5.Buffet di benvenuto
Anche Fabrizio Ciba e gli altri invitati furono costretti a sottoporsi a una trafila simile a quella subita dalle Belve per entrare nella Villa. Lo scrittore attraversò il metal detector.
Quando toccò alla Somaini, fu costretta a
lasciare il cellulare.
– Ma che è ’sta pagliacciata? – domandò lo scrittore a una hostess.
La ragazza spiegò che Chiatti non voleva che la festa diventasse un
evento pubblico. Quindi non si potevano mandare foto, video né
tantomeno comunicare con l’esterno. Per questa ragione non erano
stati accreditati i giornalisti.
– Non preoccuparti, ci stanno i fotografi di «Sorrisi &
Canzoni». Chiatti gli ha dato l’esclusiva, – gli confidò a bassa
voce la Somaini, che di queste cose era un’esperta.
I due uscirono dal posto di controllo e si trovarono di fronte a un
piccolo treno a forma di siluro, poggiato su una monorotaia. Sopra
c’era scritto:
Si sedettero su delle poltroncine di pelle nera. Gli altoparlanti della carrozza diffondevano la voce di Louis Armstrong che cantava What a Wonderful World. Insieme a loro montò in carrozza Paco Jiménez de la Frontera, con i lunghi capelli ossigenati e il mascellone che faceva impazzire le donne. Per l’occasione il calciatore indossava uno smoking sbrilluccicante e sotto una maglietta di raso bianca. La sua donna, la statuaria modella di Montopoli di Sabina, Taja Testari, era ricoperta da capo a piedi da un vestito di organza nera che le velava il corpo nudo.
Fabrizio, dopo il gran galà di Canale 5, se l’era fatta, ma era talmente ubriaco che si ricordava solo che mentre scopavano lei gli aveva tirato un cartone sul naso, non sapeva se per un gioco erotico o perché lui le aveva strappato il vestito.
Lo raggiunse anche il compagno di squadra Milo Serinov con un’ex velina al seguito, lasciando dietro di sé una scia nauseabonda di dopobarba. Simona Somaini continuava a squittire stringendosi al braccio di Fabrizio Ciba e incollandogli addosso le tette. Lo scrittore sospettava facesse tutto questo perché sapeva che i diritti della Fossa dei leoni erano stati venduti alla Paramount e chissà cosa sperava. Non sapeva che lui non aveva alcun potere sul film. Gli americani non lo avevano nemmeno voluto incontrare. Alla sua agente avevano risposto che non lo ritenevano necessario. Gli avevano dato una paccata di soldi con il patto di non rompere i coglioni.
Lo schermo piatto sullo schienale della poltrona davanti prese vita e apparve il faccione di Salvatore Chiatti.
– Oddio è uguale a Minosse! – fece Simona
mettendosi una mano sulla bocca per la sorpresa.
Fabrizio rimase stupito. Non immaginava che l’attrice fosse esperta
di mitologia greca. – Minosse?
– Sì, il carlino di Diego Malara, il mio parrucchiere. È
identico.
L’attrice non si sbagliava, l’immobiliarista campano aveva una
rassomiglianza incredibile con il piccolo molossoide. Gli occhi
esoftalmici, il naso piccolo e rincagnato, il cranio tondo che
s’incastonava direttamente nelle spalle larghe. Ai lati, sopra le
orecchie minute, gli cresceva una striscia di capelli argentati, ma
per il resto era completamente calvo.
– Buongiorno, sono Salvatore Chiatti. Spero che questa festa possa
superare ogni vostra immaginazione. Io e i miei assistenti abbiamo
profuso ogni sforzo perché ciò possa accadere. Ora per favore
chiudete gli occhi. Non sto scherzando, fatelo davvero – . I
viaggiatori si guardarono tra loro e poi un po’ imbarazzati
obbedirono.
La voce di Chiatti era sempre più zuccherosa. – Immaginate di
tornare bambini. Siete soli in una piccola capanna di legno, la
nonna è andata in paese. A un tratto il cielo inizia a brontolare.
Aprite la finestra e che cosa vedete? In fondo alla pianura un
tornado avanza verso di voi. Allora disperati cominciate a chiudere
tutte le imposte, a serrare la porticina, ma la tromba d’aria in un
attimo è sulla casetta e vi trascina in cielo con tutta la capanna.
La casa gira, gira, gira… E il tornado vi porta in alto, sempre più
in alto, sempre più in alto, oltre l’arcobaleno – . Di sottofondo
attaccò una versione strumentale di Over the
Rainbow. – E per finire vi deposita gentilmente in un nuovo
mondo mai esplorato. In un mondo dove la natura selvaggia e
incontaminata vive in armonia con gli uomini. Ora potete aprire gli
occhi. Benvenuti nel paradiso terrestre. Benvenuti a Villa Ada.
Reggetevi forte. Un, due, tre, si parte!
– Oddio – . Simona Somaini strinse la mano di Fabrizio Ciba mentre
il treno partiva appiccicandoli agli schienali. Attraversarono a
tutta velocità poche decine di metri di bosco e poi la rotaia come
le montagne russe puntò in alto portandoli al di sopra delle fronde
dei pini. Al loro passaggio si sollevavano stormi di pappagalli
colorati, gru cenerine ed enormi avvoltoi dal collo spelacchiato.
Poi lentamente ridiscesero e si trovarono in una prateria verde,
passarono tra mandrie di gnu, zebre, bufali e giraffe che non
sembravano turbati dal treno. Proseguirono su una piccola altura
dove una colonia di leoni sonnecchiava al sole accanto a un branco
di licaoni, e da lì giù per un costone su cui crescevano degli
alberi bassi.
I passeggeri urlavano dall’eccitazione indicando gli animali. Tra
la vegetazione a Fabrizio sembrò di intravedere delle scimmie. Il
treno fece un’ampia curva che lentamente li riportò a una trentina
di metri d’altezza. Da quella posizione ebbero una visione completa
del parco. Era un immenso tappeto verde e i palazzi del quartiere
Salario e il viadotto dell’Olimpica si scorgevano appena.
In una discesa da mozzare il respiro il treno scivolò su un grande
lago dove erano ormeggiate tre case galleggianti. Il siluro
s’incuneò sott’acqua in un tripudio di schizzi e urla dei
viaggiatori.
Simona era entusiasta. – Nemmeno a Gardaland nelle cascate dei
pirati mi sono divertita tanto.
