa che nessuno ha mai letto una virgola del nuovo romanzo. Nemmeno i suoi editori.
Bocchi si mise la mano davanti alla bocca per tappare un rutto. – Dopo la morte si scoprirà che non ha scritto un cazzo, ci scommetto qualsiasi cosa.
– Ha scritto… Ha scritto… Lascialo stare. Tutto quello che scrive lo scarica su una chiavetta USB e cancella tutto. È paranoico, ha paura di perderselo. Lo vedi quel medaglione d’oro che ha al collo? È una chiavetta USB da 40 gb di Bulgari, non la molla mai.
Simona intanto aveva rimediato un piatto con un’unica, solitaria ovolina. – Non sapete quanta roba buona c’è da mangiare. C’è un carretto su cui friggono carciofi, mozzarelline e fiori di zucca. Madonna mia quanto mi piacciono i frittini. Me li mangerei tutti. Peccato che non posso…
Bocchi prese un cubetto di ghiaccio dal drink e se lo passò sul collo come fosse agosto. – Perché?
– Mi chiedi perché! Ho preso tre etti. Non lo vedi che sono obesa – . L’attrice mostrò lo stomaco piatto e senza un filo di grasso al chirurgo. – Mi puoi prenotare una lipo?
– E che problema c’è, Simo’. Ma secondo me le uniche cellule grasse che hai ancora in corpo stanno là – . Indicò il cranio. E poi serio: – Posso prenotarti una liposuzione al cervello.
L’attrice fece una risatina svogliata. – Sei il solito cafone.
Il chirurgo si alzò e si stiracchiò. – Vabbe’ io vado a fare un giro, ci si becca dopo.
Fabrizio cinse con il braccio la vitina di Simona. – Ci facciamo un giretto anche noi? Che dici?
Lei gli poggiò la testa sulla spalla. – Va bene.
Si mossero facendosi portare dalla corrente degli ospiti. Fabrizio sentiva un buon odore di shampoo nei capelli dell’attrice e l’alcol gli rendeva i pensieri leggeri e l’umore positivo. Venivano continuamente fermati da gente che li salutava e gli faceva un sacco di complimenti. Nessuno poteva esimersi dal dire che erano una coppia splendida.
Forse hanno ragione, mi potrei fidanzare con Simona.
In effetti aveva parecchie frecce al suo arco l’attrice di Subiaco. Intanto era totalmente idiota e Fabrizio adorava le donne idiote, si abbeveravano alla sua personalità come frisone a un fontanile. Il segreto era non ascoltarle quando attaccavano a parlare dei massimi sistemi. Uno dei difetti principali delle donne idiote è una innata tendenza all’astrazione, a discutere di sentimenti, carattere, senso della vita, oroscopo. E generalmente sono del tutto prive di senso pratico e ironia. Quindi non stanno li a criticare ogni stronzata che fai. Nella vita di tutti i giorni sono gestibili. E poi Mariano Santilli, un produttore cinematografico che era stato con la Somaini per un anno, gli aveva raccontato che nell’ambiente domestico Simona si integrava perfettamente con l’arredamento. Non dava alcun fastidio. Entrava in stand–by appena varcata la soglia di casa. Bastava fornirle un telecomando e un tapis roulant e lei correva per ore. Non mangiava, lavorava come una bestia e quando non lavorava era in palestra. E, non ultimo, era la donna più sexy d’Italia. Il suo calendario era appeso dovunque. Milioni di uomini ci si massacravano di seghe e avrebbero rosicato come iene a sapere che lui era il fortunato che se la scopava.
E questo è bello.
In fondo anche Arthur Miller si era fidanzato con Marilyn Monroe.
– Senti, Simona. Ma se ci fidanzassimo? Secondo

me saremmo LA COPPIA.

– Dici? – L’attrice sembrava lusingata e nello stesso tempo disorientata. – Ma, veramente? Sei troppo carino. Però non so se andremmo d’accordo… Siamo di segni opposti… E poi tu sei un genio, scrivi libri, e io sono una tipa alla buona, non ho niente da dire. Che ci fai con una come me?
– Ti rivelo un segreto, Simona. Anche gli scrittori che sembrano così distanti in fondo non sono altro che la versione moderna dei cantastorie. Gente che racconta favole per non lavorare – . Fabrizio la strinse a sé. – Tu conosci Maiorca? – Poi con la coda dell’occhio vide Matteo Saporelli fare il suo ingresso nel piazzale.
– Sono…

Le altre parole della Somaini si persero, come se una turbina gli soffiasse aria nelle orecchie. Si tirò indietro e si toccò la fronte. – Credo di avere la febbre, – balbettò preoccupato a Simona. – Scusa… Scusa un attimo – . Fabrizio barcollò verso il carretto dei drink.

