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Chen uscì dall’ascensore al settimo piano e imboccò il corridoio che univa le due ali del Moon, sul Bund, proprio mentre il grande orologio in cima alla Dogana, vicino al ristorante, cominciava a suonare la sua melodia. Sobbalzò come se avesse sentito un colpo di cannone e guardò fuori da una finestra del corridoio. Forse era troppo esaurito, pensò ricordando l’avvertimento del dottor Xia.

Dopo la Rivoluzione Culturale, per parecchi anni la melodia suonata dal grande orologio era stata qualcosa di anonimo, leggera, piacevole, ma adesso era stato ripristinato LOriente è rosso, la stessa utilizzata durante la Rivoluzione Culturale, quella che aveva canticchiato il compagno Bi nel palazzo del Mare Centrale e Meridionale.

Il ristorante era all’ultimo piano riconvertito di un centro direzionale costruito sull’angolo tra via Tan’an e via Guangdong, con una terrazza da cui si godeva una vista magnifica sul Bund, il fiume Huang e i nuovi grattacieli a est del corso d’acqua. Il locale era gestito da un’imprenditrice canadese, che aveva fatto venire cuochi e direttori di sala da oltremare, aggiungendo un ulteriore tocco di autenticità all’immagine lussuosa del ristorante. I prezzi erano alti, ma il locale aveva avuto un enorme successo tra i nuovi ricchi, che venivano lì non soltanto per il cibo o la vista spettacolare, ma per la sensazione di appartenere all’élite di successo della città.

Al Glamorous Bar, Chen salutò diverse persone e si fermò a conversare brevemente con loro, prima di vedere Gu intento a stringere mani, con un calice di vino frizzante accanto.

«Che piacere vederla qui» disse Gu salutandolo ad alta voce, avvicinandosi a lui sorridendo e dando l’impressione di essere oltremodo felice di quell’incontro casuale.

«Ma che piacevole sorpresa» disse Chen, stando al gioco.

«Ho controllato e ricontrollato» sussurrò Gu, tirando da parte Chen verso una rientranza dietro il bancone in mogano del guardaroba. «I delinquenti che l’hanno aggredita sono dei professionisti, ma non appartengono a nessuna organizzazione. È stato difficile, ma un paio di giorni fa ho sentito in giro che c’era qualcuno che stava cercando di nuovo i servigi di qualche professionista, sottolineando l’importanza della competenza e dell’affidabilità… con pagamento dopo la consegna.»

«Qualche giorno fa…» ripetè Chen. «Competenza e affidabilità!»

«Sì, mentre lei era in vacanza. Così ho seguito la pista. Da quel che ho saputo, potrebbe essere coinvolta una società immobiliare. Viste le opportunità di sviluppo edilizio della città, i terreni nelle zone di pregio valgono oro.»

«BÈ, è possibile.» Chen poteva aver scompigliato i piani della società immobiliare che stava tentando di acquisire la casa di Xie. Forse avevano preso di mira anche Song. L’importanza assegnata alla competenza e all’affidabilità poteva anche quadrare, visto che nel caso di Chen non erano riusciti a portare a termine il lavoro. Ma Song non aveva fatto nulla contro gli interessi della società, sempre che non avesse scoperto qualcosa di nuovo negli ultimi giorni, ma di questo Chen non sapeva nulla. «Perché ha voluto che venissi qui?»

«Hua Feng, l’azionista di maggioranza della società, è qui» disse Gu spostando lo sguardo verso un uomo alto e robusto, all’altro capo della sala. «E ha collegamenti con gli ambienti “neri”…»

Era una pista percorribile ma forse un po’ azzardata, per il momento. Con la Sicurezza Interna pronta a passare alle “misure drastiche” già il giorno successivo, Chen poteva anche non avere tempo a disposizione per esplorare quella possibilità. Comunque, si accodò a Gu e insieme si diressero verso Hua, che aveva un viso tondo e guance flaccide, e ostentava un largo sorriso.