Il treno tornò indietro puntando verso un palazzetto con una
torretta e un giardino all’italiana con le siepi che formavano
grandi disegni geometrici. Li rallentò bruscamente e si fermò. Le
porte si aprirono con uno sbuffo. Ad attenderli sulla piattaforma
c’erano hostess che offrivano binocoli e libretti con le foto degli
animali della riserva.
– Dove si beve? Ho bisogno di un bourbon, – fece Ciba, impedendosi
di esprimere tutto il profondo disprezzo che provava per Chiatti e
quella messa in scena dello zoosafari. E vogliamo parlare della
storiella che aveva raccontato, copiata alla cazzo di cane dal
Mago di Oz? Quello sdegno lo avrebbe
fatto crescere, l’avrebbe raffinato, reso sublime e poi lo avrebbe
riversato con la potenza di una bomba nucleare sull’articolone per
«Repubblica».
A questo pensiero si sentì meglio. Era ancora l’enfant terrible di
un tempo, lo scrittore acuto e tagliente come una scheggia
impazzita che avrebbe fatto a pezzi quel patetico baraccone.
6.
Nello stesso momento, dietro un capanno degli attrezzi, si teneva il briefing delle Belve di Abaddon.
Mantos era seduto su un trattorino per tagliare il prato. – Allora discepoli ascoltatemi bene – . Dallo zainetto tirò fuori un vecchio Tutto Città. Si bagnò l’indice e cominciò a sfogliarlo. – Questa è Villa Ada – . Lo poggiò sul cofano e tutti fecero capannello. – Noi siamo qui, alla Villa Reale. E da quello che ho letto sul programma tra circa un’ora cominceranno le tre cacce. Seguiranno tre diversi percorsi e poi ogni gruppo finirà in un accampamento per la cena. Dopo mangiato tutti gli ospiti si riuniranno e ci dovrebbe essere il concerto di Larita – . Schioccò le dita e strinse i denti. – Peccato che in quel momento Larita sarà bella che sacrificata. Perché noi la rapiremo durante la caccia.
Silvietta alzò la mano. – Posso dire una cosa?Mantos odiava essere interrotto quando spiegava
un’azione. – Prego.
– Secondo me Larita non parteciperà al safari. Io la conosco. È
contro la caccia. Ha fatto pure una campagna.
Cazzo, a questa possibilità non ci aveva pensato. Mantos fece finta
di nulla. – Ottimo Silvietta, questa è un’ipotesi da prendere in
considerazione. Però non possiamo esserne sicuri. Lo scopriremo. E
per farlo dobbiamo essere il più vicino possibile agli ospiti e a
Larita. Dobbiamo travestirci da camerieri.
– Senti Mantos, c’è una cosa che non mi è molto chiara, –
intervenne Zombie. – Ma durante la caccia chi ti dice che la
beccheremo da sola? Ci sarà un sacco di gente.
Il leader questa volta non si fece cogliere impreparato. – Bravo.
Tu sei bravo! E sai perché Zombie? Perché tu, –lo indicò, – proprio
tu, ci permetterai di non essere beccati.
– Io? E come?
– Tu sei elettricista, giusto?
Zombie si grattò la nuca. – Be’, si.
– Bene. Al crepuscolo andrai alla centrale elettrica, quella che
abbiamo visto appena entrati. Ti ci introdurrai di soppiatto e
toglierai la corrente al parco. A questo punto senza illuminazione
sarà uno scherzo agire. Con il favore delle tenebre rapiremo la
stronza. E per farlo useremo questo – . Sempre dallo zainetto tirò
fuori un flaconcino con un liquido trasparente. – È un anestetico
veterinario potentissimo, il Sedaron. Lo usano per i cavalli. Ne
bastano due gocce e sei steso. Questo qui invece l’ho trovato nelle
officine – . Mostrò un tubo di plastica rigida. Poi strappò un
foglio dallo stradario e ci arrotolò un cono. Dalla giacca tolse
uno spillo e lo infilò sulla punta del cartoccetto. – Signori, ecco
a voi una cerbottana. Gli indigeni dell’Amazzonia con quest’arma
micidiale ci vanno a caccia. Io a scuola ero un asso con la
cerbottana, mi chiamavano l’Indio. Stendo Larita e poi… – Mostrò
sulla mappetta le alture di Forte Antenne. – La portiamo qui. Dove
ci sono i resti di un antico tempio romano. E li si compirà il
sacrificio a Satana – . Li guardò uno a uno. – Bene. Mi sembra di
essere stato chiaro. Ci sono domande?
Zombie sollevò la mano. – Ma io come li taglio i fili, con i
denti?
– Tranquillo, anche a questo c’è una risposta. In una scatola di
posate ho visto che c’è un enorme trinciapollo d’argento. Userai
quello. Altre domande?
Murder sollevò timidamente l’indice.
– Dimmi.
L’adepto prese un respirone prima di parlare. – Ecco… Mi chiedevo
se per caso ci avevi ripensato al suicidio di massa.
– In che senso?
– Insomma… È proprio necessario?
Mantos strinse i pugni per non arrabbiarsi. – Ma allora non ci
siamo capiti? Vuoi passare il resto della tua vita a marcire in una
galera? Io no. In questo modo li fottiamo. Non ci potranno mai
arrestare. Ci dobbiamo sacrificare per salvarci e renderci
immortali. Volete o no diventare un mito?
– In effetti… – ammise Murder.
Gli altri, in silenzio, fecero segno di si con la testa.
– Ottimo. Allora possiamo passare alla fase uno del nostro piano:
Silvietta e Murder andate a recuperare delle divise da camerieri,
tu Zombie vai a cercare il trinciapollo, io…
– Oh! Voi quattro. Che state facendo? – Uno degli uomini di Antonio
gli era apparso alle spalle. – Ho bisogno di una mano. Tu – .
Indicò Mantos. – Devi portare una cassa di Merlot di Aprilia nella
villa, veloce.
Mantos si alzò e sussurrò ai suoi adepti: – Ci rivediamo qui tra un
quarto d’ora.
7.
Dopo mille dubbi su come sarebbe stata più efficace la sua entrata, Fabrizio Ciba decise di fare il suo ingresso insieme a Simona Somaini.
Al centro del giardino all’italiana si allargava un piazzale circolare con una grande fontana esagonale di pietra. Sulla superficie dell’acqua galleggiavano petali di rosa. Ai lati erano disposti dei carretti siciliani su cui era poggiato ogni ben di Dio. Sculture di ghiaccio raffiguranti angeli e fauni si scioglievano sotto il tiepido sole di una giornata primaverile romana. In un angolo erano sistemati i tavoli apparecchiati. Tra gli invitati si muovevano pavoni, fagiani e tacchini addomesticati. Un gruppo di musicisti sui trampoli suonava arie barocche.
