Un corvo di nome Castro, o Oscar, o Aleph in ogni caso
Scrivere qualche riga per parlare - perché scrivendo parliamo con una voce più forte della nostra - dell'Aleph significa risalire agli anni gioiosi e intramontabili della gioventù, agli anni invitti pieni di speranze possibili, perché fummo noi stessi a seminarle in lungo e in largo nel nostro magro paese disteso sul Pacifico.
Correva l'anno 1968, dormivamo poco, discutevamo con fervore a qualunque ora, leggevamo come indemoniati qualsiasi cosa avessimo a tiro, portavamo i capelli lunghi, i pantaloni a zampa d'elefante, di quando in quando ci rollavamo uno spinello di cannabis nazionale dignitosamente coltivata nei fertili campi delle Ande, e ci organizzavamo nei modi più impensabili perché, pur non facendo il nostro Sessantotto per trovare la spiaggia sotto il selciato, alla fine trovammo qualcosa di molto più prezioso, la volontà popolate di trasformare pacificamente la società cilena, fedeli alla nostra lunga tradizione di paese democratico; e fu così che il nostro Sessantotto durò fino al 4 settembre 1970, fino alla sera in cui i risultati elettorali assegnarono la vittoria a Salvador Allende.
Discutevamo, bastava che fossimo in due in una stanza o in un bar perché iniziasse un'appassionata discussione su come sarebbe stato il futuro, e se arrivavamo a qualche accordo, era sulla necessità di «intervenire» attivamente in tutti gli aspetti della vita e della società. Forse per questo, a uno studente di giornalismo che chiamavamo il Corvo (ci ho messo anni a scoprire che si chiamava Oscar Castro) venne in mente di «intemenire » sul ricco campo sperimentale del teatro cileno, e inventò il Teatro dell’intervento. Così nacque l'Aleph, sulla riva nord del fiume Mapocho, e fu, come disse Borges, il punto dell'universo che contiene tutti i punti.
Come non voler bene al Corvo, se la sua creatività delirante ci riempiva di argomenti, di idee per finire le notti al Bosco, di nuovi punti di vista che poi si moltiplicavano nelle assemblee universitarie, nei sindacati, nelle «pentole comuni» dignitosamente solidali? Nessuno, nessuna di quelli che come me furono presenti, per esempio, all'Introduccion al elefante y otras roologtas, uscì immune dal teatro, o poté liberarsi, dopo aver assistito a una rappresentazione di Viva In-n-mundode Fanta- Cia, della formidabile sensazione che la ragione era dalla nostra parte e che proprio per questo dovevamo raddoppiare gli sforzi per ottenere le trasformazioni sociali.
Sul palcoscenico c'erano Sergio Bravo, Ricardo Vaiiejos, Aifredo Cifuentes, Gabriela Olguh e il Corvo Castro, fonte inesauribile di idee, una vera emorragia di creatività. E nel casermone dell'Aleph c'eravamo noi, un po' più giovani, ancora indistruttibili, ancora invitti.
L'Aleph, con in testa il Corvo Castro, interveniva su tutti gli aspetti della vita, non c'era tema o idea che non venisse toccato o discusso, la missione era misurare il valore delle parole, dell'intelligenza e della sensibilità. Non è esagerato affermare che con l'Aleph imparammo a essere migliori, e questo spirito resta ancora intatto nei ricordi di quanti come me hanno assistito a qualche rappresentazione. Quasi quarant'anni dopo, nella sala dell'Aleph, a Parigi, ho rincontrato vecchi amici e compagni di quei tempi della gioventù, e anche se, come dice il nostro Pablo Neruda, «Noi, queili di allora, non siamo più gli stessi», anche se facciamo fatica a riconoscerci a colpo d'occhio sotto i capelli grigi, la calvizie o la pancetta, basta che qualcuno domandi: «Ti ricordi della casa dell'Aleph a Santiago?» per iniziare un viaggio a ritroso, un «viaggio verso il seme», e siamo il di nuovo, con le nobili idee fresche e invitte.
È vero che il Corvo e io non ci vediamo spesso come dovremmo, ma a dispetto di tale separazione il mio affetto e la mia ammirazione per lui, per quello che rappresenta, restano vivi e necessari. Conosco la sua storia, la sua prigionia, il suo esilio, il suo dramma umano, così intenso che a chiunque altro avrebbe cancellato per sempre il sorriso dall'animo. Ma non al Corvo, non all'Aleph, che si porta dentro. Ha trasformato il dolore in creatività e la sua generosità di uomo buono ha tenuto a freno il rancore, nel suo caso più che giustificato.
Qualche anno fa ebbi l'onore di dirigerlo come attore in un film girato nel Nord dell'Argentina. I suoi colleghi, attrici e attori del livello di Jorge Perugorria, Harvey Keitel, Laura Maiia o Daniel Fanego, non smettevano di chiedermi: «Chi è quel tipo fantastico?»
L'ho osservato spesso da una certa distanza, quando se ne sta da solo, assorto, a fissarsi la punta delle scarpe, per poi concludere sempre la sua contemplazione con un sorriso che gli attraversa la faccia da orecchio a orecchio. Ecco fatto, gli è già venuta qualche altra idea per «intervenire» nelle faccende urgenti della vita, con quel misto di coraggio e ingenuità che fanno del Corvo un adorabile uccellaccio, unico e indispensabile.
Ricordo in particolare una scena del film. Il Corvo recitava la parte di un cuoco militare con velleità da grande chef. Andava tutto bene nel suo personaggio, ma mancava qualcosa, quel non so che dell'attore che doveva conferire al personaggio l'immancabile profilo indelebile, l'anima della caratterizzazione, e io, che lo ammiro e lo conosco, sapevo che presto o tardi gli sarebbe uscito l'Aleph. E così è stato, in una semplice scena al sorgere del sole, in un campo di-concentramento, doveva bofonchiare qualcosa di autoritario ai soldati. La cinepresa era fissa su di lui, al grido di «azione» ha preso ad avanzare sfregandosi le mani intirizzite dal freddo di un'alba che solo lui sentiva, e quando è passato davanti ai soldati ha ordinato: «Igienizzatevi, miei delfini, igienizzatevi».
Qualunque sceneggiatore sa che le battute con le sdrucciole sono fatali, e ancora peggio quando sono ripetute, ma queste parole sono rimaste nel film, perché l'insieme di gesti, sguardi, voce e umanità ha conferito al personaggio esattamente quello che mancava: il marchio dell'Aleph. L'inconfondibile timbro del mio amico e compagno Oscar Castro.
L'Aleph va in giro portandosi dietro il Corvo, il Corvo porta l'Aleph ovunque voglia andare. Lunga vita allora al Teatro Aleph, a quella magia del palcoscenico così cara e necessaria, ieri, oggi e domani.