14 febbraio
Perciò dal suo esilio di San Martino aspettava con ragionevole ansietà la notizia che parenti e amici – stretti a lei dai vincoli del comune interesse - non avrebbero mancato di farle avere.
Il complesso architettonico di San Martino si stendeva su per il pendio del monte, cinto di mura come una fortezza e graduato come una scalinata, con una via centrale che lo tagliava in due da porta a porta e due laterali che ripetevano fra le case l’ovale avvolgimento delle mura. Così lo aveva voluto donna Olimpia quando, raggiunto finalmente il potere che era lo scopo e il senso della sua vita, aveva sentito il bisogno di offrirsene un’immagine limitata ma perfetta, capace di rispecchiare nella saldezza della propria forma tutte quelle ch’esso veniva prendendo nella sua camaleontica sede romana. Così di quello che era un approssimativo insieme di pochi edifici aveva fatto un organismo esattamente circoscritto, ogni parte del quale stava in rigoroso rapporto gerarchico con le altre: palazzetti di cardinali e case di artigiani scandivano con regolarità – il tetto di ciascuno costituendo un gradino – la loro ascensione verso la mole cupa e massiccia del palazzo Pamphili, a fianco del quale, un poco discosta, si ergeva fra due torri, proiettandosi con l’erbosa spianata sull’altro lato del borgo anch’esso regolarmente digradante, la chiesa, che del palazzo moltiplicava all’infinito i significati: giacché feudatario era il papa, cioè lei, donna Olimpia, sua cognata.
Ai piedi del monte, su un terreno ancora accidentato e mosso, sorgeva la città di Viterbo: lì donna Olimpia era nata e aveva vissuto remote stagioni di fidanzata, di sposa e di madre, durante le quali sapeva bene cosa volesse ma, non vedendo alcuna via per arrivarci, si muoveva quasi sempre a caso.
Quand’era fanciulla la sua famiglia - modesta nobiltà di provincia – aveva tentato di chiuderla in convento; infine le avevano offerto il matrimonio. Non potendo dir di no anche a questo, si era sposata – e successivamente risposata a Roma. Il suo secondo marito, Pamphilio Pamphili, era un uomo sufficientemente ricco e attraente che le aveva fatto perdere in modo talvolta piacevole gli anni migliori della giovinezza; finché, a forza di cercare e di guardarsi intorno, aveva individuato l’unica carta che – donna, e rispettabile, in una città dalla quale il governo dei preti si estendeva al mondo – avrebbe potuto giocare: l’abate Giovan Battista suo cognato.
Allora quella brama oscura, quell’ inquietudine per cui nessuna delle cose che faceva – amore, figli, attività domestica e mondana – le appariva come uno scopo e, poiché non sapeva in che modo usarne, nemmeno come un mezzo, trovarono finalmente l’oggetto, in ordine al quale ecco che ogni cosa trovò a sua volta il suo posto e gli eventi si concatenarono. Allora ebbe un senso aver visto morire così giovane il primo marito, la cui eredità le aveva permesso di sposare il secondo, e aver partorito dei figli, per i quali aveva preso campo nella nuova famiglia; mentre il faticoso governo della casa, le relazioni sociali e le pratiche religiose diventavano, in prospettiva, utilissimo tirocinio amministrativo e propaganda elettorale. La sua stessa bellezza e l’arte femminile di piacere e di persuadere – doti che fino a quel momento aveva posseduto ed esercitato con la sensazione che il gioco non valesse la candela – ebbero finalmente di fronte un compito degno di loro: la seduzione del prete, ch’ella avrebbe aiutato a diventare cardinale – forse papa.
Con un sorriso di disprezzo donna Olimpia ripensava ogni tanto a tutte le cose che – cominciando da Pasquino per finire ai protestanti – erano state dette sui suoi rapporti con Innocenzo X. Perfino uomini esperti come il cardinale Mazarino o il Barberini avevano potuto credere sul serio che fossero di carattere sessuale: quasi che il sesso fosse il mezzo più adatto per tenere legato trent’anni un vecchio malato e per giunta sinceramente devoto. Invece proprio l’ innocenza del loro affetto aveva permesso che fin dall’inizio il cognato vi si abbandonasse con serena fiducia; e sommando il piacere della sua compagnia all’utilità dei suoi consigli, non si facesse scrupolo di volerla presso di sé durante la Nunziatura a Napoli, di lamentare apertamente la sua assenza durante quella in Spagna e, una volta eletto papa, di lasciarle a Corte uno spazio e un’autorità quali nessuna donna vi aveva mai avuto. Più tardi pressioni interessate, che facevano leva sulla gravità dello scandalo e delle sue conseguenze per la Chiesa in Europa, lo avevano indotto a metterla in disparte, a interrompere la loro collaborazione quotidiana; ma, non appena morto il cardinale Panziroli, l’aveva richiamata a sé, sfidando tutte le critiche vicine e lontane. <<E volete che questo sia effetto della passione sensuale di un ottantenne per una donna di quasi sessant’anni piuttosto che di una coscienza tranquilla: imbecilli che siete>> non poté fare a meno di concludere a bassa voce donna Olimpia.