Erano arrivati già un sacco di ospiti. Gente dello spettacolo, politici e tutta la squadra della Roma di cui Chiatti era un gran tifoso.
Fabrizio, a braccetto di Simona, si fece largo tra la folla. Si sentiva osservato e invidiato. Ripropose l’atteggiamento usato alla presentazione a Villa Malaparte. Confuso e annoiato, costretto per ragioni inesplicabili a mischiarsi tra quella gente così diversa da lui. Vide il carretto con i superalcolici. – Vuoi qualcosa, Simona?
L’attrice guardò con orrore le bottiglie di
alcol. – Un bel bicchiere d’acqua naturale.
Fabrizio si fece uno dopo l’altro un paio di scotch. L’alcol lo
rilassò. Si accese una sigaretta e si mise a osservare gli invitati
come fossero dentro un acquario. Tutti si guardavano, si
riconoscevano, si criticavano, si salutavano con un leggero cenno
del capo e si sorridevano soddisfatti sapendo di essere parte di
una comunità di Padreterni. Fabrizio non riuscì a capire se il
fatto che li non ci fosse un pubblico ad applaudire li innervosiva
o li rendeva felici.
Poi si accorse che in disparte, seduto a un tavolino, tutto solo,
c’era un vecchio.
No! Non è possibile! Anche lui…
Umberto Cruciani, il grande scrittore della Muraglia occidentale e di Pane e chiodi, i capolavori della letteratura italiana degli anni Settanta.
– Ma quello…? – Stava per chiedere conferma a
Simona, ma lasciò perdere.
Che ci faceva lì Cruciani? Viveva recluso in una fattoria
nell’Oltrepò pavese da vent’anni.
Il maestro guardava lontano verso le colline, lo sguardo
corrucciato sotto le sopracciglia folte. Sembrava che non fosse
nemmeno li, come se una bolla di solitudine lo dividesse dal tutto
il resto.
– Che ti pare ’sta festa? A me pare esagerata. Chiatti ha già
vinto.
Fabrizio si girò.
Bocchi stringeva un bicchierone di Mojito. Era già tutto sudato,
paonazzo in volto, gli occhi eccitati.
– Sì, bella, – tagliò corto lo scrittore.
– Alla fine ci stanno tutti. Sai quanti dicevano che non sarebbero
venuti nemmeno pagati, che era una burinata. Non ne manca
uno.
Fabrizio gli indicò il vecchio scrittore. – C’è pure Umberto
Cruciani.
– E chi cazzo è?
– Come chi cazzo è? È un maestro. Al pari di Moravia, Calvino,
Taburni. Ma ti rendi conto che i suoi libri a quarant’anni di
distanza sono ancora in classifica? Magari ha
fossa dei leoni vendesse la metà di Pane e chiodi. Starei tranquillo, potrei pure
smettere di scrivere…
– Ma lui ha smesso di scrivere?
– È dal ’76 che non pubblica più.
Però mi ha detto la mia agente che sta lavorando da vent’anni su un
romanzo che vuole pubblicare postumo.
– Non mi pare che gli manca tanto.
– Cruciani fa parte di una generazione di artisti che non esiste
più. Gente seria, legata alla sua terra d’origine, alla vita
contadina, al ritmo dei campi. Guarda com’è concentrato, sembra
quasi che si stia sforzando di trovare la fine del suo
libro.
Il chirurgo diede una succhiata dalla cannuccia. – Sta
cagando.
– Come?
– Non sta pensando. Sta cagando. La vedi quella borsa di Vuitton
accanto ai piedi? È la sacca di contenimento delle feci.
Fabrizio ci rimase male. – Poveretto. Ed è pure un tipo strano.
Pensa che nessuno ha mai letto una virgola del nuovo romanzo.
Nemmeno i suoi editori.
Bocchi si mise la mano davanti alla bocca per tappare un rutto. –
Dopo la morte si scoprirà che non ha scritto un cazzo, ci scommetto
qualsiasi cosa.
– Ha scritto… Ha scritto… Lascialo stare. Tutto quello che scrive
lo scarica su una chiavetta USB e
cancella tutto. È paranoico, ha paura di perderselo. Lo vedi quel
medaglione d’oro che ha al collo? È una chiavetta USB da 40 gb di
Bulgari, non la molla mai.
Simona intanto aveva rimediato un piatto con un’unica, solitaria
ovolina. – Non sapete quanta roba buona c’è da mangiare. C’è un
carretto su cui friggono carciofi, mozzarelline e fiori di zucca.
Madonna mia quanto mi piacciono i frittini. Me li mangerei tutti.
Peccato che non posso…
Bocchi prese un cubetto di ghiaccio dal drink e se lo passò sul
collo come fosse agosto. – Perché?
– Mi chiedi perché! Ho preso tre etti. Non lo vedi che sono obesa –
. L’attrice mostrò lo stomaco piatto e senza un filo di grasso al
chirurgo. – Mi puoi prenotare una lipo?
– E che problema c’è, Simo’. Ma secondo me le uniche cellule grasse
che hai ancora in corpo stanno là – . Indicò il cranio. E poi
serio: – Posso prenotarti una liposuzione al cervello.
L’attrice fece una risatina svogliata. – Sei il solito
cafone.
Il chirurgo si alzò e si stiracchiò. – Vabbe’ io vado a fare un
giro, ci si becca dopo.
Fabrizio cinse con il braccio la vitina di Simona. – Ci facciamo un
giretto anche noi? Che dici?
Lei gli poggiò la testa sulla spalla. – Va bene.
Si mossero facendosi portare dalla corrente degli ospiti. Fabrizio
sentiva un buon odore di shampoo nei capelli dell’attrice e l’alcol
gli rendeva i pensieri leggeri e l’umore positivo. Venivano
continuamente fermati da gente che li salutava e gli faceva un
sacco di complimenti. Nessuno poteva esimersi dal dire che erano
una coppia splendida.
Forse hanno ragione, mi potrei fidanzare con
Simona.
In effetti aveva parecchie frecce al suo arco l’attrice di Subiaco.
Intanto era totalmente idiota e Fabrizio adorava le donne idiote,
si abbeveravano alla sua personalità come frisone a un fontanile.