«Dunque lei è amico di Gu. Mi chiamo Hua» disse, tendendo la mano. «Anche lei è nel ramo intrattenimento?»

«Io mi chiamo Chen. Ma non sono un uomo d’affari» disse guardingo l’ispettore. «Sono uno scrittore, di libri d’intrattenimento.»

«Ah, uno scrittore. Capisco» disse Hua, e un lampo gli attraversò gli occhi. «In città girano parecchi scrittori alla moda.»

«Con una città che cambia così in fretta» disse Chen, non sapendo dove volesse andare a parare Hua, «e con tutti quei nuovi palazzi che prendono il posto di quelli vecchi, agli scrittori non resta che girare.»

«Io ammiro gli scrittori, signor Chen. Voi costruite palazzi con le parole, ma noi li dobbiamo costruire con il cemento e l’acciaio.»

Chen avvertì un sottile cambiamento nell’atteggiamento di Hua, una vaga ostilità, anche se si trattò di una fugace impressione. Pensò al tempo che avrebbe dovuto trascorrere lì nel locale. Forse non avrebbe portato a nulla, per lo meno nell’immediato.

Una cameriera bionda si avvicinò a passo leggero, portando un vassoio di vetro. Hua prese una minuscola frittella ripiena di anatra arrosto, infilata in uno stuzzicadenti. Una donna assai snella, che indossava un abito estivo bianco, affiancò Hua. Chen allora si scusò.

Vide che Gu era impegnato a conversare con altre persone, così se ne andò senza parlare con nessuno. Fuori, il pomeriggio sul Bund era splendido. Inspirò a fondo e si incamminò, cercando di pensare agli ultimi sviluppi del caso. Poteva essere troppo tardi, ammise Chen tra sé e sé. Sì, troppo tardi, nonostante i suoi sforzi e tutto l’aiuto ricevuto da Vecchio Cacciatore, il detective Yu e Peiqin. Gli elementi raccolti fino a quel momento gli avevano permesso di formulare soltanto ipotesi prive di sostanza. Nulla che potesse impedire alla Sicurezza Interna di entrare in azione, il giorno successivo.

Prese il cellulare, ma non lo usò. Dal fiume arrivò il rumore di una sirena, riverberandosi tutto intorno a lui.

Tanto per cominciare, quel caso non era suo. E allora perché non glielo toglievano? Così non avrebbe avuto coinvolgimenti o responsabilità. Senza doversi preoccupare di agganci “neri” o “bianchi”.

E neppure di Mao.

Un investigatore non poteva aspettarsi una svolta tutti i giorni, non era realistico. Inutile rimanere inchiodato su un caso in particolare. Che oltretutto era assurdo.

Seguendo una scaletta di pietra che conduceva al lungofiume rialzato, osservò la distesa d’acqua scintillante. Su di essa planavano alcuni gabbiani, facendo luccicare le ali bianche nella luce pomeridiana, come in un sogno.

Chen si diresse verso il parco del Bund, e gli passò davanti una nave da crociera, con i suoi vessilli colorati che sventolavano nella brezza. Il Maestro disse in riva a un fiume: / «Scorre la vita come scorre londa.» Era un verso scritto da Mao dopo aver nuotato nel fiume Yangtze prima dello scoppio della Rivoluzione Culturale. Quando Chen lesse per la prima volta quella poesia era uno scolaro delle medie, e stava camminando lungo il Bund, prima o dopo la scuola. In quegli anni non c’erano molte ore di lezione.

Arrivò al parco nel giro di qualche minuto. Entrò dal cancello avvolto dai rampicanti e si incamminò lungo la banchina, che recentemente era stata allargata usando mattoni colorati.

