15
Elle
Da quando sono salita a bordo di quest’auto all’apparenza poco più giovane di me, ma certamente con più bozzi e meno rughe, mi sono sentita addosso il peso dello sguardo dello strano ragazzo alla guida. Di lui ho intravisto solo gli occhi verdi riparati da un paio di occhiali stravaganti, e il sorriso sfuggente, attraverso lo specchietto retrovisore. Più lui si mostra, sistemando ripetutamente l’orientamento dello specchietto, più io mi chiudo a guscio. Voglio sparire. Dissolvermi. Annullarmi. O, almeno, teletrasportarmi sul divano letto di casa della vecchia mansarda di rue Bonaparte. Per come sto, potrei perfino sopportare le ricette a base di frattaglie di Georgette o gli agguati del suo gatto dalla coda mozzata.
Edoardo e la sua indifferenza sono stati una tagliola sul mio umore.
E non voglio comunicare con nessuno, tantomeno con un taxista abituato a cogliere in una cliente dagli occhi arrossati una storia da raccontare la sera agli amici davanti a una birra. Detesto piangere e, ancora di più, farmi vedere in quello stato al cospetto di uno sconosciuto.
«Forse ne ha bisogno.» Mi allunga un contenitore di kleenex e intercetto gli occhi che mi paiono un fondo di bottiglia. Avevo tirato su col naso per cinque minuti, sempre col viso rivolto contro il finestrino, per tentare di mascherare il pianto. Ma, evidentemente, con scarsi risultati.
«Grazie», rispondo timida.
Edoardo non mi aveva seguita lungo la scalinata di marmo. Non mi aveva mandato un messaggio mentre ero corsa all’uscita e non aveva tentato di chiamarmi quando mi ero lanciata oltre la coda dei turisti in attesa di un’auto.
Quel taxi aveva accostato, ne era scesa una donna e io, senza pensare, mi ero buttata sul sedile in velluto rosso della vecchia Peugeot, scansando con uno spintone una ragazza che aveva la precedenza su di me.
Sebbene mi sia imposta di non rispondere al suo sguardo, lo sento insistente e d’altro canto non riesco a frenare il pianto. Anzi, peggiora: sto singhiozzando, adesso.
«Signorina, deve sapere che il jazz fa questo effetto a molti.»
«Non credo si tratti di quello», rispondo, senza spostare il viso dal finestrino.
«Allora sarà il connubio tra opere d’arte e musica. Come si chiama? Sindrome di Stoccolma?»
«Stendhal. Sindrome di Stendhal. Si chiama così. E comunque riguarda i dipinti e non la musica.» E torno a soffiare sul kleenex, passandomelo sotto gli occhi per cercare di preservare quel poco trucco sopravvissuto, questa volta, al connubio tra pioggia e lacrime.
Se prima era una sensazione, ora è una certezza. Stasera sarò un «caso umano» da raccontare ai suoi amici, cui mi descriverà come una sociopatica affetta dalla sindrome… di Stoccolma!
Guida sicuro e nell’abitacolo aleggia un piacevole odore di ambra. Osservo il taxi con attenzione e lo sguardo inciampa sulla foto bloccata da un magnete a tema religioso. Ritrae una bella ragazza, insieme al taxista. Mi sporgo e allungo il collo per osservargli la mano sul volante. Non è sposato. O magari fa come Edoardo che qualche volta, quando si ricorda ed è con me in pubblico, si toglie la fede, «per rispetto»!
Parigi sfila oltre il finestrino e il lungosenna, che con la pioggia sfoggia un aspetto lugubre, ci cammina accanto. Superiamo l’Orangerie, ma restiamo bloccati all’altezza di place de la Concorde: esattamente sotto la ruota panoramica. Sbuffo.
«Mademoiselle, succede. Ci sarà stato un incidente. Non resta che pazientare.» Pare tranquillissimo, tanto che spegne il motore.
