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Lui
Parigi è come una chiocciola. Ogni arrondissement è uno strato: in tutto sono venti, strutturati come una spirale. Il primo al centro è quello del Louvre, gli altri sono disposti tutto intorno. Ho passato giorni interi a studiare la mappa della città quando ho iniziato a fare questo mestiere. Certo, il navigatore aiuta, ma non c’è niente di peggio per un cliente di vedere che il taxista che l’ha caricato non sa dove andare e non conosce la destinazione, che magari è un luogo importante come l’Hôtel Ritz a place Vendôme o il Café de Flore in boulevard Saint-Germain-des-Prés.
Prima cosa, quindi, imparare l’ubicazione dei monumenti principali, dalla Tour Eiffel giù giù fino ai cimiteri e al mercato delle pulci di porte de Clignancourt. Quindi gli alberghi: tutti i turisti sono convinti di aver prenotato in un albergo famosissimo, bellissimo e centralissimo, visto quanto hanno speso. E tu devi lasciarglielo credere, fingendo di conoscere alla perfezione dove si trova. A Parigi ci sono migliaia di hotel, senza contare gli appartamenti che ora si affittano su Internet e che sono sparsi ovunque. Sapere almeno in quale arrondissement si trovano aiuta a restringere il campo. Naturalmente, quasi sempre, i turisti che carichi non hanno la minima idea di dove si trovi il posto che hanno prenotato e ogni volta devo affidarmi all’intuito e all’esperienza.
In altre occasioni, invece, basta affidarsi all’istinto di Chet. Come poco fa, quando ho preso a bordo una coppia. Italiani, a giudicare da come urlavano e gesticolavano. Il tripode aveva pensato bene di non manifestarsi e questo già mi aveva fatto riflettere. Quando poi i due turisti, ancora prima di dirmi la destinazione, si erano subito messi a contrattare sul prezzo, ho capito perché Chet si nascondeva.
L’uomo, con un francese zoppicante e parecchio approssimativo, aveva subito cominciato a dire che loro sapevano benissimo quale strada avrei dovuto fare per portarli a destinazione e che quindi non dovevo fare giri inutili per spillargli soldi. Anche perché erano ben consapevoli di quanto dovesse costare quella corsa: quindici euro, non un centesimo di più!
«Ah sì? E dove vi devo portare di grazia?»
«All’Arco di Trionfo.»
«Pas de problème.»
Dato che con gli idioti e i maleducati è inutile discutere e, considerato che i due viaggiatori provetti conoscevano il tragitto, io non avevo battuto ciglio e da Les Halles li avevo depositati davanti all’Arc de Triomphe du Carrousel, che sta proprio accanto al Louvre, nemmeno dieci minuti a piedi se avessero voluto.
«Guarda che bello!» aveva commentato lei.
Che importa se quello che avevano di fronte era un altro arco di trionfo? Quasi una miniatura, molto più piccolo dell’originale (per non parlare di quello della Défense!), fatto costruire da Napoleone, che quanto a ego non era secondo a nessuno, per autoincensarsi.
I due erano scesi soddisfatti e sorridenti. Lui, tronfio, mi aveva piazzato in mano tre banconote da cinque e poi, rivolto alla moglie, aveva bofonchiato qualcosa tipo: «Hai visto? Gliel’ho fatta vedere a quel tassinaro!»
Io sono ripartito subito: non mi andava di vedere la loro faccia quando avrebbero capito che quello non era l’arco che cercavano…
La giornata, però, non è proseguita tanto meglio. Dopo, era stata la volta di tre giapponesi, tutti sorrisi e macchine fotografiche. Gentili, per carità. Il problema è che avevano quasi accecato Chet quando, col solito coup de théâtre, era uscito per la consueta sorpresa.
Una raffica di flash e di ohhhh l’aveva investito e lui era subito schizzato nella sua tana piangendo finché quei tre non erano scesi sotto la Tour Eiffel.
«Vedi? Anche il tuo istinto sbaglia qualche volta.»
Lui mi aveva leccato la faccia.
«Ruffiano. Ora che ne dici di un caffè prima della prossima corsa?»
Di prendere quel caffè, però, non c’è stato tempo. Una donna era arrivata di corsa e mi aveva bussato sul vetro. «È libero questo taxi? La prego mi dica di sì, perché sono in un ritardo pazzesco!» aveva detto piegando la bocca verso il basso come per simulare l’espressione triste dei personaggi dei cartoni animati.
Io avevo abbassato il finestrino intenzionato a mandarla via, ma Chet si era sporto e l’aveva annusata.
La donna allora aveva sorriso e l’aveva accarezzato sul muso. «E tu quanto sei carino?»
Non potevo mandarla a spasso, a quel punto. Io diffido sempre di un umano che odia gli animali, ma mi fido ciecamente degli animali che odiano un umano. E visto che Chet stava leccando le dita di quella donna non potevo certo rifiutare la corsa.
«Allora è libero?»
«Certo. Salga pure e mi dica dove dobbiamo andare. Ha detto che è di fretta?»
«Oh sì, in ritardissimo. Avrei dovuto essere al Musée d’Orsay venti minuti fa…»
«Be’ ci arriverò fra cinque. Può andar bene?»
«Lei è il mio salvatore.» La donna si era seduta dietro e Chet le era subito zompato sulle ginocchia per farsi accarezzare. «È carinissimo questo cagnolino, come si chiama?»
«Chet.»
«Come…»
Il tripode sollevò le orecchie in attesa, pronto a cambiare opinione sull’umana se anche lei fosse caduta nel solito fraintendimento.
«Aspetti, mi aiuti… Chet come quel famoso jazzista?»
«Esatto, Chet Baker!»
Il cagnolino aveva ripreso a leccarle le mani con foga. Lui sì che aveva fiuto per le belle persone!
Per cercare di aiutarla avevo spinto a fondo sull’acceleratore e in quattro minuti il Blanc Désir l’aveva portata a destinazione.
«Lei è un angelo, tenga», mi aveva detto passandomi una banconota da cinquanta.
«Aspetti che le devo dare il resto…»
«Fa nulla. Lo tenga come mancia e magari regali una bella bistecca al piccolo!»
Chet aveva abbaiato.
«Capisci tutto tu, eh? E poi sei un ruffiano nato!»
Stavo per ingranare la prima, quando una delle porte posteriori si era aperta ed era salita trafelata una ragazza.
Volevo dirle che non ero in servizio, ma aveva il viso rigato di lacrime.
Tutte a me capitano oggi, avevo pensato chiedendole gentilmente dove voleva che la portassi.