Che cazzata che ho fatto a venire a ’sta festa di merda. Per comprendere la reazione di Ciba è necessario sapere chi era e soprattutto quanti anni aveva Matteo Saporelli. Mat, come veniva chiamato dagli amici, aveva ventidue anni. La metà di Fabrizio. Era lui il vero giovane talento della letteratura italiana. Era uscito dal nulla con il suo romanzo Le miserie di un uomo di gusto, la storia di un cuoco che un bel giorno si sveglia e scopre di aver perso il gusto, ma continua a cucinare ingannando tutti. Il libro era salito in vetta alle classifiche con la stessa violenza con cui lo Space Shuttle entra nella ionosfera, e li era rimasto. In un solo anno il giovane era riuscito a fare il grande slam: Strega, Campiello e Viareggio.
Fabrizio non poteva aprire un giornale, cambiare

un canale, che gli si parava davanti l’odiosa faccia da sbarbatello di Saporelli. Dovunque ci fosse da rispondere a domande, dare un’opinione, lui c’era. Il problema della castrazione dei gatti di Trastevere? La terza corsia sulla Salerno – Reggio Calabria? L’uso dei cortisonici nella cura delle ragadi anali? Lui aveva la risposta pronta. Ma quello che faceva veramente stare male Ciba era che le donne gli sbavavano dietro, dicevano che somigliasse a Rupert Everett da giovane. Per finire Saporelli era pubblicato dalla sua stessa casa editrice, la Martinelli. E negli ultimi anni gli aveva rotto il culo quanto a vendite.

Gli avevano raccontato che la sua redattrice (tra l’altro era anche la redattrice di Fabrizio) per festeggiare la vittoria dello Strega gli avesse fatto un pompino nei bagni del ninfeo di Villa Giulia.

Che troia. A me non me l’ha mai fatto. Anche quando ho vinto il Médicis in Francia. Che vale mille volte di più.

Lo squadrò. Con i jeans stirati, i mocassini, la camicia bianca, un golf legato sulle spalle e le mani in tasca voleva passare per il bravo ragazzo, modesto e senza pretese. Uno che non si era montato la testa.