Quando le giornate cominciano storte, non possono che finire peggio. E mi pento della scelta fatta, visto che in quindici minuti di camminata veloce sarei arrivata al lavoro, ma ero certa che mi avrebbe accompagnata Edoardo e quindi, oltre a dimenticare di buttare in borsa un pacchetto di fazzoletti (per cosa mai mi sarebbero dovuti servire i fazzoletti, uscendo col mio amore?), mi sono scordata anche di portare con me un ombrello. Che a Parigi, invece, è come una baguette sotto il braccio: un accessorio imprescindibile!
«Sa, alla Gare d’Orsay mia madre mi portava spesso da bambino. Tentava di farmi amare la pittura, ma la mia predilezione è stata sempre per la musica: in fondo le note, non sono pennellate nell’aria?»
Annuisco, svogliata, e torno a sospirare. Siamo fermi sotto la ruota panoramica, uno dei primi ricordi legati alla mia Parigi con Edoardo. Avevo comprato i biglietti per augurargli buon Natale dall’alto e, quando eravamo arrivati al cospetto del gigante di ferro e vetro, sebbene lui non fosse particolarmente convinto, l’avevo preso per mano e spinto dentro una cabina. Lui si era guardato intorno, con fare circospetto, per verificare che nessuno lo avesse seguito, poi si era accomodato a bordo. «Non mi sembra una scelta oculata. E se ci vedesse qualcuno?»
Sarebbe stato un sogno che si realizzava. Speravo fortemente che accadesse. Speravo che qualcuno dei nostri studenti, riconoscendo il brillante docente dall’impermeabile sgualcito e la sua solerte assistente, instillasse dubbi e facesse circolare voci che, dai corridoi della Sorbona, potessero arrivare fino a sua moglie. La quale viveva nello splendido V arrondissement. Ma non accadde nulla di tutto ciò. L’uovo in cui eravamo seduti si era alzato e la mia testa si era posata sulla spalla di Edoardo, facendomi stupire di quanto potesse essere meravigliosa la «nostra Parigi». Sapevo che alle nove di sera la Tour Eiffel si sarebbe accesa e così era stato. Il gigante di ferro aveva brillato in un gioco di luci cangianti, dal rosso al fucsia, ed era stato allora che gli avevo sussurrato all’orecchio: «Vorrei che fosse così la nostra Parigi: uno scintillio, giorno dopo giorno».
Lui non aveva risposto a me, ma al cellulare che aveva preso a vibrargli nella tasca. Avevo riconosciuto la voce irritata della moglie e mi ero irrigidita. La poesia si era infranta e, con essa, la nostra serata romantica.
«Senta, mi può lasciare qua», dico sbrigativa all’autista.
«Ma, signorina, manca poco a rue Royale. E poi, con questa pioggia, io e il mio assistente non la lasceremmo mai andare.»
Sembra che la Senna si stia svuotando dal cielo, tanto è il rovescio d’acqua che cade dalle nubi cineree. Forse ha ragione il bizzarro taxista a suggerirmi di aspettare. Anche perché, se tentassi di correre fino al negozio, arriverei completamente zuppa. Per non parlare dei tacchi: il rischio di scivolare su una pozza d’acqua, finendo in traumatologia, sarebbe ancora più alto. Ha ragione il ragazzo dagli occhi verdi che non smette di sorridermi. Che, poi, cosa ci sarà da ridere vedendo una piangere?
Evidentemente, deve avere qualche tara neurologica anche lui. Se io sono una sociopatica depressa ai suoi occhi, lui è un bipolare affetto da schizofrenia ai miei. Infatti, pur essendo soli io e lui su questa Peugeot scassata, si ostina a parlare al plurale, citando nelle sue elucubrazioni un fantomatico «assistente». Ho letto su una rivista che gli psicopatici vanno assecondati, specie se per qualche motivo ti trovi sola in loro presenza. Così gli reggo il gioco.
«Siete molto gentili, signori», dico prendendo fiato e imponendomi di restare seria (che le lacrime a qualcosa servono, ogni tanto). «Lei e il suo assistente, intendo.»
«La ringraziamo, mademoiselle.»
Intanto la musica cambia. Riconosco una melodia tristissima. Il taxista dev’essere un estimatore del cool jazz visto che, tra le note in crescendo di un sassofono, identifico My Funny Valentine.
