69.

 

Manhattan, 1928.

 

Quando Christmas aveva scritto la parola fine in fondo alla sua commedia si era sentito svuotato. E solo. Smarrito.

La scrittura lo aveva assorbito completamente. Si era come perso, dimenticando la sua vita reale. Si era buttato sui tasti con foga, vivendo quel che scriveva, come fosse stato lì, con i suoi personaggi. L'amicizia, la lotta per emergere o semplicemente per sopravvivere, le esistenze del Lower East Side. E l'amore. Il sogno. Il mondo come doveva essere. Perfetto anche nel dolore, nella tragedia. Il senso. Era questo che aveva cercato. Dare un senso alla vita. Renderla meno casuale. Era questa la perfezione, non il successo, non la riuscita, non il coronamento di un sogno o di un'ambizione, ma il senso. E così anche i cattivi della sua storia avevano trovato un senso, un loro senso. E ogni vita si era incastrata nelle altre, come fili tutti connessi tra loro che creavano il disegno di una ragnatela. Un disegno reale, non astratto. Senza patetismi, con ironia. Con sentimento.

"E adesso?" aveva pensato guardando la parola fine in fondo al foglio numero duecentodiciassette.

Allora aveva alzato lo sguardo. La panchina era lì, la vedeva. E non aveva senso. Non aveva senso che lui e Ruth non fossero seduti su quella panchina. Nella sua commedia non sarebbe successo. Non così. Nella sua commedia non avrebbe mai sprecato tutto quell'amore.

Av/eva aggiunto il foglio con la parola fine alla pila degli altri.

Poi aveva messo la commedia in una busta sulla quale aveva già scritto un nome e un indirizzo. E aveva dato incarico a Neil, il portiere di Central Park West, di recapitarla.

Ed era successo. Più in fretta di quanto avrebbe immaginato.

Dopo nemmeno quindici giorni il vecchio impresario Eugene Fontaine, un affezionato ascoltatore di Diamond Dogs, lo aveva convocato nel suo ufficio sulla Broadway.

«Faccio questo mestiere da quarant'anni e so riconoscere se una commedia funziona» aveva detto Eugene Fontaine, battendo la sua mano rugosa sulla copertina del copione. Aveva guardato Christmas. «Ci sono i gangster. C'è l'amore… è New York.»

«È buona?» gli aveva chiesto Christmas, sentendosi stupido.

«È eccezionale.»

«Davvero?»

«Reggiti forte alla sedia, Christmas Luminita. Si ballerà come durante un uragano» gli aveva detto l'impresario. «Dammi il tempo di metterla su. Poi l'America parlerà solo di noi.» E adesso mancavano due settimane alla prima. E non c'era giornale che non ne scrivesse. Gli chiedevano continue interviste.

"Vanity Fair" era pronta a fargli una copertina. Mayer gli aveva mandato un telegramma da Los Angeles che diceva: "Dovresti pagarmi una percentuale. Stop. Sono io che ti ho fatto iniziare a scrivere. Stop. In bocca al lupo. Stop. Se ti accorgi che il teatro puzza troppo di muffa e vuoi respirare l'aria della California ti aspetto a braccia aperte. Stop. L.B.". L'attesa era palpabile. Elettrica. Lo spettacolo ancora non aveva debuttato e già era sulla bocca di tutti.

Christmas si alzò e si sporse dalla finestra. Guardò la panchina vuota, scura in mezzo al bianco della neve che copriva Central Park. Anche le strade erano imbiancate. La gente camminava veloce, stando attenta a non scivolare. Uomini e donne avevano pacchetti infiocchettati in mano.

Si sentì avvolgere da una sottile malinconia. Rabbrividì. Chiuse la finestra. Si voltò. La sua casa era ancora spoglia. Non un mobile, non un divano né un tappeto. Sorrise. «Questo appartamento è una vera merda» aveva detto Sal il giorno prima, guardandosi in giro, quando era comparso per invitarlo a cena per Capodanno.

Christmas andò in camera da letto e guardò il vestito marrone che gli aveva comprato sua madre due anni prima. Un vestito da poveri. Da poveri dignitosi. Il vestito che l'aveva levato dalla strada. Anche il protagonista della sua commedia aveva un vestito marrone, povero e dignitoso. Christmas non l'aveva mai buttato. Ogni tanto lo prendeva, lo guardava, accarezzava il colletto e le maniche lise e ringraziava sua madre. Lo mise da parte e prese il vestito blu, di lana, che gli aveva regalato Santo. Per andare a teatro con Maria. La sua prima volta. Anche il suo protagonista aveva un vestito blu, caldo, di lana, di Macy's. E come lui aveva un vero amico. Christmas mise il vestito blu accanto a quello marrone. Sfilò da una stampella un vestito nero, elegante, di sartoria, e lo indossò sopra la camicia bianca e la cravatta sottile. Poi aprì l'anta dello sgabuzzino e prese due pacchetti infiocchettati.