Frustrato, non riuscì a trovare un posto per sedersi. Ebbe l’impressione che da un giorno all’altro fosse spuntata lungo l’argine una fila di bar e caffetterie, simili a gigantesche scatole di fiammiferi dotate di vetrine luccicanti. Non era una cattiva idea un bar con vista sul fiume, ma ne avevano costruiti talmente tanti da non lasciare più spazio per le panchine verdi che un tempo gli erano così familiari. Sbirciando attraverso una vetrina vide dentro soltanto una coppia di occidentali, seduta a parlare. I prezzi scritti su un menu rosa esposto fuori dal locale erano esorbitanti. Chen avrebbe potuto permetterselo, ma la gente che invece non ne era in grado?

Alle scuole medie aveva un libro su cui aveva letto che un tempo, all’ingresso del parco, c’era un cartello umiliante con la scritta: INGRESSO VIETATO AI CINESI E AI CANI. Era accaduto all’inizio del secolo, quando il parco era aperto soltanto agli occidentali. Dopo il 1949 le autorità del Partito usarono quell’episodio come un buon esempio per le lezioni di patriottismo. Chen non era molto sicuro dell’autenticità della storia contenuta nel suo libro di testo, ma adesso era senz’altro vero questo: Ingresso vietato ai cinesi poveri.

Alla fine, arrivato in fondo al parco, trovò una sorta di ceppo di pietra, sistemato per connettere gli anelli di una catena che delimitava un sentiero tortuoso. Lo usò per sedersi. Lì vicino, una giovane mamma era seduta su un ceppo simile, con un neonato che dormiva in un vecchio e consunto passeggino di fianco a lei. Si era tolta le scarpe e le dita nude sfregavano il verde del prato. Osservava il bimbo colma d’affetto, e il suo profilo aveva una vaga rassomiglianza a quello di Shang.

Anche Shang era stata lì con Qian? Forse non si era seduta su un ceppo di pietra, con la bambina dentro un passeggino tutto sgangherato, ma era stata felice, soddisfatta?

Dopo tutto, il significato e l’essenza di ogni vita non dipende da qualcosa di divino o imperiale. La vita sfortunata di Shang, la donna di un imperatore, ne era un esempio.

Chen prese un’altra sigaretta ma non l’accese, e osservò di nuovo il neonato. Con la sigaretta spenta tra le dita, ebbe l’impressione che il parco stesse esercitando su di lui una sottile influenza, che avesse cominciato a pensare con maggiore chiarezza.

Qualche volta aveva detto, scherzando, che il parco doveva essere un luogo con un feng shui favorevole. Negli anni Settanta Chen aveva cominciato a studiare inglese proprio lì, e quell’esperienza aveva portato con sé molte cose nella sua vita. Lui non credeva al feng shui, ma quel tardo pomeriggio, picchiettando la sigaretta sul dorso della mano, desiderò coglierne qualche indicazione.

Si alzò e si spostò all’ombra di un albero in sboccio, dove compose il numero di Liu.

«Mi dica, compagno ispettore capo Chen.»

«Tra le persone avvicinate negli ultimi giorni da Song, c’è stato qualcuno collegato a qualche società immobiliare?»

«No, non penso.»

«O qualcuno che si chiama Hua?»

«Non ne sono sicuro. Song ha parlato con tantissima gente. Come posso ricordarmi di tutti così su due piedi?»

«Può controllare per favore?»

«Ecco, non sono in ufficio…»

Chen non sapeva dove si trovasse Liu in quel momento, ma credette di sentire in sottofondo musica che fluiva come acqua gorgogliante e risa femminili come barche alla deriva.

«La prego, lo scopra non appena le è possibile, compagno Liu.»

«Va bene, compagno ispettore capo Chen» disse Liu con voce tesa. «Ma noi abbiamo già discusso il nostro piano, no?»

«Sì, certo» disse Chen, «però non avete ancora in mano il mandato di perquisizione, vero?»