«Chet Baker!» dico e, in quel momento, vedo spuntare un muso da sotto il sedile. È un chihuahua, che mi annusa le scarpe e poi salta sul sedile, fino a issarsi su due zampe.
«E tu chi sei?»
«Chet!» risponde il ragazzo.
«Chat? Che strana idea quella di chiamare un cane col nome di un gatto.»
«Infatti non si chiama Chat ma Chet, come Chet Baker. Gli ho dato questo nome perché quando l’ho raccolto stavo ascoltando Chet Baker, appunto. Per poco non mi finiva sotto le ruote.»
Il piccolo tripode, sentitosi chiamato in causa, lancia un guaito.
«Tesoro! Che inizio difficile hai avuto.» Lo accarezzo e osservo la sua zampina monca.
«Direi che però, poi, la vita con lui è stata clemente.»
Il taxista mi invita a guardare sotto il sedile, dove, riparata dall’invadenza di clienti curiosi, si trova una piccola cuccia di pile.
«È delizioso. Ma lo avevano abbandonato?» chiedo.
«Questo non lo so, però quando l’ho portato a casa si vedeva che era digiuno da giorni, vero vecchio mio? Glielo dia lei, visto che come vede la sta molto simpatica!» dice, mettendomi in mano un biscotto a forma di osso.
Il cane lo guarda languido, ma aspetta che sia io a darglielo. Lo faccio e lui se lo gusta accoccolandosi sulle mie ginocchia.
«Pensi che allora in casa non avevo nulla tranne alcune scatolette di tonno. Ne ha mangiate tre e me ne ha chiesto ancora.»
«Così minuto e così capiente.»
«Non me ne parli: mi costa meno un cappottino di cachemire che dargli da mangiare.»
E mi ritrovo a sorridere. Quasi inconsapevolmente. Una volta terminato il suo premio, il cane agita la coda inquieto e non smette di regalarmi leccatine sul viso.
«Quanto sei affettuoso!»
«Fa così solo con le persone che gli piacciono. È un po’ come il suo padrone.»
Il tassametro corre. Siamo ormai a ventidue euro che, per poco più di un chilometro, sono veramente una follia. D’altronde, sono minuti che non ci muoviamo di un metro. Lui intercetta il mio sguardo e lo spegne.
«Prezzo speciale per mademoiselle. Vero, Chet?»
Di nuovo un abbaio.
Osservo il taxi e sul sedile del passeggero noto alcuni vinili. «Lei è proprio amante della musica.»
«Come forse lei lo è di quadri. La musica fa un effetto diverso su ognuno di noi. E poi la musica è colore. Come le pennellate degli impressionisti che ha visto poco fa.»
Mi sorprende constatare che questo ragazzo la veda in modo così simile alla sottoscritta.
«Per me i sentimenti sono colori e i dipinti ne sono una perfetta rappresentazione», commento.
Il suo sguardo, se possibile, si fa ancora più penetrante. «Che colore ha l’amicizia?» domanda.
«Arancione, come il campo di girasoli irradiati di sole di Van Gogh.»
«E l’amore?» incalza.
Abbasso lo sguardo, scorata. L’amore per me è verde come il prato del quadro di Chagall.
«Mi scusi. Non volevo essere inopportuno. Per me questi sono rossi! Come la passione che nutro per loro.»
Riconosco la copertina di un vinile di Jacques Brel.
«Li trovo nel posto più straordinario di Parigi. Una boutique nel Marais: Le Temps perdu.»
«Si chiama davvero così?»
«Sì!» risponde di slancio e finalmente l’auto procede, anche se a passo d’uomo.
«Andrò a visitarlo, allora.» Rispondo con un sorriso.
«Parigi è bella. Non fosse per il traffico. Grazie al quale, però, si conoscono persone speciali.» Il ragazzo è veramente galante. Forse troppo, visto e considerato che la foto della sua fidanzata (peraltro ben più giovane di lui) svetta sul cruscotto.
«Bella», dico indicando la foto in cui lui la cinge da dietro, allungando il braccio per reggere la macchina fotografica in un autoscatto. L’inquadratura è inclinata, ma la foto emana un senso di serenità raggiunta.