Che ipocrisia! Quell’essere subdolo gli dava il voltastomaco.
Ma a me non mi freghi. Ti aspetto al prossimo romanzo.
Fabrizio era così concentrato a schifarlo che ci mise un po’ a rendersi conto che Saporelli stava parlando con Federico Gianni. L’amministratore delegato della Martinelli diede una pacca sulla spalla al giovane scrittore e cominciarono a sganasciarsi dalle risate.
Sono pappa e ciccia.
Gli tornarono alla mente le parole che aveva detto quel falsone di Gianni alla presentazione dell’indiano. Vide che ai due si era aggiunto quel vecchio trombone di Tremagli con la moglie, un troll con le tette. Chiaramente il critico si era sperticato in elogi parlando del romanzo di Saporelli. «La letteratura italiana riprende il volo sulle ali di Saporelli», aveva avuto il coraggio di scrivere.
Fabrizio si fece fuori un altro scotch.
Era arrivato il momento di affrontare Gianni. Cominciò a scaldarsi pensando al grande Muhammad Ali. Fece due passi ma si fermò di colpo. Che diavolo stava facendo?
Regola numero uno: Mai mostrare che rosichi.
Molto meglio levare le tende portandosi dietro la più figa della festa. Si avvicinò a Simona Somaini, che era al centro di un capannello di attori della serie Delitti in carrozza.
– Scusatemi. Ve la porto via un attimo, – fece agli altri sorridendo a denti stretti, poi prese l’attrice per un polso e, paonazzo in volto, le disse sottovoce: – Ti devo parlare. È importante.
Lei sembrò un po’ scocciata. – Che succede, Fabrizio?
– Ascoltami. Andiamocene. Tra poco c’è un aereo che parte per le Baleari…
– Le Baleari?
– Ah, giusto. Allora… Sono delle isole spagnole nel mare. A Maiorca, una delle isole Baleari appunto, ho una casa nascosta sulle montagne. Un nido d’amore. Partiamo subito. Se facciamo presto riusciamo a prendere ancora un aereo.
L’attrice lo guardava perplessa. – Ma ora stiamo alla festa. Perché dobbiamo andarcene? È bellissimo. Ci stanno tutti.
Lui le prese il braccio e si abbassò come se dovesse rivelarle un segreto. – Per questo, Simona! Noi non dobbiamo stare dove stanno tutti. Noi due siamo speciali. Siamo LA COPPIA. Non ci dobbiamo confondere con gli altri. Ci facciamo notare mille volte di più se ce ne andiamo.
Simona non era tanto convinta. – Dici?
– Ascoltami. Non è difficile da cap… – Ma le parole gli morirono sulla lingua.
Simona Somaini stava subendo una trasformazione somatica. I capelli le si stavano gonfiando e diventavano più lucidi e vaporosi, come nella pubblicità di un balsamo. Le tette le si arrampicavano sul torace quasi infastidite dall’inutile vestito che le velava. Guardava fissa davanti a sé come se ci fosse stato il Messia che camminava sulle acque della fontana. Poi posò di nuovo lo sguardo su Fabrizio e tirò su con il naso. Era commossa. – Non ci credo! Quello è… Quello è Matteo Saporelli… Oddio… Dimmi che lo conosci, ti prego. Certo che lo conosci, siete scrittori tutti e due. Io lo stimo e ci devo andare a parlare ora, subito. Morin sta facendo un film dal suo romanzo.
Fabrizio fece due passi indietro inorridito, come se si trovasse davanti un’indemoniata. Se avesse avuto a portata di mano dell’acqua santa gliel’avrebbe gettata addosso. – Tu sei un mostro! Non ti voglio vedere mai più – . A grandi falcate attraversò il piazzale e il giardino all’italiana e arrivò praticamente correndo alla stazione.
Il treno non c’era.
Si avvicinò a una hostess. – Dov’è? Tra quanto arriva?
La hostess guardò l’orologio al polso. – Tra un quarto d’ora circa.
– Tra così tanto? Non c’è un altro modo per andarsene?
– A piedi. Ma non glielo consiglio, è pieno di animali selvatici.
Un cameriere lo raggiunse di corsa. Prima di parlare riprese fiato. – Signor Ciba! Signor Ciba! Mi scusi, il dottor Chiatti le vorrebbe parlare. Potrebbe seguirmi?

8.

Zombie si guardò attorno e si avvicinò alle casse di legno che contenevano l’argenteria per i bivacchi. Cominciò a leggere le etichette sui coperchi. Forc… Forc… Colt… Colt… Cuc…

– Queste so’ tutte posate – . Si diresse verso un’altra pila di contenitori. Apri una scatola e custodito da un panno di velluto blu trovò il trinciapollo d’argento. Era così grande che sembrava un trinciastruzzo. Lo prese e tornò tutto contento verso il capanno, quando vide Murder e Silvietta dietro una toilette da campo che si stavano vestendo da camerieri. – Ragazzi, trovato… – disse e s’azzittì.

I due, mentre indossavano le divise, discutevano, anzi sembrava proprio che litigassero. Erano così presi che non si erano nemmeno accorti di lui. Zombie si avvicinò piano piano, senza farsi vedere, e si nascose dietro una Land Rover ad ascoltare.