Il segreto era non ascoltarle quando attaccavano a parlare dei
massimi sistemi. Uno dei difetti principali delle donne idiote è
una innata tendenza all’astrazione, a discutere di sentimenti,
carattere, senso della vita, oroscopo. E generalmente sono del
tutto prive di senso pratico e ironia. Quindi non stanno li a
criticare ogni stronzata che fai. Nella vita di tutti i giorni sono
gestibili. E poi Mariano Santilli, un produttore cinematografico
che era stato con la Somaini per un anno, gli aveva raccontato che
nell’ambiente domestico Simona si integrava perfettamente con
l’arredamento. Non dava alcun fastidio. Entrava in stand–by appena
varcata la soglia di casa. Bastava fornirle un telecomando e un
tapis roulant e lei correva per ore. Non mangiava, lavorava come
una bestia e quando non lavorava era in palestra. E, non ultimo,
era la donna più sexy d’Italia. Il suo calendario era appeso
dovunque. Milioni di uomini ci si massacravano di seghe e avrebbero
rosicato come iene a sapere che lui era il fortunato che se la
scopava.
E questo è bello.
In fondo anche Arthur Miller si era fidanzato con Marilyn
Monroe.
– Senti, Simona. Ma se ci fidanzassimo? Secondo
me saremmo LA COPPIA.
– Dici? – L’attrice sembrava lusingata e nello
stesso tempo disorientata. – Ma, veramente? Sei troppo carino. Però
non so se andremmo d’accordo… Siamo di segni opposti… E poi tu sei
un genio, scrivi libri, e io sono una tipa alla buona, non ho
niente da dire. Che ci fai con una come me?
– Ti rivelo un segreto, Simona. Anche gli scrittori che sembrano
così distanti in fondo non sono altro che la versione moderna dei
cantastorie. Gente che racconta favole per non lavorare – .
Fabrizio la strinse a sé. – Tu conosci Maiorca? – Poi con la coda
dell’occhio vide Matteo Saporelli fare il suo ingresso nel
piazzale.
– Sono…
Le altre parole della Somaini si persero, come se una turbina gli soffiasse aria nelle orecchie. Si tirò indietro e si toccò la fronte. – Credo di avere la febbre, – balbettò preoccupato a Simona. – Scusa… Scusa un attimo – . Fabrizio barcollò verso il carretto dei drink.
Che cazzata che ho fatto a
venire a ’sta festa di merda. Per comprendere la reazione di
Ciba è necessario sapere chi era e soprattutto quanti anni aveva
Matteo Saporelli. Mat, come veniva chiamato dagli amici, aveva
ventidue anni. La metà di Fabrizio. Era lui il vero giovane talento
della letteratura italiana. Era uscito dal nulla con il suo romanzo
Le miserie di un uomo di gusto, la
storia di un cuoco che un bel giorno si sveglia e scopre di aver
perso il gusto, ma continua a cucinare ingannando tutti. Il libro
era salito in vetta alle classifiche con la stessa violenza con cui
lo Space Shuttle entra nella ionosfera, e li era rimasto. In un
solo anno il giovane era riuscito a fare il grande slam: Strega,
Campiello e Viareggio.
Fabrizio non poteva aprire un giornale, cambiare
un canale, che gli si parava davanti l’odiosa faccia da sbarbatello di Saporelli. Dovunque ci fosse da rispondere a domande, dare un’opinione, lui c’era. Il problema della castrazione dei gatti di Trastevere? La terza corsia sulla Salerno – Reggio Calabria? L’uso dei cortisonici nella cura delle ragadi anali? Lui aveva la risposta pronta. Ma quello che faceva veramente stare male Ciba era che le donne gli sbavavano dietro, dicevano che somigliasse a Rupert Everett da giovane. Per finire Saporelli era pubblicato dalla sua stessa casa editrice, la Martinelli. E negli ultimi anni gli aveva rotto il culo quanto a vendite.
Gli avevano raccontato che la sua redattrice (tra l’altro era anche la redattrice di Fabrizio) per festeggiare la vittoria dello Strega gli avesse fatto un pompino nei bagni del ninfeo di Villa Giulia.
Che troia. A me non me l’ha mai fatto. Anche quando ho vinto il Médicis in Francia. Che vale mille volte di più.
Lo squadrò. Con i jeans stirati, i mocassini, la camicia bianca, un golf legato sulle spalle e le mani in tasca voleva passare per il bravo ragazzo, modesto e senza pretese. Uno che non si era montato la testa.
Che ipocrisia! Quell’essere subdolo gli dava il
voltastomaco.
Ma a me non mi freghi. Ti aspetto al prossimo
romanzo.
Fabrizio era così concentrato a schifarlo che ci mise un po’ a
rendersi conto che Saporelli stava parlando con Federico Gianni.
L’amministratore delegato della Martinelli diede una pacca sulla
spalla al giovane scrittore e cominciarono a sganasciarsi dalle
risate.
Sono pappa e ciccia.
Gli tornarono alla mente le parole che aveva detto quel falsone di
Gianni alla presentazione dell’indiano. Vide che ai due si era
aggiunto quel vecchio trombone di Tremagli con la moglie, un troll
con le tette. Chiaramente il critico si era sperticato in elogi
parlando del romanzo di Saporelli. «La letteratura italiana
riprende il volo sulle ali di Saporelli», aveva avuto il coraggio
di scrivere.
Fabrizio si fece fuori un altro scotch.
Era arrivato il momento di affrontare Gianni. Cominciò a scaldarsi
pensando al grande Muhammad Ali. Fece due passi ma si fermò di
colpo. Che diavolo stava facendo?
Regola numero uno: Mai mostrare che rosichi.
Molto meglio levare le tende portandosi dietro la più figa della
festa. Si avvicinò a Simona Somaini, che era al centro di un
capannello di attori della serie Delitti in
carrozza.
– Scusatemi. Ve la porto via un attimo, – fece agli altri
sorridendo a denti stretti, poi prese l’attrice per un polso e,
paonazzo in volto, le disse sottovoce: – Ti devo parlare. È
importante.
Lei sembrò un po’ scocciata. – Che succede, Fabrizio?
– Ascoltami. Andiamocene. Tra poco c’è un aereo che parte per le
Baleari…
– Le Baleari?
– Ah, giusto. Allora… Sono delle isole spagnole nel mare. A
Maiorca, una delle isole Baleari appunto, ho una casa nascosta
sulle montagne. Un nido d’amore. Partiamo subito. Se facciamo
presto riusciamo a prendere ancora un aereo.
L’attrice lo guardava perplessa. – Ma ora stiamo alla festa. Perché
dobbiamo andarcene? È bellissimo. Ci stanno tutti.
Lui le prese il braccio e si abbassò come se dovesse rivelarle un
segreto. – Per questo, Simona! Noi non dobbiamo stare dove stanno
tutti. Noi due siamo speciali. Siamo LA
COPPIA. Non ci dobbiamo confondere con gli altri. Ci
facciamo notare mille volte di più se ce ne andiamo.
