My name is Lopez, Daniel lopez
Quando Pinochet era agli arresti a Londra per volere del giudice spagnolo Baltasar Garzon e in tutte le capitali finanziarie giungeva l'ordine dello stesso giudice di congelare a scopo cautelativo i suoi beni finché non ne fosse appurata la legale provenienza, dalla sua casa prigione londinese il vecchio despota iniziò a praticare un'inusitata ginnastica bancaria. Con una strana lucidità per un uomo affetto da una «moderata demenza vascolare», trasferì fondi da una banca d'altra, cedette la proprietà di un lussuoso appartamento nella località balneare di Vea del Mar a uno dei suoi nipoti, e fece dozzine di operazioni che certo lasciarono stupefatti i suoi complici della Riggs Bank, negli Stati Uniti.
I dirigenti e i consiglieri di amministrazione della Riggs Bank sono stati apertamente complici di Pinochet, e per dimostrarlo basta citare una delle conclusioni a cui è giunta la commissione d'inchiesta del Senato degli Stati Uniti riguardo agli illeciti commessi dalla suddetta banca e ai suoi rapporti con il dittatore cileno: «La Riggs Bank ha aperto numerosi conti correnti al signor Pinochet con il pieno consenso e sostegno della direzione dell'istituto, ha accettato milioni di dollari nei suoi depositi senza alcuna seria indagine sulle fonti di tali ricchezze, ha creato società finanziarie off-shore di facciata e ha aperto conti correnti intestati a tali società per nascondere il fatto che i fondi depositati appartenevano al signor Pinochet, così come ha alterato i nomi dei suoi conti correnti personali per nasconderne ancora una volta la proprietà».
I ladri sanno che il denaro rubato bisogna trattarlo con delicatezza. I soldi sottratti allo Stato o guadagnati illecitamente con l'estorsione di solito finiscono in conti correnti immobili come acque stagnanti. Niente e nessuno deve smuovere quelle acque più del necessario, ma Pinochet, «quel lestofante dall'intelligenza limitata », come venne eloquentemente definito dal generale Carlos Prats (assassinato per ordine di Pinochet in Argentina), è un tipo che ha creduto alla propria onnipotenza e alla più totale impunità. Dalla sua prigione di lusso a Londra movimentò milioni di dollari e quello fu l'inizio della sua caduta definitiva.
Il Cile vive una stranissima transizione alla democrazia, che teoricamente è iniziata nel 1990 e nessuno sa né quando né come si concluderà. I dirigenti della Concertacion para la Democracia, coalizione formata da democratici cristiani, radicali e socialisti post Allende, che governa il paese da quello stesso anno, hanno negoziato con la dittatura il ritorno a una normalità democratica vigilata da Pinochet, e molte altre cose che noi cileni ignoriamo. Conosciamo alcuni dei diktat della dittatura: il modello economico imposto con successo a forza di sangue e terrore non doveva essere toccato; la Costituzione fatta dal dittatore per garantire l'egemonia delle forze armate sulla società civile non doveva essere riformata; la sinistra sarebbe rimasta ai margini della partecipazione politica e si sarebbe continuato a stigmatizzare qualunque forma di dissidenza dal modello economico liberista, perché la nuova democrazia cilena era questo, un prodotto della nuova situazione di mercato. Tutta la vita sociale, culturale e politica doveva essere funzionale al modello economico.
Ma furono negoziate anche impunità, le vittime delle violazioni dei diritti umani diventarono «agenti che non capivano il modello cileno», e i militari e i criminali e quanti avevano schiacciato la tradizione democratica cilena, Pinochet in testa, erano assolutamente intoccabili.
Noi cileni sappiamo che, senza gli sforzi del giudice Garzon, delle vittime che non hanno mai smesso di insistere perché venissero puniti i colpevoli dei sequestri di persona, delle uccisioni e delle torture, Pinochet avrebbe continuato a tutelare la strana democrazia cilena. Era presente come comandante in capo dell'esercito, come senatore a vita, come ex presidente autoeletto, e per rendere più forte la propria presenza, nella sua ultima dimostrazione di potere, si era autodesignato Capitano Generale Benemerito.