– Sei pessimo! Nemmeno questa volta gliel’hai detto, – stava dicendo Silvietta.
– Lo so… Però un po’ gliel’ho detto, è che mi sono bloccato. Guarda che non è facile in questa situazione, –bofonchiava Murder.
– E infatti glielo dovevi dire questa mattina, a Oriolo. Poi hai detto che glielo dicevi in macchina… E ora, come si fa?
Murder ebbe un moto di stizza. – Scusa, ma perché non glielo dici tu? Non mi è chiaro perché lo devo fare io.
– Sei impazzito? Sei stato tu a dirmi che era meglio se gliene parlavi tu. Che conosci da un pezzo Saverio e sai come prenderlo.
Lui addolcì la voce. – Non è mica facile, patatina. Sono cose delicate, lo sai meglio di me.
La Belva sentì Silvietta sbuffare. – E che ci vorrà mai? Vai li è gli dici: senti, perdonaci, io e Silvietta abbiamo deciso di sposarci e quindi non possiamo suicidarci. Fine. È tanto difficile?
A Zombie cadde di mano il trinciapollo.
Nell’ex residenza reale Mantos, con una cassa di vino tra le braccia, attraversò l’ingresso di servizio e si ritrovò nel salotto. Rimase a bocca aperta. Altro che le cagate del Mobilificio dei Mastri d’Ascia Tirolesi. La commistione tra antico e moderno era di un gusto sopraffino. Era questo che intendeva quando ai brainstorming cercava di sgrezzare il vecchio Mastrodomenico e avvicinarlo al mondo dell’Interior Decoration. Passò attraverso un disimpegno e si ritrovò in uno studio tappezzato di librerie altissime. Tutti i volumi erano rivestiti di carta da pacchi e il titolo era scritto in una bella grafia. L’effetto era una stanza marroncina. Al centro c’era un unico blocco di legno massello, così grande che doveva essere o un baobab o una sequoia. Sopra, un telefono nero.
Lo guardò.
Non farlo.
Poggiò la cassa e prese la cornetta.
Sto facendo una stronzata.
Non importava, prima di buttarsi in quella missione suicida doveva sentire ancora una volta la voce di sua moglie.
Trattenendo il respiro compose il cellulare di Serena. – Tesoro… Sono io…
La risposta fu un: – Dove cazzo sei?
– Amore, aspetta… Fammi spiegare…
– Che devi spiegare? Che sei un povero coglione,
– lo aggredì Serena.
Saverio si sedette sulla poltrona. Poggiò i gomiti sul tavolo.
Si era scordata tutto. Come se la notte passata non fosse mai esistita. Era tornata ad essere la crudele Serena.
Chissà cosa mi aspettavo? Che sarebbe cambiata?
Nessuno cambia. E Serena era tale e quale da quando era stata messa al mondo. Il miraggio che con il tempo si sarebbe addolcita lo aveva incastrato nel matrimonio con quella strega. Questo meccanismo perverso li aveva tenuti legati. E lei se ne era approfittata, facendolo sentire un deficiente senza palle.
Con un groppo in gola allontanò la cornetta dall’orecchio, ma anche così la sentiva sbraitare: – Ma ti sei bevuto il cervello? Sono ore che ti chiamo al cellulare ed è sempre spento. Papà è fuori dalla grazia di Dio. Ti vuole licenziare. Oggi comincia la settimana delle camerette. Qui ci stanno duemila bambini che urlano. E tu dove sei? Con quei quattro mentecatti. Ma quant’è vero Iddio questa te la faccio pagare salata…
Saverio guardava fuori dalla finestra. Un pettirosso si puliva le penne su un albero di ciliegie. La visione sfocò, velata dalle lacrime.
Per farsi rispettare da quella donna avrebbe dovuto violentarla ogni notte. Prenderla a calci come una cagna, ma quella non era la sua idea di amore.
Almeno ora sono certo di aver fatto la scelta giusta.
Una strana calma si impossessò di Saverio. Si sentì tranquillo. Non aveva più dubbi.
Avvicinò la cornetta alla bocca. – Serena ascoltami bene. Ti ho sempre amata. Ho provato in tutti i modi a renderti felice ma tu sei una brutta persona e rendi brutto pure quello che ti sta intorno.
Serena aveva una voce rauca, da posseduta. – Come ti permetti! Dimmi dove sei? Vengo lì e ti spacco la faccia. Saverio te lo giuro sulla testa di mio padre.
Il leader delle Belve di Abaddon gonfiò la cassa toracica e con la voce ferma disse: – Io non sono Saverio, io sono Mantos – . E attaccò.

– Che diavolo stai facendo qui? Chi ti ha detto di prendere il trinciapollo?

Zombie non ebbe nemmeno il tempo di girarsi, capire, che fu acchiappato per un orecchio e trascinato in mezzo al piazzale. Cominciò a urlare cercando di liberarsi da quella morsa. Con la coda dell’occhio riuscì a vedere Antonio che gli stritolava il padiglione.

Il capocameriere aveva le vene del collo gonfie e gli occhi iniettati di sangue e sputacchiava urlando a Murder e Silvietta: – Ehi! Ehi! Voi due perché siete vestiti da camerieri?