Simona non era tanto convinta. – Dici?
– Ascoltami. Non è difficile da cap… – Ma le parole gli morirono
sulla lingua.
Simona Somaini stava subendo una trasformazione somatica. I capelli
le si stavano gonfiando e diventavano più lucidi e vaporosi, come
nella pubblicità di un balsamo. Le tette le si arrampicavano sul
torace quasi infastidite dall’inutile vestito che le velava.
Guardava fissa davanti a sé come se ci fosse stato il Messia che
camminava sulle acque della fontana. Poi posò di nuovo lo sguardo
su Fabrizio e tirò su con il naso. Era commossa. – Non ci credo!
Quello è… Quello è Matteo Saporelli… Oddio… Dimmi che lo conosci,
ti prego. Certo che lo conosci, siete scrittori tutti e due. Io lo
stimo e ci devo andare a parlare ora, subito. Morin sta facendo un
film dal suo romanzo.
Fabrizio fece due passi indietro inorridito, come se si trovasse
davanti un’indemoniata. Se avesse avuto a portata di mano
dell’acqua santa gliel’avrebbe gettata addosso. – Tu sei un mostro!
Non ti voglio vedere mai più – . A grandi falcate attraversò il
piazzale e il giardino all’italiana e arrivò praticamente correndo
alla stazione.
Il treno non c’era.
Si avvicinò a una hostess. – Dov’è? Tra quanto arriva?
La hostess guardò l’orologio al polso. – Tra un quarto d’ora
circa.
– Tra così tanto? Non c’è un altro modo per andarsene?
– A piedi. Ma non glielo consiglio, è pieno di animali
selvatici.
Un cameriere lo raggiunse di corsa. Prima di parlare riprese fiato.
– Signor Ciba! Signor Ciba! Mi scusi, il dottor Chiatti le vorrebbe
parlare. Potrebbe seguirmi?
8.
Zombie si guardò attorno e si avvicinò alle casse di legno che contenevano l’argenteria per i bivacchi. Cominciò a leggere le etichette sui coperchi. Forc… Forc… Colt… Colt… Cuc…
– Queste so’ tutte posate – . Si diresse verso un’altra pila di contenitori. Apri una scatola e custodito da un panno di velluto blu trovò il trinciapollo d’argento. Era così grande che sembrava un trinciastruzzo. Lo prese e tornò tutto contento verso il capanno, quando vide Murder e Silvietta dietro una toilette da campo che si stavano vestendo da camerieri. – Ragazzi, trovato… – disse e s’azzittì.
I due, mentre indossavano le divise, discutevano, anzi sembrava proprio che litigassero. Erano così presi che non si erano nemmeno accorti di lui. Zombie si avvicinò piano piano, senza farsi vedere, e si nascose dietro una Land Rover ad ascoltare.
– Sei pessimo! Nemmeno questa volta gliel’hai
detto, – stava dicendo Silvietta.
– Lo so… Però un po’ gliel’ho detto, è che mi sono bloccato. Guarda
che non è facile in questa situazione, –bofonchiava
Murder.
– E infatti glielo dovevi dire questa mattina, a Oriolo. Poi hai
detto che glielo dicevi in macchina… E ora, come si fa?
Murder ebbe un moto di stizza. – Scusa, ma perché non glielo dici
tu? Non mi è chiaro perché lo devo fare io.
– Sei impazzito? Sei stato tu a dirmi che era meglio se gliene
parlavi tu. Che conosci da un pezzo Saverio e sai come
prenderlo.
Lui addolcì la voce. – Non è mica facile, patatina. Sono cose
delicate, lo sai meglio di me.
La Belva sentì Silvietta sbuffare. – E che ci vorrà mai? Vai li è
gli dici: senti, perdonaci, io e Silvietta abbiamo deciso di
sposarci e quindi non possiamo suicidarci. Fine. È tanto
difficile?
A Zombie cadde di mano il trinciapollo.
Nell’ex residenza reale Mantos, con una cassa di vino tra le
braccia, attraversò l’ingresso di servizio e si ritrovò nel
salotto. Rimase a bocca aperta. Altro che le cagate del Mobilificio
dei Mastri d’Ascia Tirolesi. La commistione tra antico e moderno
era di un gusto sopraffino. Era questo che intendeva quando ai
brainstorming cercava di sgrezzare il vecchio Mastrodomenico e
avvicinarlo al mondo dell’Interior Decoration. Passò attraverso un
disimpegno e si ritrovò in uno studio tappezzato di librerie
altissime. Tutti i volumi erano rivestiti di carta da pacchi e il
titolo era scritto in una bella grafia. L’effetto era una stanza
marroncina. Al centro c’era un unico blocco di legno massello, così
grande che doveva essere o un baobab o una sequoia. Sopra, un
telefono nero.
Lo guardò.
Non farlo.
Poggiò la cassa e prese la cornetta.
Sto facendo una stronzata.
Non importava, prima di buttarsi in quella missione suicida doveva
sentire ancora una volta la voce di sua moglie.
Trattenendo il respiro compose il cellulare di Serena. – Tesoro…
Sono io…
La risposta fu un: – Dove cazzo sei?
– Amore, aspetta… Fammi spiegare…
– Che devi spiegare? Che sei un povero coglione,
– lo aggredì Serena.
Saverio si sedette sulla poltrona. Poggiò i gomiti sul
tavolo.
Si era scordata tutto. Come se la notte passata non fosse mai
esistita. Era tornata ad essere la crudele Serena.
Chissà cosa mi aspettavo? Che sarebbe
cambiata?
Nessuno cambia. E Serena era tale e quale da quando era stata messa
al mondo. Il miraggio che con il tempo si sarebbe addolcita lo
aveva incastrato nel matrimonio con quella strega. Questo
meccanismo perverso li aveva tenuti legati. E lei se ne era
approfittata, facendolo sentire un deficiente senza
palle.
Con un groppo in gola allontanò la cornetta dall’orecchio, ma anche
così la sentiva sbraitare: – Ma ti sei bevuto il cervello? Sono ore
che ti chiamo al cellulare ed è sempre spento. Papà è fuori dalla
grazia di Dio. Ti vuole licenziare. Oggi comincia la settimana
delle camerette. Qui ci stanno duemila bambini che urlano. E tu
dove sei? Con quei quattro mentecatti. Ma quant’è vero Iddio questa
te la faccio pagare salata…
Saverio guardava fuori dalla finestra. Un pettirosso si puliva le
penne su un albero di ciliegie. La visione sfocò, velata dalle
lacrime.