«La famiglia è il cuore di ogni vita. Senza il futuro, cosa si vive a fare?»
«Lei è molto bella», indico la ragazza.
«Sì, è una meraviglia. E io l’adoro.»
Curioso come l’amore, quello che pare puro a giudicare dalle immagini di questi due, possa permettere di essere galanti con un’altra persona. Quando finalmente imbocchiamo rue Royale, frugo nella borsetta in cerca del portafoglio.
«Non la facevo tipo da Colet», fa il ragazzo.
«Perché, come sarebbe il tipo da Colet?» rispondo scimmiottandolo nei toni.
«Non mi fraintenda: so che si tratta di uno dei fiori all’occhiello della Francia, ma di solito ci porto le turiste qui. E lei, sebbene il suo accento tradisca origini non parigine, non mi sembra una turista…»
«Io ci lavoro», taglio corto.
«Interessante», risponde lui, senza lasciare il mio sguardo dallo specchietto nemmeno per un attimo.
«Ma lei la strada, quando guida, non la guarda mai?»
«Solo se non c’è qualcosa di migliore da vedere altrove.»
Galante e marpione.
L’auto accosta nei pressi della tenda dorata. Porgo al conducente una banconota da venti euro. «Spero che bastino. Non pensavo che la corsa sarebbe stata così lunga.»
«Pensi che, ai miei occhi, questo viaggio è volato. In ogni caso, è ospite del mio assistente.»
«Insisto.»
«Guardi che mi offendo. Un giorno verrò e mi offrirà un tè. So che ce ne sono di ottimi.»
«Il cane non può entrare.»
«Oh, sono sicuro che lei troverà il modo per permetterglielo.» Scende di corsa, riparandosi con la giacca sulla testa, raggiunge la mia portiera e la apre allungandomi una mano. Chet salta giù dalle mie ginocchia, nascondendosi nella cuccia sotto il sedile. «Mademoiselle.»
Scorgo Lulù affacciato alla vetrina sperticarsi in gesti che mi auguro il taxista non veda.
«Be’, allora grazie», gli dico mentre lui avvicina la mia mano alle labbra senza sfiorarla, in un baciamano da signore.
«A presto, mademoiselle.» E torna al volante, di nuovo con la sua giacca di velluto issata sui capelli.
Io entro infreddolita nel negozio e Luis mi corre incontro.
«Chérie, chi era quella meraviglia che ti ha accompagnata?»
«Un taxista, non hai visto?»
«Sono sempre i migliori ad andarsene», sospira. «E, comunque, chérie, ho visto due cose.» Si afferra un indice e comincia a elencare. «Uno: non ti ha fatto pagare. Due: ti ha aperto la portiera e si è congedato con un baciamano.»
«Queste sono tre.»
Strabuzza gli occhi, sollevandoli al cielo. «Te lo ricordi, vero, cosa si dice dei taxisti parigini?»
Me lo ricordo, eccome. C’è un detto che gira e che non li ritrae per nulla affabili o disponibili. Anzi, sono noti per le loro intemperanze e per quel vizio di parlare velocemente in presenza di uno straniero, impedendogli di capire cosa stanno dicendo.
«Il principe azzurro esiste e guida una Peugeot!» riprende euforico, portandosi le mani al petto come una santa in preda all’estasi.
«Ma non eri tu a dire che il principe azzurro è gay?»
«Be’, ma ci sono le eccezioni che confermano la regola. E tu sei la fortunata che ha trovato il biglietto d’oro nella cioccolata di Willy Wonka.»
La metafora mi induce al sorriso. «Senti, biglietto d’oro, guarda laggiù.» Indico un tavolo dove una coppia di turisti sta studiando le voci della lista. «Abbiamo dei clienti da servire. E vedi di non combinare guai come l’ultima volta.»
Luis sospira e s’incammina a passo veloce verso il tavolo. Lo vedo piegarsi garbatamente ad ascoltare l’ordinazione e non posso fare a meno di pensare che l’unico vero principe della mia vita è un ragazzone di due metri dai modi gentili.