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disegno cuori

Elle

«Parigi trasuda amore.»

Palmer improvvisa un passo di danza sul marciapiede di fronte al Centre Pompidou. Ha ragione lui. La città della luce rifulge, nei colori del crepuscolo che sfumano nel pastello, di una bellezza lieve e sfuggente. Fatta di angoli e di curve. Di ponti e di riflessi. Di barche e di nuvole. Fatta di amanti abbracciati sotto il ponte dei lucchetti e di baci sfiorati. I colori. I colori a Parigi sono diversi. L’antracite dei cieli gravidi di pioggia che colpisce il turista ignaro lasciandolo basito e intriso d’acqua, il rosso dei tramonti che sorprende e induce all’amore, il rosa delle albe che si colgono dagli abbaini ottocenteschi. E ancora il verde del Jardin du Luxembourg, le tendine rosse dei bistrot, il grigio dei lampioni.

Palmer è venuto ad aspettare che Luis finisca il turno per trascinarlo a vedere «la sua creatura».

Luis, a sua volta, ha trascinato me: «Che amica sei, se non condividi?» E così, complice un tramonto primaverile, ci siamo messi in marcia.

«Parigi va gustata col naso all’insù» gli dico. Poco importa se indosso i tacchi della divisa che, dall’alto dei loro otto centimetri, conferiscono un’andatura gentile ma rendono difficoltoso camminare.

«Non sogna chi fissa i marciapiedi», aggiunge Palmer.

Eppure ne abbiamo macinati di chilometri se, dopo una serie d’inciampi dovuti ai tacchi, ai tombini e ai ripetuti richiami da parte di Palmer a guardare il cielo senza soffermarsi sugli ostacoli presenti sull’asfalto, siamo arrivati al Centre Pompidou. Un agglomerato di acciaio e di tubi colorati che custodisce le eccellenze dell’arte contemporanea. Luis, mosso a pietà, per l’ultimo tratto ha lasciato il nerboruto braccio di Palmer per aiutare me e, pur non avendo mai provato l’esperienza in prima persona, mi sono sentita come quegli acrobati di sci acquatico che corrono sulla superficie delle onde come Cristi pagani.

Palmer sospira e, non fosse per il dolce peso che si porta appresso, che lo fa assomigliare a un ippopotamo vestito con una tenda da circo fucsia, sembrerebbe una ballerina. Mi corre incontro e, nel prendermi sottobraccio, quasi mi solleva da terra.

«Belli, i tuoi capelli. Sono cresciuti di notte?» gli chiedo.

Palmer scuote il caschetto fucsia che poggia sulla sua testa calva. «Darling, questo è un vero feticcio.» Agita il capo, con movenze simili a quelle della Carrà dei tempi d’oro. «Viene dalla città degli angeli. Lo so che la moda nel mondo è sinonimo di Parigi, ma potevo non rifornirmi nello stesso negozio di Angelina Germanotta?»

Guardo scorata Luis, cercando di intuire dal suo sguardo chi possa essere questa Angelina di cui parla. Una cugina italiana che vive nell’entroterra calabrese e che per ovviare alla noia della produzione di peperoncini sottolio si dedica alla vendita di articoli dedicati a un mercato particolare? Un’emigrata a Los Angeles che ha fatto fortuna con la realizzazione di parrucche che ricordano gli evidenziatori da ufficio? O una nonna contagiata dai gusti eccentrici di qualche nipote che la notte, di nascosto dai figli, gli cuce bizzarre acconciature?

«L’ho pagata una follia. E non è l’unica. Le colleziono, sai? Non c’è drag queen di Melrose Place che non si rifornisca da CrazyHair!»

Con questi dettagli aggiuntivi decade l’ipotesi della nonnina che cuce di notte per sedare i folli istinti del nipote. E anche quella della cugina italiana tra i barattoli di peperoncini.

«Ah, la nostra Angelina!» Commento come se sapessi di chi sto parlando.

Luis allora rompe l’imbarazzo e sigilla con una battuta il mio sguardo dubitativo. «L’ultimo album di Lady Gaga è meraviglioso come le sue parrucche

«Ma certo, Angelina è Lady Gaga!»

«Come Luisa Veronica è…»

«Stiamo giocando a Trivial Pursuit e nessuno me l’ha detto?» domando, nel tentativo di distogliere l’attenzione dal terzo grado cui mi stanno sottoponendo.

«Darling, questa è cultura di base. Allora, ripeto: Luisa Veronica è…»

E Lulù si mette a fischiettare un motivetto che mi ricorda qualcosa. Fiu, fiu, fiu, fiuuuu. È Like a Virgin e, dalla nebbia dei pensieri, emerge vivida l’immagine di una bionda ossigenata in calze a rete.