Agli occhi di Liu, la richiesta di Chen dovette sembrare un’altra mossa per rallentare il corso degli eventi.

Poi Chen tornò al sentiero serpeggiante vicino l’acqua, respirando a pieni polmoni il caratteristico pizzicore dell’aria. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere. Il giorno successivo la Sicurezza Interna sarebbe entrata in azione. A meno di un miracolo all’ultimo minuto, l’ispettore capo sarebbe stato costretto a farsi da parte.

Si voltò e vide dinanzi a sé la torre piramidale del Peace Hotel lungo via Zhongshan. Era un albergo costruito in stile gotico da Sassoon, un leggendario uomo d’affari ebreo degli anni Venti, e rappresentava il simbolo imponente dell’edificio più sontuoso di Shanghai. In seguito all’ondata di nostalgia che imperversava in città, le storie sulle stravaganze associate all’hotel stavano trasformandosi in miti elaborati. Si chiese se quella sera la nota orchestra jazz degli Shanghai Old Dicks si esibisse nel bar. Dopo quasi due settimane a casa di Xie, non gli interessava molto andarci.

Poi squillò il cellulare, e il trillo quasi si perse, annegato nel rumore della sirena proveniente dal fiume lì vicino. Era Peiqin.

«Mi dica, Peiqin.»

«Sono a casa di Jiao, e sto preparando la cena… per due persone, secondo me.»

«Stasera?»

«Sì, stasera. Jiao ha detto che tornerà soltanto dopo le otto.»

Chen guardò l’orologio, con gesto quasi meccanico. «È sicura sull’orario?»

«Devo fare in modo che il riso resti caldo fino a quando non torna. È stata molto esplicita in proposito.»

«Interessante, Peiqin» disse, pensando a ciò di cui aveva discusso con Vecchio Cacciatore. Aveva giurato di aver visto un uomo, nella stanza di Jiao, anche se era stata soltanto una fugace apparizione, l’ultima volta che c’era stata una cena per due. «Ne ha parlato con Vecchio Cacciatore?»

«Sì. Stasera viene qui a pattugliare. Mi ha detto che l’informazione poteva essere importante.» E aggiunse: «Ah, ho fatto una lista delle cose insolite. Pensa che le potrebbe essere utile?»

«Naturalmente, moltissimo. Può mandarmi un fax a casa mia?»

«Sì, vado in una copisteria.»

«Peiqin, non so come ringraziarla.»

«Non lo dica neppure. Io non so nulla di questa sua indagine, ma lavorando qui ho imparato qualche nuova ricetta. Venga da noi, questo fine settimana.»

«Ci penserò, Peiqin.»

«Abbia cura di lei, capo. Arrivederci.»

Peiqin era preoccupata per lui. E poteva immaginare il motivo, visto che non andava a casa loro da settimane. Ma ebbe un tuffo al cuore, al pensiero del weekend, quando cioè tutto il suo generoso aiuto non avrebbe portato nulla. Si accese la sigaretta che teneva in mano da tempo, aspirando a fondo. Era inquieto, perché aveva la sensazione che gli fosse sfuggito qualcosa, nel Caso Mao. Qualcosa di inafferrabile ma essenziale. E la chiamata di Peiqin aveva intensificato quella sensazione.

Forse il parco era un luogo importante per lui, indipendentemente dal feng shui. Non aveva ancora infilato il cellulare nella tasca dei pantaloni che squillò di nuovo. Era Ling, da Pechino.

«Dove sei?» chiese. La voce sembrava vicinissima, come acqua che lambisse la riva del fiume. «Ho chiamato il tuo hotel, ma eri partito.»

«Sono dovuto tornare a Shanghai in fretta e furia. Mi dispiace, non ho avuto neppure il tempo di salutarti. Ho preso il treno di notte all’ultimo momento, quando ormai era troppo tardi per chiamarti.» Stringendo il telefono, proseguì dicendo: «Sono al parco del Bund. Dove eravamo andati l’ultima volta che sei venuta a Shanghai, ricordi? Apprezzo veramente il tuo aiuto. Ha contato enormemente, per il mio lavoro.»