Zombie riuscì a liberarsi e si massaggiò l’orecchio bollente.
– Voi dovete essere impazziti. Credete forse di stare alla sagra del coregone a Capodimonte? Ma vi aggiusto io – . Antonio diede uno spintone a Murder. – Ditemi perché siete vestiti da camerieri.
– Pensavamo di essere utili. Qui non c’è molto da fare… – provò a buttare là Murder senza troppa convinzione.
Antonio gli si avvicinò a un palmo dal naso. Aveva l’alito che sapeva di mentolo. – Utili? Voi pensate che stiamo giocando? E che gioco è? Un, due, tre, stella? Buzzico rampichino? Voi belli belli avete deciso che volete fare i camerieri? Voi cazzeggiate e io perdo il posto. Non avete capito dove siamo? Di là ci sono camerieri dell’Harry’s Bar, dell’Hotel de Russie, gente che ha fatto l’alberghiero, ho rifiutato personale del Caffè Greco – . Antonio era cianotico, dovette fermarsi un istante per riprendere fiato. – Adesso fate una bella cosa, vi spogliate e uscite da qui. Non vi do una lira e quella faccia di merda di Saverio se ne va via con voi! Mai fidarsi dei parenti. A proposito dove sta quel… – Antonio si portò una mano al collo come se lo avesse pizzicato un tafano. Si strappò qualcosa da sopra il colletto della camicia e aprì la mano.
Sul palmo si trovò un cono di carta con uno spillo sulla punta.
– Ma che…? – riuscì solo a dire, poi le palle degli occhi rotearono in su mettendo in mostra la sclera bianca e la bocca gli si paralizzò in un ghigno. Fece un passo indietro e, rigido come una statua, crollò a terra.
Le Belve lo guardavano stupite, poi da un cespuglio apparve Mantos con la sua cerbottana. – Cagava il cazzo, eh? Non sapete quanto lo cagava a scuola…
Murder diede il cinque al suo capo. – L’hai steso. Questo Sedaron è una bomba.
– Ve l’avevo detto. Bravo Zombie, hai trovato il trinciapollo.
– E di questo? – Silvietta si abbassò sul corpo di Antonio. – Che ne facciamo?
– Lo leghiamo e lo imbavagliamo. E poi lo nascondiamo da qualche parte.

9.

Mentre seguiva il cameriere verso la Villa Reale, Fabrizio Ciba imprecava tra sé. Non aveva tempo da perdere, aveva un aereo da prendere e dover parlare con Sasà Chiatti lo innervosiva. Assurdo, era stato al cospetto di Sarwar Sawhney, un premio Nobel, senza provare particolari emozioni e ora che doveva incontrare un tipo insignificante come Chiatti gli batteva il cuore? La verità era che gli uomini ricchi e di potere lo rendevano insicuro.

Entrò nella villa e rimase stupito. Tutto si aspettava tranne che la residenza fosse arredata in stile minimalista. Il grande salone era una semplice spianata di cemento. In un camino di pietra grezza bruciava un grosso ciocco di legno. Vicino, quattro poltrone degli anni Settanta e un tavolo in acciaio lungo una decina di metri su cui pendeva un lampadario antico. Due esili sculture di Giacometti. In un altro angolo, come se fossero state dimenticate li, quattro uova di Fontana e sui muri intonacati a calce dei cretti di Burri.

– Di qua… – Il cameriere gli indicò un lungo corridoio. Lo fece entrare in una cucina coperta di maioliche marocchine. Da uno stereo Bang & Olufsen uscivano le note romantiche di Lezioni di piano di Michael Nyman.

Un donnone tarchiato, con un casco di capelli color mogano, spiattellava sui fuochi. Al centro della stanza, intorno a un tavolo di legno rustico, erano seduti Salvatore Chiatti, una silfide albina, un vecchio decrepito con addosso una tenuta coloniale tarlata, un monaco e la cantante Larita.

Stavano mangiando quelli che avevano tutta l’aria di essere rigatoni all’amatriciana con parecchio pecorino grattato sopra.