Uno grande per sua madre. Uno minuscolo per Sal. Telefonò in portineria e disse a Neil di chiamargli un taxi. Si infilò il cappotto di cachemire nero e scese in strada.

Neil lo aspettava con la portiera del taxi aperta.

«Buon anno, Neil» disse Christmas infilandosi nella vettura.

«Buon anno, mister Luminita» e il portiere richiuse lo sportello.

«Monroe Street» disse Christmas nella macchina.

L'autista si voltò, con un gomito appoggiato al sedile e lo guardò, studiandone l'abbigliamento elegante. «Monroe Street?» chiese perplesso. «Sa dov'è, signore?»

«Perfettamente.»

«È nel Lower East Side.»

«Ci sono posti peggiori» disse Christmas.

L'autista fece una smorfia, ingranò la marcia e partì.

Christmas lo guardava nello specchietto retrovisore e sorrideva. Poi, quando svoltarono in Monroe Street disse: «Accanto a quella Cadillac». Scese e pagò.

Un gruppo di quattro ragazzini gironzolava intorno alla lussuosa macchina. Erano magri e avevano una carnagione vizza.

Avevano i cappelli calcati in testa fino alle orecchie e rabbrividivano nei loro vestiti leggeri ma non si decidevano ad andare a casa, affascinati da quell'auto che nessuno, nel quartiere, si sarebbe potuto permettere.

«Per stasera lasciatela intera» disse ai ragazzini, sorridendo.

I ragazzini lo guardarono sospettosi. Anche quel tizio non era vestito come nessun altro nel quartiere. Non sapevano chi fosse.

Ma non aveva l'aria di un gangster. Era uno stronzo di Upper Manhattan, di certo. Un pollo.

«Si è perso, signore?» disse uno dei ragazzini, più basso degli altri ma con uno sguardo intelligente e vispo, infilandosi una mano in tasca.

«No» disse Christmas.

«È sua questa?» gli chiese il ragazzino indicando la Cadillac.

«No» disse Christmas.

Il ragazzino sfilò la mano dalla tasca. Reggeva un coltello a serramanico sgangherato e inoffensivo, con la punta della lama scheggiata. «E allora fatti gli affari tuoi» disse con un'intonazione strafottente.

Christmas alzò le mani, in segno di resa.

«Questa è zona nostra» continuò il ragazzino.

«E come vi chiamate?» chiese Christmas, senza abbassare le mani.

Il ragazzino si voltò verso gli altri tre con un'espressione smarrita. E gli amici non gli vennero in soccorso. Il ragazzino tornò a fissare Christmas. «Noi siamo…» s'inceppò, guardò a destra e a sinistra, come cercando qualcosa. Poi s'illuminò. «Noi siamo i Diamond Dogs» disse, gonfiando il torace magro.

Christmas sorrise. «Anni fa c'era una banda da queste parti che si chiamava così.» Il ragazzino scrollò le spalle. «Si vede che hanno sentito parlare di noi e se la sono data a gambe» disse. «Adesso questo nome è nostro.» Christmas annuì. «Posso abbassare le mani?» chiese.

«D'accordo, ma non fare mosse stronze» disse il ragazzino, agitando il coltello in aria.

«Tranquillo, non voglio farmi affettare» disse Christmas. «Io però dovrei entrare lì» e indicò il portone della sua vecchia casa.

«Posso?» Il ragazzino si voltò verso i suoi amici. «Lo lasciamo andare?» A uno dei tre venne da ridere e si tappò la bocca con la mano.

«Ti ha detto bene, pollo» disse il ragazzino con il serramanico.

«Oggi siamo in buona. Puoi andare. Per stasera i Diamond Dogs ti graziano.»

«Ci si vede» fece Christmas ed entrò nel portone. Poi cominciò a salire le scale, allegro.

«Ehi» disse alle sue spalle il ragazzino, raggiungendolo sul pianerottolo dell'ammezzato. «Che facevano questi Diamond Dogs che conoscevi tu?» gli chiese. «Erano famosi?»

