70.

 

Manhattan, 1929.

 

Christmas rabbrividì, nella fredda sera di gennaio. Si tirò su il bavero del cappotto di cachemire e fece un altro giro intorno al collo con la sciarpa di seta bianca. Accarezzò le stecche consumate della panchina di Central Park. Poi si alzò.

La Lincoln Limousine lo aspettava parcheggiata in doppia fila.

Là dove un tempo Fred, l'autista del vecchio Saul Isaacson, aspettava Ruth.

Christmas entrò nell'auto. «Andiamo» disse.

La Lincoln cominciò a muoversi.

Christmas si srotolò la sciarpa dal collo e sistemò il bavero del cappotto. Guardò fuori dal finestrino. New York riluceva di insegne. Ma la più luminosa di tutte, al 214 della Quarantaduesima West, era quella del teatro. "Diamond Dogs" brillava la scritta sulla tettoia, formata da più di mille lampadine.

La Limousine si fermò in mezzo a una marea di gente, tenuta a distanza da transenne e poliziotti. Un figurante con un mitra al collo aprì la portiera della Lincoln. Era vestito in modo sgargiante, come un vero gangster. Christmas, scendendo, gli sorrise. Il figurante spianò il mitra sulla folla. Era stata un'idea di Eugene Fontaine, l'impresario. «Il teatro inizia in strada» aveva detto. La gente applaudì. I fotografi fecero esplodere i lampi al magnesio dei loro flash. Due altri finti gangster arrivarono e scortarono Christmas tra due ali di folla. Sulla porta del teatro una ragazza vestita da prostituta accolse Christmas con un lunga occhiata provocante. E poi un ragazzino vestito poveramente, con la faccia sporca, fece finta di inciampare e urtò Christmas. Quando il ragazzino si scostò mostrò alla gente un orologio da taschino. La gente rise e applaudì ancora. I fotografi continuarono a illuminare la scena coi loro flash.

Christmas entrò nel foyer. Strinse decine di mani, sorrise a tutti e rispose alle domande dei giornalisti. Poi si avviò verso il palco. Si infilò in una uscita posteriore e si fermò nel vicolo di carico e scarico. Anche da lì poteva sentire il vociare della gente in strada e nel teatro.

«Fa girare la testa, vero?» disse qualcuno alle sue spalle.

Christmas si voltò. Nella penombra del vicolo vide un ragazzo vestito poveramente, con le mani lucide di cera, che fumava una sigaretta. Era magro e aveva un trucco scuro sotto gli occhi.

«Sono Irving Solomon» disse il ragazzo. «Faccio…»

«Joey Sticky Fein, sì» disse Christmas.

«Veramente…» disse il ragazzo, imbarazzato, «faccio Phil Schultz, detto Wax.» Christmas lo guardò sorridendo. «Sì, certo» disse.

«Non c'è nessun… Joey Sticky Fein nella sua commedia» disse il giovane attore.

Christmas guardò per terra. Perso nei ricordi. Poi alzò gli occhi sul ragazzo. «Dagli dignità a Wax» disse. «Non era solo un traditore.»

«Era…?» chiese il ragazzo.

Christmas non rispose. Guardò le mani incerate del giovane attore, le sue occhiaie nere. Sorrise. «Quando compari nel secondo atto, col tuo vestito da centocinquanta dollari, saltella da un piede all'altro… così… come un pugile, come un ballerino…» e Christmas si mosse sui piedi, leggero e nervoso come era stato Joey.

«Solomon, che fai là fuori?» urlò il direttore di scena, comparendo sulla porta dei camerini. «E smettila di fumare.» Il giovane attore guardò intensamente Christmas negli occhi.

«Eravate amici per davvero?» chiese.

«Vai…» gli disse Christmas, sorridendo. «E in bocca al lupo.» Qualche minuto più tardi il direttore di scena comparve di nuovo nel vicolo. «Mister Luminita» gli disse, «se vuole entrare manca poco.» Christmas gli fece un cenno col capo. Rimasto solo, guardò in alto, il cielo senza stelle di New York e poi raggiunse il palcoscenico. Oltre il sipario si sentiva il brusio attutito del pubblicò.

«In bocca al lupo» disse agli attori.

Il ragazzo che interpretava Joey era in disparte e salterellava da un piede all'altro. Leggero. Come un pugile.

Christmas uscì dal sipario e scese in platea. Ci fu un applauso.

Christmas sorrise, si incassò nelle spalle e raggiunse il fondo della platea. Rimase in piedi a guardare la gente.