Fabrizio ebbe la presenza di spirito di dire: – Salve a tutti.
Chiatti indossava una giacca di velluto beige con le toppe sui gomiti, una camicia di flanella scozzese e un fazzoletto rosso legato intorno a quel poco di collo che la natura gli aveva concesso. Si pulì la bocca e allargò le braccia come se lo conoscesse da cento anni. – Ecco il grande scrittore! Che piacere averla qui. Si sieda con noi. Stiamo mangiando alla buona. Spero che non abbia mangiato al buffet. Quella roba noi la lasciamo ai nostri ospiti vip, vero mammà? – Si girò verso la chiattona ai fornelli. La donna, impacciata, si pulì le mani sul grembiule e accennò un saluto con la testa. – Noi siamo persone semplici. E mangiamo la pastasciutta. Prenda una sedia. Che aspetta?
Di primo impatto a Fabrizio parve che Chiatti fosse una persona affabile, con un gran sorriso gioviale, ma si percepiva che i suoi erano ordini e che non amava essere disubbidito.
Lo scrittore prese una sedia accostata al muro e sedette in un angolino tra il vecchio e il monaco, che gli fecero spazio.
– Mammà, fai un piatto come Dio comanda al signor Ciba, che mi sembra un po’ sbattuto.
In un istante Fabrizio si ritrovò davanti una porzione gigantesca di rigatoni fumanti.
Chiatti afferrò un fiasco di vino e gli riempi il bicchiere. – Togliamoci di mezzo le presentazioni. Lui… – indicò il vecchio rinsecchito. – … è il grande cacciatore bianco Corman Sullivan. Lo sa che quest’uomo ha conosciuto lo scrittore… Come si chiama?
– Hemingway… – disse Sullivan e prese a tossire e a scuotersi tutto. Dal vestito uscivano nuvole di polvere. Quando si riprese strinse senza forza la mano di Fabrizio. Aveva le dita lunghe, coperte di macchie depigmentate.
A Ciba il cacciatore bianco ricordava qualcuno. Ma certo! Era tale e quale a Ötzi, l’uomo del Similaun, il cacciatore che avevano trovato congelato in un ghiacciaio delle Alpi.
Chiatti indicò la silfide. – Lei è la mia fidanzata Ecaterina – . La ragazza abbassò la testa in segno di saluto. Somigliava alla Regina delle nevi di una saga nordica. Era così bianca che sembrava morta da tre giorni. Attraverso la carne si intravedeva il sangue scorrerle scuro nelle vene. I capelli, rossi come fuoco, formavano una criniera intorno al volto piatto. Non aveva sopracciglia e il collo era sottile come quello di un levriero. Doveva pesare una ventina di chili.
Fabrizio sentendo il nome ricordò. Era la famosa modella albina Ecaterina Danielsson. Una che un mese si e un mese no era sulle copertine delle riviste di moda di tutto il mondo. Era in assoluto l’essere morfologicamente più distante da Chiatti che la natura avesse creato.
– E questo qui… – indicando il monaco. – Dovrebbe conoscerlo. È Zóltan Patrovič!
Certo che Fabrizio lo conosceva. Chi non conosceva l’imprevedibile chef bulgaro, proprietario del ristorante Le regioni? Ma da vicino non l’aveva mai visto.
Questo invece chi gli ricordava? Ecco, Mefisto, il nemico giurato di Tex Willer.
Fabrizio dovette abbassare lo sguardo. Gli occhi del cuoco sembravano penetrargli dentro e intrufolarsi tra i pensieri.
– E per finire, la nostra Larita, che stanotte ci farà il grande onore di cantare per noi.
Finalmente Ciba si trovava di fronte a un essere umano.
Carina, si disse stringendole la mano.
Chiatti indicò Ciba: – E lui sapete chi è?
Fabrizio stava per dire che non era nessuno, quando Larita sorrise mostrando gli incisivi leggermente distanti e disse: — È il più grande di tutti. Ha scritto La fossa dei leoni. Bellissimo. Ma il mio preferito è Il sogno di Nestore. L’ho riletto tre volte. E tutte e tre le volte ho pianto come una bambina.
Fu come se un dardo avesse centrato in pieno petto Fabrizio Ciba. Le gambe, per un istante, gli cedettero e per poco non si accasciò sulla spalla dell’uomo del Similaun.
Finalmente qualcuno che lo aveva capito. Quello era il suo libro migliore, per finirlo si era spremuto come un limone. Ogni singola parola, ogni virgola era stata tirata fuori con fatica. Quando pensava al Sogno di Nestore gli veniva un’immagine. Era come se un aereo fosse esploso in cielo e i resti dell’apparecchio si fossero sparsi in un raggio di migliaia di chilometri su un deserto piatto e sterile. A lui toccava cercare i pezzi e rimettere insieme la carlinga dell’aeroplano. Tutto il contrario della Fossa dei leoni, che era uscito fuori senza sofferenza, quasi si fosse scritto da solo. Eppure lui era certo che Il sogno di Nestore fosse la sua opera più matura e completa. Ma l’accoglienza tra i suoi lettori era stata, a essere gentili, tiepida e i critici glielo avevano stroncato. Quindi sentendo la cantante dire quelle cose non poté che provare una profonda gratitudine.
– Sei gentile. Mi fa piacere. Grazie, – le disse quasi imbarazzato.