«Abbastanza. Ma usavano la testa, non le pistole o i coltelli.» Il ragazzino lo guardò incuriosito. «E chi era il loro capo?»

«Un tizio che aveva un nome da negro.»

«Ah…» disse il ragazzino. «Io mi chiamo Albert. Ma per i miei amici sono Zip.»

«Piacere, Zip» e Christmas gli allungò la mano.

Il ragazzino rimase fermo. «Che dici… Zip è un buon nome per il capo dei Diamond Dogs?» Christmas ci pensò su. «Zip è un gran nome» disse alla fine.

Zip sorrise e gli strinse la mano. «E tu come ti chiami?»

«Io?» Christmas scrollò le spalle. «Ho un nome stupido. Lascia perdere.» Poi fissò il ragazzino. «Dove abiti?» gli chiese.

«Qui di fronte» disse Zip.

«E dalla finestra di casa tua vedi in strada?»

«Sì. Perché?»

«Perché potresti farmi un grosso favore, Zip» disse Christmas con un'espressione seria. «Se te ne vai a casa invece di congelarti in strada, magari potresti buttare un occhio su quella Cadillac che è là fuori. Se so che il capo dei Diamond Dogs la controlla mi sento più al sicuro.» Infilò una mano in tasca e sfilò un rotolo di banconote, un vezzo che gli ricordava Rothstein. Prese un pezzo da dieci e lo porse al ragazzino. «Che ne dici? Si può fare?» Zip sgranò gli occhi. Prese la banconota e se la rigirò davanti al naso. «Okay» disse cercando di controllare il tono della voce.

«Vedrò che cosa si può fare.»

«Grazie, amico» disse Christmas.

Ma Zip non lo ascoltava più. Si era girato e scendeva a precipizio le scale. Christmas rimase a guardarlo sorridendo, con una piccola nostalgia nel cuore, poi raggiunse la porta della sua vecchia casa e bussò.

«Ce l'hai fatta ad arrivare, pisciasotto» disse Sal aprendo. «Vieni che ti mostro una casa da veri signori, mica quella merda del tuo appartamento.» Christmas entrò e abbracciò la madre.

Cetta gli strinse il viso tra le mani, lo baciò e lo accarezzò. «Sei sciupato, bambino mio» gli disse.

«Io non lo so mica come hai fatto a non diventare frocio con una madre del genere» disse Sal. «Lascialo in pace, Cetta.» Cetta rise, sfilò il cappotto al figlio e gli guardò ammirata il vestito. «Come sei bello. Venite in tavola, è tutto pronto.»

«No, devo fargli vedere la casa» disse Sal. «Ho speso un sacco di soldi e non posso neanche mostrargliela?» Prese Christmas per un braccio e lo strattonò in giro per l'appartamento, mettendolo al corrente nel dettaglio delle spese di muratura, idraulica, elettricità e mobilia. Arrivati alla camera da letto non aprì la porta. «Qui ci dormiamo io e tua madre» mugugnò soltanto, a bassa voce, imbarazzato.

Christmas si voltò verso Cetta e le sorrise.

«Allora, com'è questa casa?» chiese alla fine del giro Sal.

«Bellissima» disse Christmas.

«Bellissima?» tuonò Sal. «Non capisci niente di case, pisciasotto. È una reggia. Una cazzo di reggia.»

«Hai ragione, Sal» rise Christmas. Poi andò in salotto.

La tavola era apparecchiata per tre. Mangiarono pasta con le polpette e i peperoni, salsicce al sugo, melanzane ripiene di carne di maiale e olive nere. E per finire salame piccante e formaggio di capra, il tutto annaffiato da un vino italiano denso e rosso rubino.

Poi Sal andò alla ghiacciaia e prese una scatola di cartone e una bottiglia. «Cassata siciliana, una specialità» disse. «E spumante dolce, non quella merda amara dello champagne.» Quando ebbero tutti i bicchieri in alto per il brindisi Sal disse, con la faccia imbarazzata: «Ho chiesto a tua madre di sposarmi».

«E tu che gli hai risposto, mamma?» sorrise Christmas.

«E che cazzo doveva rispondermi?» disse Sal, agitandosi sulla sedia e facendo cadere un po' di spumante sulla tovaglia.

Cetta intinse il dito nello spumante rovesciato e lo passò dietro all'orecchio di Christmas e poi di Sal. «Porta bene» disse.

«Sono felice per voi» disse Christmas. «E quando?»

«Vedremo» borbottò Sal. «Un matrimonio costa un sacco di soldi e adesso ne ho già spesi abbastanza per la casa.»