In prima fila poteva vedere sua madre, con i capelli neri raccolti e un vestito blu, scollato. E accanto a lei, sudato e con le mani pulite, Sal, strizzato in uno smoking nuovo di zecca. E poco più in là vide Cyril, "il negro più ricco di Harlem" come si faceva chiamare, con la moglie Rachel. Christmas aveva dovuto litigare con il direttore del teatro che non voleva gente con la pelle nera, come li aveva definiti, in platea. Cyril non ne sapeva niente. Christmas vide sorella Bessie che mostrava fiera a tutti un anello con un dollaro d'oro incastonato. E poi sorrise a Karl che, dopo aver fatto sedere il padre ferramenta e la madre, si era messo subito a confabulare con i dirigenti della WNYC, sicuramente parlando di nuovi programmi. Salutò con un cenno della mano i tecnici della troupe della CKC che avrebbero registrato lo spettacolo per trasmetterlo in radio. Guardò pieno di affetto Santo, neodirettore di Macy's, seduto accanto a Carmelina, con la pancia tonda per l'imminente arrivo del loro primo figlio. E gli venne da ridere vedendo Lepke, Gurrah e Greenie nei loro vestiti sgargianti, seduti a metà platea. E seduta accanto a loro c'era tutta la New York che contava. I più giovani in smoking, i vecchi in frac. Non c'era un solo posto vuoto, in nessun ordine del teatro. Ed Eugene Fontaine gli aveva detto che era tutto esaurito per tre settimane, prima ancora di sapere che cosa ne avrebbe detto la critica. C'erano gli artisti, i giornalisti, i ricchi.

Tutti.

Ma lì, in piedi in fondo alla platea, Christmas non riusciva a sentirsi completamente felice. Chiuse gli occhi. Tutta la vita gli scorreva davanti. Veloce. Incompiuta.

«Mezze luci» disse il direttore di sala.

Il treno era in ritardo. Ruth guardò l'orologio, in ansia. Non riusciva a restare seduta al suo posto. Abbassò il finestrino e si affacciò. Il vento le scompigliò i capelli. Richiuse il finestrino. La signora anziana che occupava il posto davanti al suo la guardò e sorrise. Ruth ricambiò il sorriso, a labbra tirate.

Non aveva tempo. Tutto a un tratto non aveva più tempo. Non ce l'avrebbe mai fatta.

«Arriveremo» le disse la donna anziana.

«Sì» rispose Ruth e si sedette. Rimase a testa bassa, cercando di regolare il respiro e di fermare il tremito delle gambe. Si portò la mano al centro del petto. Sotto la camicetta bianca sentì la sagoma del cuore rosso che le aveva regalato Christmas cinque anni prima. Lo smalto si era sbeccato. Provò a stringerlo tra i polpastrelli. Ma le gambe scattarono e Ruth si ritrovò di nuovo in piedi e di nuovo abbassò il finestrino e si affacciò. L'aria le entrava violenta nei polmoni, sporca di fuliggine.

Quando richiuse il finestrino la signora anziana rise e si portò una mano guantata alla bocca. «O Santo Cielo, guardi come si è ridotta» disse. Frugò nella borsetta e ne estrasse un fazzoletto di lino. «Venga qui, ragazza inquieta.» Si alzò instabile sulle gambe e si sporse verso Ruth, pulendole le guance. La guardò, rise ancora e le disse: «Dovrebbe truccarsi un pochino.

E un disastro».

Ruth la fissò senza rispondere. Controllò di nuovo l'ora. Poi si voltò verso la rastrelliera dei bagagli, tirò giù la sua piccola valigia di coccodrillo, l'aprì e prese il vestito verde di seta che le aveva regalato Clarence e un astuccio di pelle chiara. Uscì di corsa dallo scompartimento e raggiunse il bagno.

Si fermò di fronte alla porta. L'ultima volta che era entrata in un bagno come quello era stato cinque anni prima, su un treno che compiva il tragitto inverso. In una mano aveva il cuore laccato di rosso e nell'altra stringeva un paio di forbici.

Abbassò la maniglia ed entrò nel bagno.

Si guardò allo specchio. L'ultima volta che si era guardata in uno specchio come quello aveva lunghi riccioli neri e aveva appena letto sulle labbra di Christmas una promessa. "Ti troverò." L'ultima volta che si era chiusa in un bagno come quello si era tagliata i riccioli neri e si era fasciata il seno, stretto, per non dover diventare una donna.

Si appoggiò al lavandino e si sciacquò il viso. Poi si guardò. Le gocce d'acqua sembravano lacrime. Ma lei non piangeva, questa volta.

Si slacciò la camicetta, si sfilò la gonna di lana. Le lasciò cadere in terra. Rimase a guardarsi riflessa nello specchio. Come quel pomeriggio in cui aveva deciso di baciare il folletto del Lower East Side. Aprì l'astuccio di pelle chiara e, come quel giorno, si passò del fondotinta e della cipria sul viso. Poi allungò il taglio degli occhi con una matita nera. E infine stese un rossetto denso e pastoso sulle labbra. Dello stesso rosso del cuore laccato. Si pettinò i capelli. E tornò a guardarsi. Ora sapeva di essere una donna. Non aveva più bisogno di accarezzare la propria pelle per saperlo.