Difficilmente avresti notato Larita incrociandola per strada, ma se la osservavi con attenzione non potevi non ammettere che era molto carina. Ogni parte del suo corpo era proporzionata. Il collo, le spalle né troppo grandi né troppo piccole, i polsi sottili, le mani magre e aggraziate. Il caschetto di capelli neri le nascondeva la fronte. Il viso era dolce. Il nasino piccolo e quella bocca un po’ troppo larga per il suo ovale esprimevano una simpatia timida e sincera. Ma soprattutto gli occhi grandi, color nocciola e screziati d’oro, che in quel momento sembravano un po’ smarriti.
Che strano, tra feste, presentazioni, concerti, salotti, Ciba aveva incontrato quasi tutti, eppure mai una volta che avesse incrociato la cantante. Aveva letto da qualche parte che era una ragazza riservata e si faceva gli affari suoi. Non amava apparire.
Un po’ come me.
E poi la storia della conversione religiosa a Fabrizio era piaciuta. Anche lui negli ultimi tempi sentiva forte il richiamo della fede. Larita era mille volte superiore a quella banda di disperati dei cantanti italiani. Se ne stava in una casa sull’Appennino tosco-emiliano a creare…
Proprio come dovrei fare io.
La solita visione gli si materializzò nella mente. Loro due insieme in una baita rustica. Lei suonava e lui scriveva. Per i cazzi loro. Forse un figlio. Sicuramente un cane.
Larita si diede un colpo alla frangetta. – Non c’è niente da ringraziare. Se una cosa è bella, è bella e basta.
Sono un pazzo. Me ne stavo andando via e qui c’è la donna della mìa vita.
Chiatti applaudi divertito. – Bene. Ha visto Ciba che bella fan le ho trovato? Adesso per ringraziarmi mi deve fare un favore. Ce l’ha una poesia?
Fabrizio aggrottò le sopracciglia. – In che senso?
– Una poesia, da recitare prima del mio discorso. Mi piacerebbe essere introdotto da una sua poesia.
Larita accorse in suo aiuto. – Lui non scrive poesie, almeno credo.
Fabrizio le sorrise poi, serio, a Chiatti: – Esatto. Io non ho mai scritto una poesia in vita mia.
– E non ne potrebbe scrivere una, anche brevissima? –L’imprenditore si guardò il Rolex. – In una ventina di minuti non riesce a buttarne giù una? Bastano un paio di righe.
– Sarebbe magnifico un piccolo poema sui cacciatori. Mi ricordo che Karen Blixen… – intervenne Corman Sullivan, ma non riuscì a continuare perché fu sopraffatto da un attacco di tosse.
– No. Mi dispiace. Non scrivo poesie.
Chiatti allargò le narici e strinse i pugni, ma la voce continuò ad essere cordiale. – Allora ho un’idea. Potrebbe leggerne una di qualcun altro. Dovrei avere in casa un libro di poesie di Pablo Neruda. Cosi le andrebbe?
– Perché dovrei leggere una poesia di un altro autore? Ci sono qua fuori centinaia di attori che si scannerebbero per farlo. La faccia leggere a uno di loro – . Fabrizio cominciava a farsi girare i coglioni.
Zóltan Patrovič improvvisamente batté il coltello sul bicchiere.
Fabrizio si voltò e rimase catturato dal suo sguardo magnetico. Che fenomeno singolare, sembrava che gli occhi dello chef si fossero ingranditi occupandogli tutto il volto. Sotto il cappuccio nero era come se ci fossero solo due enormi globi oculari che lo fissavano. Fabrizio provò a spostare lo sguardo, ma non riuscì. Allora provò a chiudere gli occhi per spezzare l’incantesimo, ma falli di nuovo.
Zóltan posò la mano sulla fronte dello scrittore.
Di colpo, come se qualcuno glielo avesse spinto a forza nella memoria, a Fabrizio tornò in mente un episodio della sua infanzia che aveva dimenticato. I suoi genitori, d’estate, partivano in barca a vela e lo lasciavano con la cugina Anna in una baita di Bad Sankt Leonhard, in Carinzia, da una famiglia di contadini austriaci. Era una zona bellissima, con montagne ricoperte di pini e prati verdi su cui pascolavano beate le mucche pezzate. Lui indossava i pantaloncini di pelle con le bretelle caratteristici di quella zona e gli scarponcini con i lacci rossi. Un giorno, mentre cercava i funghi insieme ad Anna, si erano persi nel bosco. Non riuscivano più a raccapezzarsi. Avevano continuato a girare in tondo, mano nella mano, sempre più impauriti mentre la notte allungava i suoi tentacoli tra gli alberi tutti uguali. Per fortuna, a un certo punto, si erano ritrovati di fronte a un piccolo chalet nascosto tra i pini. Dal camino usciva il fumo e le finestre erano illuminate. Avevano bussato e una donna con uno chignon biondo li aveva fatti sedere a un tavolo insieme ai suoi tre figli e gli aveva dato da mangiare gli Knödel, delle grandi palle di pane e carne immerse nel brodo. Mamma mia com’erano buone e morbide!
Fabrizio si accorse che non desiderava niente di più nella vita che un paio di Knödel nel brodo. In fondo non gli costava niente dire di si a Chiatti, dopo poteva sempre trovare un ristorante austriaco.
– D’accordo, la leggo. Non c’è problema. Scusate, sapete se in zona c’è un ristorante austriaco?