«Madonna!» Grido convinta, facendo girare due turisti intenti a fotografare le vetrine intorno al Beaubourg.

«Meno male, darling. Se non avessi risposto esattamente a questa domanda fondamentale, avrei cominciato a nutrire seri dubbi sulle tue competenze.»

Elucubrando su chi sia la migliore tra Lady Gaga e Madonna, arriviamo in rue de la Verrerie, una stradina pedonale vicino al Centre Pompidou.

«Benvenuti al Material Shop!» Palmer si inchina entusiasta verso l’ingresso di un negozio, invitandoci a entrare.

«Mhm, ma che bella gente. Sembra di essere nella pubblicità della Coca-Cola Light», commenta Palmer osservando due muratori dalla pelle ambrata che gli passano un caschetto. «Non posso, mi rovino la piega.», indica la parrucca. Ma il capomastro sembra irriducibile. E insiste, fermo nella sua posizione.

«Allora i signori potranno tornare dopo che avremo terminato.»

Palmer sbuffa ma gli strappa di mano il caschetto e delicatamente lo posa sulla parrucca.

Il negozio è su due livelli e le pareti sono quasi interamente costituite da cristalli.

Palmer si rivolge a me e a Luis: «Comunque, qui ci sarà una tigre e qui lo spazio per personalizzare le magliette».

«Una tigre imbalsamata?» chiedo e istintivamente indietreggio: devo ammettere che l’immagine del grande felino impagliato e farcito di formalina mi lascia di stucco. Per usare un eufemismo.

«Si chiama Salomè! E non è imbalsamata, darling. È un peluche in scala 1:1. L’ultimo regalo di un adorabile ragazzo catalano di nome Antonio…» spiega, alzando lo sguardo al cielo.

«Il passato è passato, chéri», interviene Luis prendendolo a braccetto. «Ora sei a Parigi e nella città dell’amore ti è consentito un amore solo. E indovina come si chiama?»

«Lulù!»

Seguiamo Palmer camminando tra i calcinacci dell’enorme sala.

«Per le pareti e il soffitto ho scelto uno stucco di tonalità antracite. Quanto al pavimento, sarà di marmo di Carrara nero», dice improvvisando una piroetta che quasi travolge il muratore alle prese con un ritocco di calce sul muro. E prosegue: «Qui poi installerò un trono…»

«Anche questo ispirato a Angelina?» chiedo ironica.

«No, piuttosto a Maria Antonietta. O meglio a Peggy.»

«Della Carica dei 101

«Ma no, darling. Peggy Guggenheim, la dogaressa dell’arte. Do you know? Venezia non è solo canali e piccioni!» esclama, poi prende ad agitare le braccia veloci, come lancette di un orologio impazzito, descrivendo l’occupazione degli spazi e disegnando sagome con le dita. «Qui ci sarà un tavolo, sempre di marmo…»

«Ça va sans dire, chéri!»

«Sopra ci saranno alzate d’oro e cornucopie da cui spunteranno magliette.»

«Questo fa molto Re Sole…» Mi permetto di osservare.

«Be’, è attinente con Parigi, no? E sulle pareti la mia collezione di parrucche accanto ai vinili di Luisa Veronica. E poi la chicca delle chicche.»

«Ovvero?» chiedo e subito mi riparo le orecchie: un trapano attraversa una parete e il messaggio mi pare inequivocabile. Gli operai ci stanno invitando a uscire.

«Una copia di Who’s That Girl autografata dalla Divina!»

«Ma non è che Madonna s’indispettirà per la vicinanza alla collezione di parrucche di Angelina? In fondo sono pur sempre concorrenti tra loro.»

Palmer assume una posa dubitativa: la mano a reggere il mento e la fronte corrucciata in una ruga d’espressione. «Forse hai ragione, darling. Allora su questa parete metterò Madonna e su quest’altra Lady Gaga.» E per la seconda volta sbatte contro un uomo alle prese con un faretto del soffitto.

«Monsieur», l’apostrofa l’operaio sceso dalla scala battendogli sulla spalla. «Glielo ripeto: questo è un cantiere e i suoi amici non hanno il caschetto in testa né le scarpe infortunistiche», dice osservando le Mary Jane che indosso.

Palmer si volta e lo squadra dall’alto in basso: «Secondo lei, ne esiste un modello con la suola rossa?»

E lo trasciniamo fuori prima che la battuta senza malizia si trasformi in rissa.