Certo, il papa era stato fin dal primo momento innamorato di lei: una predilezione così esclusiva e costante non si ottiene in altro modo da un uomo. Solo che non lo aveva mai saputo, credendo che i legami familiari e la stima personale bastassero a motivarla. E farglielo credere era stato il suo capolavoro: altrimenti che differenza ci sarebbe stata fra lei e una qualsiasi delle migliaia di meretrici che infestavano Roma soprattutto ad uso dei preti? Senza dire che la sua declinante bellezza avrebbe perduto rapidamente terreno sul doppio fronte dei rimorsi di lui e della concorrenza di tante più giovani. La quale peraltro non era del tutto mancata, ma solo nell’ambito familiare, dove era stato più facile tenerla sotto controllo.
Suo figlio Camillo era un uomo mediocre, che amava più l’indipendenza del potere. La nuora invece - principessa di Rossano: bella donna e gran signora – era ambiziosa e avrebbe voluto screditare donna Olimpia, al tempo stesso conservando intatto il credito di lei per trasferirlo a se stessa. Da ciò le incertezze del suo comportamento, sempre oscillante fra sabotaggio e collaborazione - mentre molto semplicemente donna Olimpia l’aveva esiliata insieme al marito prima che il papa potesse conoscerla e l’aveva lasciata tornare a Roma soltanto dopo qualche anno, quando ormai il vecchio si era già fatta di lei un’idea sufficientemente negativa.
Ora che non valeva più la pena di essere rivali, la principessa di Rossano stava riprendendo le distanze che la sua nascita e posizione le consentivano; e Camillo, vedendo bene di essere sulla barca della madre, non su quella della moglie, si era anche disamorato di lei.
La giornata passava col vento sui tetti di San Martino. Nelle grandi sale riccamente addobbate, dopo un desinare più volte differito, donna Olimpia aveva ricominciato ad aspettare.
Con l’intuito – l’unico sicuro: quello che deriva dall’intelligenza e dal suo esercizio – mediante il quale aveva fatto un papa e insieme a lui dettato legge urbi et orbi , ella sentiva che ormai il nodo delle proteste e delle accuse non poteva gonfiarsi di più e per forza doveva essere, o sciolto, o stretto. Secondo una prassi generalmente rispettata, Alessandro VII avrebbe evitato di tornare su illegalità e abusi che si potessero imputare direttamente al suo predecessore¸ ma ne restavano lo stesso molti – e bastava ricordarsi di come dieci anni prima, quantunque cardinali e protetti dalla Francia, erano stati espropriati e perseguitati i nipoti di Urbano VIII. Con loro donna Olimpia aveva giocato una delle sue partite più belle, riuscendo sempre a servirsene – amici o nemici che fossero. Infatti essi erano odiati e temuti da tutti e proprio il loro veto, sfruttato in modo che l’odio prevalesse sul timore, aveva deciso il conclave ad eleggere Innocenzo X: così come troppa era stata la soddisfazione di veder confiscati i loro beni perché ci si accorgesse, almeno sul momento, che questi, più che tornare alla Chiesa, passavano ai Pamphili.
15 febbraio
In seguito però le cose erano cambiate: i papi non sono eterni e donna Olimpia, sapendo che neppure il suo lo era, aveva offerto ai Barberini i vantaggi della propria amicizia in previsione di quelli della loro, quando si fosse trovata a condividerne la precaria posizione di ex-nipoti.
In questa coincidenza di interessi a diversa scadenza, il matrimonio fra la piccola Olimpia, figlia di sua figlia, e il loro primogenito Taddeo aveva definitivamente legato le due famiglie - e ora donna Olimpia contava molto sul cardinale Antonio per disperdere la bufera addensata su di lei.
Tutte accuse che si potevano riportare ad una fondamentale: auri horrenda fames , per dirla con l’antico poeta. E per dirla con i contemporanei, avarizia senza limiti soddisfatta senza esclusione di mezzi: dalla simonia alle confische, dalle tasse al ricatto, dal semplice furto ad ogni possibile forma di corruzione.