Una volta, durante i sedici anni di terrore, un giornalista domandò alla madre di Pinochet se si sentisse orgogliosa di lui. La brava donna rispose: «Se avessi saputo che era così intelligente, non gli avrei permesso di diventare un militare». Pinochet si è perso per avidità, e soprattutto per la sua enorme idiozia. Andando contro il parere dei suoi consiglieri - alcuni sono sotto processo e altri lo rinnegano - ha cercato di salvare quei milioni di dollari frutto della rapina, del furto, della truffa.
Uno degli stessi consiglieri racconta che, quando andò ad aprire il primo conto fraudolento presso la Riggs Bank, negli Stati Uniti, all'impiegato che per pura formalità gli chiese il nome, rispose: «Il mio nome è Lopez, Daniel Lopez», in una triste parodia della battuta di Sean Connery: «My name is Bond, James Bond».
L'inchiesta avviata dal Senato degli Stati Uniti ci ha: portato a scoprire prima i suoi sedici, poi venticinque e infine ventinove conti milionari e fraudolenti. Abbiamo saputo anche della complicità di altre banche: il Banco Atlantico, oggi Banco Sabadell; la Bank of America, la Coutts & Co. International, oggi parte del Banco di Santander; la Ocean Bank di Miami, la Pine Bank N.A. di Miami, il Banco Espiritu Santo della Florida, la filiale statunitense del Banco de Chile, la City Group, tutte coinvolte nel traffico di denaro sporco fra Cile, Bahamas, Gibilterra e Stati Uniti.
Oggi si parla di diciotto milioni di dollari individuati, ma le proprietà di Pinochet, ripartite tra i suoi familiari, superano i cento milioni di dollari e allora viene da domandarsi: dove ha preso tanto denaro?, qual è l'origine di una così grande fortuna?
Nel 1994, proprio quando Pinochet lasciava il servizio attivo nell'esercito e si trasformava nel nume tutelare della strana democrazia cilena, un dirigente della Riggs Bank andò in Cile e ottenne che l'esercito cileno aprisse i suoi conti correnti nella stessa banca. Molti ufficiali furono premiati per questo e molti, troppi ufficiali con le mani macchiate di sangue depositarono là i frutti della rapina, del bottino di guerra ottenuto in sedici anni di terrore.
Quanti cileni persero le loro automobili al momento della cattura? Quanti cileni persero le loro case o dovettero «venderle» per poco o nulla pur di salvare la vita a un figlio? Quante cilene consegnarono i loro gioielli per sapere «dov'è mio marito, mio figlio, mio padre», a ufficiali che mentivano e chiedevano ogni volta di più per tenere in piedi una speranza?
L'origine della fortuna di Pinochet è il furto. Qualunque contabile può dimostrare che non tornano i conti fra quanto ha guadagnato e quanto ha comprato. Pochissimi cileni credono che Pinochet verrà sottoposto a processo per i suoi crimini e forse neppure per le sue ruberie. Quando era agli arresti a Londra con reali possibilità di venire estradato in Spagna, il governo «democratico» lo ritenne un affare di Stato e si giocò il tutto per tutto pur di evitare l'estradizione. Persino alcuni scrittori si azzardarono a dire che, se Pinochet veniva estradato in Spagna, sarebbe stata in pericolo la democrazia cilena. L'allora ministro degli Esteri José Miguel Insulza, ora segretario generale dell'os~, la prese come una sfida personale e in nome della sovranità cilena fece tutto il possibile per evitare che il tiranno venisse processato. E tuttavia noi cileni crediamo nella giustizia e poiché crediamo nella giustizia, chiediamo un segnale di fiducia, l'unico possibile: l'immediato sequestro di tutti i conti correnti e di tutti i beni del clan Pinochet. Se questo non avvenisse adesso, nei prossimi giorni, allora con tristezza dovremo dare ragione al verso di Francisco de Quevedo: Poderoso caballero es don Dinero.11