Per farsi rispettare da quella donna avrebbe dovuto violentarla
ogni notte. Prenderla a calci come una cagna, ma quella non era la
sua idea di amore.
Almeno ora sono certo di aver fatto la scelta
giusta.
Una strana calma si impossessò di Saverio. Si sentì tranquillo. Non
aveva più dubbi.
Avvicinò la cornetta alla bocca. – Serena ascoltami bene. Ti ho
sempre amata. Ho provato in tutti i modi a renderti felice ma tu
sei una brutta persona e rendi brutto pure quello che ti sta
intorno.
Serena aveva una voce rauca, da posseduta. – Come ti permetti!
Dimmi dove sei? Vengo lì e ti spacco la faccia. Saverio te lo giuro
sulla testa di mio padre.
Il leader delle Belve di Abaddon gonfiò la cassa toracica e con la
voce ferma disse: – Io non sono Saverio, io sono Mantos – . E
attaccò.
– Che diavolo stai facendo qui? Chi ti ha detto di prendere il trinciapollo?
Zombie non ebbe nemmeno il tempo di girarsi, capire, che fu acchiappato per un orecchio e trascinato in mezzo al piazzale. Cominciò a urlare cercando di liberarsi da quella morsa. Con la coda dell’occhio riuscì a vedere Antonio che gli stritolava il padiglione.
Il capocameriere aveva le vene del collo gonfie e gli occhi iniettati di sangue e sputacchiava urlando a Murder e Silvietta: – Ehi! Ehi! Voi due perché siete vestiti da camerieri?
Zombie riuscì a liberarsi e si massaggiò
l’orecchio bollente.
– Voi dovete essere impazziti. Credete forse di stare alla sagra
del coregone a Capodimonte? Ma vi aggiusto io – . Antonio diede uno
spintone a Murder. – Ditemi perché siete vestiti da
camerieri.
– Pensavamo di essere utili. Qui non c’è molto da fare… – provò a
buttare là Murder senza troppa convinzione.
Antonio gli si avvicinò a un palmo dal naso. Aveva l’alito che
sapeva di mentolo. – Utili? Voi pensate che stiamo giocando? E che
gioco è? Un, due, tre, stella? Buzzico rampichino? Voi belli belli
avete deciso che volete fare i camerieri? Voi cazzeggiate e io
perdo il posto. Non avete capito dove siamo? Di là ci sono
camerieri dell’Harry’s Bar, dell’Hotel de
Russie, gente che ha fatto l’alberghiero, ho rifiutato
personale del Caffè Greco – . Antonio
era cianotico, dovette fermarsi un istante per riprendere fiato. –
Adesso fate una bella cosa, vi spogliate e uscite da qui. Non vi do
una lira e quella faccia di merda di Saverio se ne va via con voi!
Mai fidarsi dei parenti. A proposito dove sta quel… – Antonio si
portò una mano al collo come se lo avesse pizzicato un tafano. Si
strappò qualcosa da sopra il colletto della camicia e aprì la
mano.
Sul palmo si trovò un cono di carta con uno spillo sulla
punta.
– Ma che…? – riuscì solo a dire, poi le palle degli occhi rotearono
in su mettendo in mostra la sclera bianca e la bocca gli si
paralizzò in un ghigno. Fece un passo indietro e, rigido come una
statua, crollò a terra.
Le Belve lo guardavano stupite, poi da un cespuglio apparve Mantos
con la sua cerbottana. – Cagava il cazzo, eh? Non sapete quanto lo
cagava a scuola…
Murder diede il cinque al suo capo. – L’hai steso. Questo Sedaron è
una bomba.
– Ve l’avevo detto. Bravo Zombie, hai trovato il
trinciapollo.
– E di questo? – Silvietta si abbassò sul corpo di Antonio. – Che
ne facciamo?
– Lo leghiamo e lo imbavagliamo. E poi lo nascondiamo da qualche
parte.
9.
Mentre seguiva il cameriere verso la Villa Reale, Fabrizio Ciba imprecava tra sé. Non aveva tempo da perdere, aveva un aereo da prendere e dover parlare con Sasà Chiatti lo innervosiva. Assurdo, era stato al cospetto di Sarwar Sawhney, un premio Nobel, senza provare particolari emozioni e ora che doveva incontrare un tipo insignificante come Chiatti gli batteva il cuore? La verità era che gli uomini ricchi e di potere lo rendevano insicuro.
Entrò nella villa e rimase stupito. Tutto si aspettava tranne che la residenza fosse arredata in stile minimalista. Il grande salone era una semplice spianata di cemento. In un camino di pietra grezza bruciava un grosso ciocco di legno. Vicino, quattro poltrone degli anni Settanta e un tavolo in acciaio lungo una decina di metri su cui pendeva un lampadario antico. Due esili sculture di Giacometti. In un altro angolo, come se fossero state dimenticate li, quattro uova di Fontana e sui muri intonacati a calce dei cretti di Burri.
– Di qua… – Il cameriere gli indicò un lungo corridoio. Lo fece entrare in una cucina coperta di maioliche marocchine. Da uno stereo Bang & Olufsen uscivano le note romantiche di Lezioni di piano di Michael Nyman.
Un donnone tarchiato, con un casco di capelli color mogano, spiattellava sui fuochi. Al centro della stanza, intorno a un tavolo di legno rustico, erano seduti Salvatore Chiatti, una silfide albina, un vecchio decrepito con addosso una tenuta coloniale tarlata, un monaco e la cantante Larita.
Stavano mangiando quelli che avevano tutta l’aria di essere rigatoni all’amatriciana con parecchio pecorino grattato sopra.
Fabrizio ebbe la presenza di spirito di dire: –
Salve a tutti.
Chiatti indossava una giacca di velluto beige con le toppe sui
gomiti, una camicia di flanella scozzese e un fazzoletto rosso
legato intorno a quel poco di collo che la natura gli aveva
concesso. Si pulì la bocca e allargò le braccia come se lo
conoscesse da cento anni. – Ecco il grande scrittore! Che piacere
averla qui. Si sieda con noi. Stiamo mangiando alla buona. Spero
che non abbia mangiato al buffet. Quella roba noi la lasciamo ai
nostri ospiti vip, vero mammà? – Si girò verso la chiattona ai
fornelli. La donna, impacciata, si pulì le mani sul grembiule e
accennò un saluto con la testa. – Noi siamo persone semplici. E
mangiamo la pastasciutta. Prenda una sedia. Che aspetta?