10.

Ad ogni gradino la testa di Antonio rimbalzava e il rumore sordo riecheggiava contro la volta di una scala che si perdeva nelle viscere della terra. Murder e Zombie trascinavano il capocameriere per le caviglie.

Il leader delle Belve, in testa al drappello, faceva luce con una torcia elettrica illuminando il soffitto della galleria scavata nel tufo. Si vedevano muffe verdastre e ragnatele. L’aria era umida e sapeva di terra bagnata.

Mantos non aveva la minima idea di dove portasse quella scala. Aveva aperto una vecchia porta e ci si era infilato prima che qualcuno li potesse vedere.

Silvietta si fermò a guardare Antonio. – Ragazzi, ma non gli faranno male tutte ’ste botte in testa?

Saverio si girò. – Ha la testa dura. Siamo quasi arrivati. Mi pare che laggiù finisce.
Murder era stanco. – Meno male. È un’ora che scendiamo. Sembra una miniera.
Finalmente raggiunsero una grotta. Zombie accese due torce fissate ai muri. E parte dell’ambiente si rischiarò.
Non era una grotta, ma un lungo stanzone dal soffitto basso con file di botti marcite e mucchi di bottiglie impolverate. Su ogni lato della camera una grata arrugginita chiudeva uno stretto cunicolo che portava chissà dove.
– Questo posto è perfetto per un rituale satanico
– . Murder sollevò una bottiglia spolverando l’etichetta «Ama–rone del ’43».
– Saranno le cantine reali, – buttò là Silvietta.
– I rituali satanici non si fanno nelle cantine. Al massimo nelle chiese sconsacrate o all’aria aperta. Comunque alla luce della luna – . Mantos indicò un angolo sotto le torce: – Dài, molliamo mio cugino e andiamo, non abbiamo tempo da perdere.
Zombie, in disparte, osservava una grata. Silvietta gli si avvicinò. – Che strano! Quattro cunicoli identici – . Allungò una mano oltre le sbarre. – Arriva aria calda. Da dove verrà?
Zombie sollevò le spalle. – Chi se ne frega.
– Dici che è sicuro lasciarlo qua? Non è che poi si risveglia?
– Non lo so… E nemmeno mi interessa granché – . Zombie si allontanò tutto sostenuto.
Silvietta lo guardò perplessa. – Ma che hai? Ti rode il culo?
Zombie s’incamminò sulla scalinata senza rispondere.
Mantos lo segui. – Muoviamoci.
Le Belve avevano risalito un centinaio di gradini quando sentirono provenire dal basso un rumore smorzato.
Murder si fermò. – Che è stato?
– Si sarà risvegliato Antonio, – fece Silvietta.
Mantos scosse la testa. – Non credo proprio. Quello un paio di orette se le fa. Il Sedaron è potentissimo.
E proseguirono.
Se invece fossero tornati indietro avrebbero scoperto che il corpo di Antonio Zauli era scomparso.