Indossò il vestito verde smeraldo, lentamente, con cura.

Appena rientrò nello scompartimento l'anziana signora la studiò senza parlare. Ma sulla faccia grinzosa comparve un sorriso appena accennato, leggero come il remoto ricordo di qualcosa che non aveva mai dimenticato. Quando il treno si fermò a Grand Central e vide Ruth precipitarsi verso l'uscita mormorò piano: «Buona fortuna».

Ruth rischiò di inciampare mentre scendeva dal treno ancora in movimento. Corse lungo il binario, superò la calca di passeggeri che affollavano la stazione e risalì veloce verso il parcheggio dei taxi.

«Al New Amsterdam» disse entrando trafelata nell'auto. «Più in fretta che può, la prego.» L'autista ingranò la marcia e partì sgommando.

Mentre la macchina filava per le strade, Ruth non si guardava intorno, come se non avesse la testa per riconoscere la città nella quale era nata e cresciuta, alla quale era stata strappata. La città che aveva assistito alla sua violenza e dove era nato il suo unico, grande, possibile amore.

La sola cosa che vide, quando il taxi si fermò, fu l'enorme scritta luminosa:

 

DIAMOND DOGS

 

E tanta gente in strada. Gente comune e altri vestiti da gangster o prostitute. Pagò, scese dall'auto, e rimase lì, immobile, davanti all'ingresso del teatro. Come se improvvisamente non avesse più fiato. O come se dovesse fissare nella mente ogni particolare.

Poi mosse il primo passo sulla guida rossa. E non pensò che era come una lunga striscia di sangue. Non c'era più sangue nella sua vita. Era rossa come le sue labbra. Rossa come un cuore laccato.

Entrò nel foyer. Gli inservienti stavano tirando le tende di velluto. E stavano per chiudere le porte. Salì i pochi gradini che portavano alla platea. Con il cappotto in una mano e la valigia di coccodrillo nell'altra.

«Signorina…» disse una voce alle sue spalle.

Ruth non si fermò.

«Signorina…» Non sapeva se l'avrebbe trovato. Non sapeva se lui la stava ancora aspettando. Non sapeva come sarebbe stato il loro futuro.

Non sapeva nemmeno se avrebbero avuto un futuro.

«Signorina, dove va?» Sapeva soltanto che doveva provare. Che non sarebbe morta nella gabbia. Per paura.

Uno degli inservienti le sbarrò la strada.

Ruth sapeva solo di appartenergli. Da sempre.

«Mezze luci» disse il direttore di sala.

La platea fu avvolta dalla penombra. La gente che era ancora in piedi si sedette. Le voci si abbassarono, diventando solo un confuso mormorio eccitato.

Gli inservienti avevano chiuso le tende di velluto degli ingressi della platea, alla destra e alla sinistra di Christmas, che se ne stava appoggiato alla parete di fondo del teatro, in piedi, con gli occhi chiusi. Tutta la vita gli scorreva davanti. Veloce. Incompiuta.

«Non può entrare» disse una voce al di là dell'ingresso alla sua sinistra.

Poi un tramestio. Una serie di rumori confusi.

Christmas aprì gli occhi.

Il fruscio della tenda alla sua sinistra che veniva aperta, con forza. Christmas si voltò, a testa bassa.

Vide un vestito verde smeraldo. Di seta.

«Signorina, non può entrare» disse ancora la voce.

Christmas alzò gli occhi. Ruth era bellissima. E radiosa. E lo guardava. Gli occhi verde smeraldo brillavano di una luce intensissima. In una mano aveva un cappotto. Nell'altra reggeva una valigia.

Christmas aprì appena la bocca. Fu investito da un'emozione violenta e inaspettata che lo paralizzò. Lo stupore. La perfezione.

Il senso. Riuscì soltanto ad alzare un braccio verso l'inserviente che tratteneva Ruth.

L'inserviente fece un passo indietro.

Ruth guardava Christmas e non si muoveva.

«Buio» disse il direttore di sala.

Si sentì lo scrocchio degli interruttori.

Il teatro sprofondò nel buio.

La platea si azzittì. Un silenzio teso, vibrante.

L'inserviente scostò la tenda per uscire. E nella lama di luce Christmas vide che le mani di Ruth si aprivano, quasi contemporaneamente. Il cappotto e la valigia caddero a terra.

Qualcuno, nell'ultima fila, si voltò. «Silenzio» disse.

Christmas sorrise. E nel silenzio ascoltò i passi di Ruth che si avvicinava.

«Sono tornata» disse Ruth.

Christmas poteva sentire il suo profumo.

Il sipario frusciò, aprendosi.

Christmas allungò una mano e la infilò in quella di Ruth.

E allora una voce risuonò dal palcoscenico.

«Buonanotte, New York.»