Di primo impatto a Fabrizio parve che Chiatti fosse una persona
affabile, con un gran sorriso gioviale, ma si percepiva che i suoi
erano ordini e che non amava essere disubbidito.
Lo scrittore prese una sedia accostata al muro e sedette in un
angolino tra il vecchio e il monaco, che gli fecero
spazio.
– Mammà, fai un piatto come Dio comanda al signor Ciba, che mi
sembra un po’ sbattuto.
In un istante Fabrizio si ritrovò davanti una porzione gigantesca
di rigatoni fumanti.
Chiatti afferrò un fiasco di vino e gli riempi il bicchiere. –
Togliamoci di mezzo le presentazioni. Lui… – indicò il vecchio
rinsecchito. – … è il grande cacciatore bianco Corman Sullivan. Lo
sa che quest’uomo ha conosciuto lo scrittore… Come si
chiama?
– Hemingway… – disse Sullivan e prese a tossire e a scuotersi
tutto. Dal vestito uscivano nuvole di polvere. Quando si riprese
strinse senza forza la mano di Fabrizio. Aveva le dita lunghe,
coperte di macchie depigmentate.
A Ciba il cacciatore bianco ricordava qualcuno. Ma certo! Era tale
e quale a Ötzi, l’uomo del Similaun, il cacciatore che avevano
trovato congelato in un ghiacciaio delle Alpi.
Chiatti indicò la silfide. – Lei è la mia fidanzata Ecaterina – .
La ragazza abbassò la testa in segno di saluto. Somigliava alla
Regina delle nevi di una saga nordica. Era così bianca che sembrava
morta da tre giorni. Attraverso la carne si intravedeva il sangue
scorrerle scuro nelle vene. I capelli, rossi come fuoco, formavano
una criniera intorno al volto piatto. Non aveva sopracciglia e il
collo era sottile come quello di un levriero. Doveva pesare una
ventina di chili.
Fabrizio sentendo il nome ricordò. Era la famosa modella albina
Ecaterina Danielsson. Una che un mese si e un mese no era sulle
copertine delle riviste di moda di tutto il mondo. Era in assoluto
l’essere morfologicamente più distante da Chiatti che la natura
avesse creato.
– E questo qui… – indicando il monaco. – Dovrebbe conoscerlo. È
Zóltan Patrovič!
Certo che Fabrizio lo conosceva. Chi non conosceva l’imprevedibile
chef bulgaro, proprietario del ristorante Le
regioni? Ma da vicino non l’aveva mai visto.
Questo invece chi gli ricordava? Ecco, Mefisto, il nemico giurato
di Tex Willer.
Fabrizio dovette abbassare lo sguardo. Gli occhi del cuoco
sembravano penetrargli dentro e intrufolarsi tra i
pensieri.
– E per finire, la nostra Larita, che stanotte ci farà il grande
onore di cantare per noi.
Finalmente Ciba si trovava di fronte a un essere umano.
Carina, si disse stringendole la
mano.
Chiatti indicò Ciba: – E lui sapete chi è?
Fabrizio stava per dire che non era nessuno, quando Larita sorrise
mostrando gli incisivi leggermente distanti e disse: — È il più
grande di tutti. Ha scritto La fossa dei
leoni. Bellissimo. Ma il mio preferito è Il sogno di Nestore. L’ho riletto tre volte. E
tutte e tre le volte ho pianto come una bambina.
Fu come se un dardo avesse centrato in pieno petto Fabrizio Ciba.
Le gambe, per un istante, gli cedettero e per poco non si accasciò
sulla spalla dell’uomo del Similaun.
Finalmente qualcuno che lo aveva capito. Quello era il suo libro
migliore, per finirlo si era spremuto come un limone. Ogni singola
parola, ogni virgola era stata tirata fuori con fatica. Quando
pensava al Sogno di Nestore gli veniva
un’immagine. Era come se un aereo fosse esploso in cielo e i resti
dell’apparecchio si fossero sparsi in un raggio di migliaia di
chilometri su un deserto piatto e sterile. A lui toccava cercare i
pezzi e rimettere insieme la carlinga dell’aeroplano. Tutto il
contrario della Fossa dei leoni, che
era uscito fuori senza sofferenza, quasi si fosse scritto da solo.
Eppure lui era certo che Il sogno di
Nestore fosse la sua opera più matura e completa. Ma
l’accoglienza tra i suoi lettori era stata, a essere gentili,
tiepida e i critici glielo avevano stroncato. Quindi sentendo la
cantante dire quelle cose non poté che provare una profonda
gratitudine.
– Sei gentile. Mi fa piacere. Grazie, – le disse quasi
imbarazzato.
Difficilmente avresti notato Larita incrociandola per strada, ma se
la osservavi con attenzione non potevi non ammettere che era molto
carina. Ogni parte del suo corpo era proporzionata. Il collo, le
spalle né troppo grandi né troppo piccole, i polsi sottili, le mani
magre e aggraziate. Il caschetto di capelli neri le nascondeva la
fronte. Il viso era dolce. Il nasino piccolo e quella bocca un po’
troppo larga per il suo ovale esprimevano una simpatia timida e
sincera. Ma soprattutto gli occhi grandi, color nocciola e
screziati d’oro, che in quel momento sembravano un po’
smarriti.
Che strano, tra feste, presentazioni, concerti, salotti, Ciba aveva
incontrato quasi tutti, eppure mai una volta che avesse incrociato
la cantante. Aveva letto da qualche parte che era una ragazza
riservata e si faceva gli affari suoi. Non amava
apparire.
Un po’ come me.
E poi la storia della conversione religiosa a Fabrizio era
piaciuta. Anche lui negli ultimi tempi sentiva forte il richiamo
della fede. Larita era mille volte superiore a quella banda di
disperati dei cantanti italiani. Se ne stava in una casa
sull’Appennino tosco-emiliano a creare…
Proprio come dovrei fare io.
La solita visione gli si materializzò nella mente. Loro due insieme
in una baita rustica. Lei suonava e lui scriveva. Per i cazzi loro.
Forse un figlio. Sicuramente un cane.
Larita si diede un colpo alla frangetta. – Non c’è niente da
ringraziare. Se una cosa è bella, è bella e basta.
Sono un pazzo. Me ne stavo andando via e qui
c’è la donna della mìa vita.
Chiatti applaudi divertito. – Bene. Ha visto Ciba che bella fan le
ho trovato? Adesso per ringraziarmi mi deve fare un favore. Ce l’ha
una poesia?
Fabrizio aggrottò le sopracciglia. – In che senso?