Grosso modo, era tutto vero. Eppure donna Olimpia non era avara, perché non aveva mai amato il denaro ma soltanto capito la forza che esso può dare. Avaro invece era stato, per esempio, il Mascambruno che, al culmine di una carriera straordinaria, si teneva le sue ricchezze illecitamente acquistate non da ricco ma da povero qual’era nato. Per un attimo l’immagine di quel prete sparuto e intelligente, che aveva rubato anche per lei ed era finito sulla forca senza che lei muovesse un dito per salvarlo, le pesò cupa nelle memoria. <<Ma questi>> si riprese prontamente
<<sono lussi da uomini. Gli uomini si riconoscono l’un l’altro diritti e compatiscono debolezze: una donna non ha che se stessa.>>
E lei era una donna nata per governare: tuttavia – in quanto donna - non poteva seguire questa sua natura se non attraverso una deplorevole dispersione di forze e degenerazione di fini, perché la base dalla quale agiva andava continuamente rinnovata sul filo di un rasoio. Infatti non c’era legge, né consuetudine né ideale cui potesse appellarsi; la sua vocazione non aveva passato - né futuro, ma soltanto il presente col quale doveva scendere a continui compromessi.
Così sottrarre l’amministrazione delle rendite e dei benefici ecclesiastici alla rapacità e alla corruzione dei burocrati accentrandone il controllo nelle mani del papa avrebbe costituito per la Chiesa un incalcolabile vantaggio materiale e morale – se papa fosse stata lei. Ma il potere svincolato dal diritto la costringeva a procurarsi qualche altro sostegno: perciò sotto la sua
<<esatta economia>> i mille ruscelli e canaletti della precedente corruzione erano spesso confluiti in un fiume, che sfociava nelle sue tasche. E più o meno lo stesso era avvenuto per ogni iniziativa di governo: perché le circostanze forzano più spesso al male che al bene.
Però, tutto sommato, non era stato poco aver impedito al papa di compromettere il prestigio della Chiesa nella pseudo-rivoluzione di Masianello e averlo gradualmente sciolto dall’egemonia spagnola senza sottometterlo alla Francia: di fronte all’indipendenza raggiunta cosa importava che per anni donna Olimpia avesse illuso sia francesi che spagnoli di poter comprare da lei –
anticipando forti caparre – una supremazia che né gli uni né gli altri avevano ottenuto? La plebe romana le rimproverava l’oppressione fiscale e la corruzione della giustizia: ma non le subiva forse da sempre? Lei almeno aveva chiamato Bernini e Borromini a fare, oltre alla nuova casa e alla chiesa dei Pamphili, le belle fontane dalle quali zampillava a tutta Roma il dono preziosissimo dell’acqua.
Queste cose donna Olimpia avrebbe voluto dire al nuovo papa; ma il papa non l’aveva voluta ricevere. E ora, nel silenzio di quella grande casa battuta dal sole e dal vento, cominciò a pensare che forse non era bastato farlo cardinale per farselo amico – forse, peggio che ingrato, semplicemente riteneva che la giustizia venga prima della riconoscenza. Concentrandosi, ne ritrovava nella memoria lo sguardo pacato, la parola misurata – talvolta addirittura taciuta, la sottintesa inflessibilità della presenza; si ricordò che non accettava mai regali e che dopo l’elezione aveva perfino proibito ai suoi parenti di raggiungerlo a Roma.
Potrebbe un uomo simile intendere le ragioni di una donna come lei, anche se l’avesse ascoltata?
Donna Olimpia seppe di non avere speranze prima ancora che, a notte fonda, arrivasse finalmente una lunga lettera del figlio che le comunicava dettagliatamente le accuse – non meno gravi di quelle che avevano portato alla forca Mascambruno – in base alle quali sarebbe stata processata.
<<Bene>> si disse andando a letto <<domani farò venire i miei avvocati>>.
Ma un altro processo, che non ammetteva avvocati e avrebbe fatto dimenticare questo sia agli accusatori che all’accusata, si stava intanto misteriosamente svolgendo; e già la sentenza serpeggiava nascosta fra le file dei soldati spagnoli di presidio in Sardegna, con i quali passò il mare l’anno seguente per celebrare a Napoli la sua terribile pubblicazione: era la peste. Da Napoli raggiunse Roma, poi Viterbo, infine il palazzo di San Martino, dove il 6 settembre 1657 donna Olimpia morì – sola come era vissuta.