«Mi fa piacere che abbia contato così tanto per il tuo lavoro di poliziotto. Tu sai essere eccezionale in ciò che scegli di fare, ispettore capo Chen. E allora sii un eccezionale poliziotto» disse, con voce improvvisamente distante. «Forse è come la poesia che hai scritto imitando un poeta inglese che ricordo, sull’urgenza di fare una scelta» disse. «Devi scegliere il tuo gioco / Altrimenti il tempo non perdonerà»

«Mi dispiace moltissimo, Ling» disse Chen, consapevole della sua rassegnazione. Dopo tutto ciò che avevano passato, lui poteva essere soltanto un poliziotto, prima di ogni altra cosa.

«Fatti sentire quando non sei troppo impegnato. E abbi cura di te.»

«Ti chiamo…»

Clic. Aveva già riattaccato.

Ma che scelta aveva avuto? Una cicala riprese a frinire tra il fogliame verdeggiante dietro di lui. La tristezza non è più triste, / il cuore indurito ancora, / ché non si attende il perdono, / ma grato, e lieto / di essere stato con te, / la luce del sole smarrita sul giardino.

Era l’ultima strofa della poesia di cui lei aveva appena parlato al telefono. Alla fine, Chen non aveva avuto altra scelta che redimersi facendo il poliziotto.

Ma fu una risposta, e non soltanto a quella domanda. Gli si presentò una nuova possibilità: una subitanea, abbacinante illuminazione.

Si voltò e si diresse in tutta fretta verso l’ufficio della sicurezza del parco, dove mostrò il suo tesserino a un uomo dai capelli grigi seduto a una lunga scrivania.

«Ho bisogno di usare il vostro fax. C’è una persona che mi deve inviare dei fogli qui» disse copiandosi il numero.

«Non c’è problema, compagno ispettore capo» disse l’uomo dai capelli grigi. «La conosciamo.»

Chiamò Peiqin dal suo cellulare, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Peiqin, si trova ancora nell’appartamento di Qian?»

«Sì, sto uscendo ora.»

«Lasci la chiave sotto lo zerbino, quando va via.»

«Cosa?»

«Sì, e non ne parli con nessuno.»

«No, certo.»

«Mandi la sua lista per fax a questo numero tra cinque minuti.»

«Va bene.»

Subito dopo aver terminato con Peiqin, chiamò Gu.

«Stasera avrei bisogno della sua auto. È una nuova Mercedes, giusto?»

«È sua, sì è una Mercedes, serie 7. Chen, ha scoperto qualcosa durante il party di prima?»

«Mi faccia venire a prendere dal suo autista al parco del Bund tra dieci o quindici minuti. Le spiegherò tutto, Gu. Apprezzo moltissimo tutto ciò che sta facendo per me.»

«Lei non mi deve spiegare nulla, e neppure ringraziarmi. A che servono gli amici?»

Da quando si erano conosciuti nel corso di un’altra indagine, in qualche modo collegata al parco, Gu si era professato amico dell’ispettore capo, e come tale si era anche comportato. Gu era un uomo d’affari scaltro, poteva aver intravisto in Chen una conoscenza importante. Tuttavia, in parecchie occasioni si era prestato generosamente.

«Qualunque cosa lei faccia» proseguì Gu, «lei non lo fa per il suo tornaconto, di questo ne sono sicuro.»

E l’ispettore capo Chen stava per fare qualcosa che non aveva mai fatto prima, solo questo lui sapeva. Doveva essere se stesso… nella stanza di Jiao.

Ma non sarebbe stato come la visita alla camera di Mao. Il presidente era morto tanto tempo prima.

Di fianco a lui, dal fax fuoriuscì un foglio.