– Una poesia, da recitare prima del mio discorso. Mi piacerebbe
essere introdotto da una sua poesia.
Larita accorse in suo aiuto. – Lui non scrive poesie, almeno
credo.
Fabrizio le sorrise poi, serio, a Chiatti: – Esatto. Io non ho mai
scritto una poesia in vita mia.
– E non ne potrebbe scrivere una, anche brevissima? –L’imprenditore
si guardò il Rolex. – In una ventina di minuti non riesce a
buttarne giù una? Bastano un paio di righe.
– Sarebbe magnifico un piccolo poema sui cacciatori. Mi ricordo che
Karen Blixen… – intervenne Corman Sullivan, ma non riuscì a
continuare perché fu sopraffatto da un attacco di tosse.
– No. Mi dispiace. Non scrivo poesie.
Chiatti allargò le narici e strinse i pugni, ma la voce continuò ad
essere cordiale. – Allora ho un’idea. Potrebbe leggerne una di
qualcun altro. Dovrei avere in casa un libro di poesie di Pablo
Neruda. Cosi le andrebbe?
– Perché dovrei leggere una poesia di un altro autore? Ci sono qua
fuori centinaia di attori che si scannerebbero per farlo. La faccia
leggere a uno di loro – . Fabrizio cominciava a farsi girare i
coglioni.
Zóltan Patrovič improvvisamente batté il coltello sul
bicchiere.
Fabrizio si voltò e rimase catturato dal suo sguardo magnetico. Che
fenomeno singolare, sembrava che gli occhi dello chef si fossero
ingranditi occupandogli tutto il volto. Sotto il cappuccio nero era
come se ci fossero solo due enormi globi oculari che lo fissavano.
Fabrizio provò a spostare lo sguardo, ma non riuscì. Allora provò a
chiudere gli occhi per spezzare l’incantesimo, ma falli di
nuovo.
Zóltan posò la mano sulla fronte dello scrittore.
Di colpo, come se qualcuno glielo avesse spinto a forza nella
memoria, a Fabrizio tornò in mente un episodio della sua infanzia
che aveva dimenticato. I suoi genitori, d’estate, partivano in
barca a vela e lo lasciavano con la cugina Anna in una baita di Bad
Sankt Leonhard, in Carinzia, da una famiglia di contadini
austriaci. Era una zona bellissima, con montagne ricoperte di pini
e prati verdi su cui pascolavano beate le mucche pezzate. Lui
indossava i pantaloncini di pelle con le bretelle caratteristici di
quella zona e gli scarponcini con i lacci rossi. Un giorno, mentre
cercava i funghi insieme ad Anna, si erano persi nel bosco. Non
riuscivano più a raccapezzarsi. Avevano continuato a girare in
tondo, mano nella mano, sempre più impauriti mentre la notte
allungava i suoi tentacoli tra gli alberi tutti uguali. Per
fortuna, a un certo punto, si erano ritrovati di fronte a un
piccolo chalet nascosto tra i pini. Dal camino usciva il fumo e le
finestre erano illuminate. Avevano bussato e una donna con uno
chignon biondo li aveva fatti sedere a un tavolo insieme ai suoi
tre figli e gli aveva dato da mangiare gli Knödel, delle grandi
palle di pane e carne immerse nel brodo. Mamma mia com’erano buone
e morbide!
Fabrizio si accorse che non desiderava niente di più nella vita che
un paio di Knödel nel brodo. In fondo non gli costava niente dire
di si a Chiatti, dopo poteva sempre trovare un ristorante
austriaco.
– D’accordo, la leggo. Non c’è problema. Scusate, sapete se in zona
c’è un ristorante austriaco?
10.
Ad ogni gradino la testa di Antonio rimbalzava e il rumore sordo riecheggiava contro la volta di una scala che si perdeva nelle viscere della terra. Murder e Zombie trascinavano il capocameriere per le caviglie.
Il leader delle Belve, in testa al drappello, faceva luce con una torcia elettrica illuminando il soffitto della galleria scavata nel tufo. Si vedevano muffe verdastre e ragnatele. L’aria era umida e sapeva di terra bagnata.
Mantos non aveva la minima idea di dove portasse quella scala. Aveva aperto una vecchia porta e ci si era infilato prima che qualcuno li potesse vedere.
Silvietta si fermò a guardare Antonio. – Ragazzi, ma non gli faranno male tutte ’ste botte in testa?Saverio si girò. – Ha la testa dura. Siamo
quasi arrivati. Mi pare che laggiù finisce.
Murder era stanco. – Meno male. È un’ora che scendiamo. Sembra una
miniera.
Finalmente raggiunsero una grotta. Zombie accese due torce fissate
ai muri. E parte dell’ambiente si rischiarò.
Non era una grotta, ma un lungo stanzone dal soffitto basso con
file di botti marcite e mucchi di bottiglie impolverate. Su ogni
lato della camera una grata arrugginita chiudeva uno stretto
cunicolo che portava chissà dove.
– Questo posto è perfetto per un rituale satanico
– . Murder sollevò una bottiglia spolverando l’etichetta «Ama–rone
del ’43».
– Saranno le cantine reali, – buttò là Silvietta.
– I rituali satanici non si fanno nelle cantine. Al massimo nelle
chiese sconsacrate o all’aria aperta. Comunque alla luce della luna
– . Mantos indicò un angolo sotto le torce: – Dài, molliamo mio
cugino e andiamo, non abbiamo tempo da perdere.
Zombie, in disparte, osservava una grata. Silvietta gli si
avvicinò. – Che strano! Quattro cunicoli identici – . Allungò una
mano oltre le sbarre. – Arriva aria calda. Da dove verrà?
Zombie sollevò le spalle. – Chi se ne frega.
– Dici che è sicuro lasciarlo qua? Non è che poi si
risveglia?
– Non lo so… E nemmeno mi interessa granché – . Zombie si allontanò
tutto sostenuto.
Silvietta lo guardò perplessa. – Ma che hai? Ti rode il
culo?
Zombie s’incamminò sulla scalinata senza rispondere.
Mantos lo segui. – Muoviamoci.
Le Belve avevano risalito un centinaio di gradini quando sentirono
provenire dal basso un rumore smorzato.
Murder si fermò. – Che è stato?
– Si sarà risvegliato Antonio, – fece Silvietta.
Mantos scosse la testa. – Non credo proprio. Quello un paio di
orette se le fa. Il Sedaron è potentissimo.
E proseguirono.
Se invece fossero tornati indietro avrebbero scoperto che il corpo
di Antonio Zauli era scomparso.