«A voi due» disse Christmas.

«E alla tua commedia» disse Cetta. «Manca poco…» Christmas sorrise. «Due settimane» disse piano.

«Alla tua commedia» disse Sal.

«E a nonno Vito e a nonna Tonia» disse Cetta. Poi accarezzò la mano di Sal. «Sarebbero così fieri di te.»

«E a Mikey» disse Sal in fretta.

«E a Mikey» disse Cetta, seria.

Bevvero lo spumante e mangiarono la cassata siciliana. Poi Christmas prese il pacco per la madre. Cetta lo scartò eccitata.

«È per il vostro letto» disse Christmas mentre la madre spiegava un grande copriletto ricamato a mano, con una C e una S sul risvolto.

Cetta lo abbracciò e lo baciò.

Sal gli diede una pacca sulla spalla. «Grazie» gli disse.

«È per mamma, non devi ringraziarmi» gli rispose Christmas palpeggiando il minuscolo pacchetto nella tasca dei pantaloni.

Poi andò alla finestra, l'aprì e si affacciò.

«Chiudi, che entra il freddo e mi blocca la digestione» disse Sal.

«Stavo solo guardando una cosa» disse Christmas.

«Cosa?» fece Sal raggiungendolo e spintonandolo per chiudere la finestra.

«Hai visto quella?» Sal si sporse. Fece una smorfia ammirata. «Cadillac Serie 314» disse. «Otto cilindri a V.»

«Bella» disse Christmas.

«Sei proprio uno stitico, pisciasotto. Quella macchina è un gioiello.»

«Mi domandavo di chi era» fece Christmas, infilando piano il pacchettino nella tasca dei pantaloni di Sal. «Ma immagino che sarà di chi ha la chiave giusta.» Si frugò in tasca, teatralmente.

«Mia non è» disse. «E tu, mamma, hai la chiave di quella Cadillac in tasca?»

«Non reggi l'alcol, pisciasotto» rise Sal. «Come puoi pensare che tua madre…» Si interruppe. Divenne serio. Guardò Christmas, che sorrideva. E anche Cetta sorrideva. Allora guardò in strada, con un'espressione indecifrabile. Poi si ficcò una mano in tasca, trovò il pacchettino, lo scartò in silenzio e si rigirò la chiave davanti agli occhi. Cominciò a scuotere la testa, stringendo le labbra e soffiando dal naso, con gli occhi rossi e le sopracciglia corrugate, agitando in aria un dito, nero e grosso, senza dire una sola parola. Tornò a guardare la Cadillac in strada. Poi si girò verso Cetta e Christmas, che lo fissavano abbracciati. Respirò come un toro. Uno, due respiri, gonfiando il torace e stringendo le mani.

E poi all'improvviso diede un pugno violento a un tavolino leggero sul quale era appoggiato un vaso. Una gamba del tavolino cedette di schianto, spezzandosi. Il vaso cadde in terra e si frantumò. «Ma che cazzo ti è venuto in mente? Hai la segatura in quel cazzo di cervello!» urlò, scalciando con furia il tavolino e i cocci del vaso. «Una Cadillac Serie 314! Dovrò affittare un garage per non farmela rovinare!» e poi uscì di casa, sbattendo la porta, che rimbalzò così forte da far cadere un quadro fatto a punto croce.

«Buon anno, mister Tropea» disse una voce sul pianerottolo.

«Ma vaffanculo!» si sentì urlare per le scale.

«Che gli è preso, mamma?» chiese Christmas.

Cetta gli sorrise. «Si è commosso» disse. Poi si affacciò in strada.

Dalla finestra di casa sua Zip vide un uomo grande e grosso raggiungere la Cadillac. Camminava fino al cofano, la guardava un attimo, poi tornava indietro e guardava il bagagliaio. L'uomo diede un calcio al cerchione di una ruota, poi subito si chinò, tirò fuori un fazzoletto e lo lucidò dove aveva tirato la pedata.

Il padre di Zip si mise alle spalle del figlio e gli poggiò una mano sul collo. A Zip piaceva sentire la mano grande e calda di suo padre sul collo. Lo faceva sentire sicuro.

«Bella macchina, eh, Albert?» disse il padre.

L'uomo in strada infilò la chiave nella portiera della Cadillac e l'aprì. Restò a guardare l'interno senza entrare.

Il padre di Zip spalancò la finestra e si sporse verso l'uomo in strada. «Bella macchina, mister Tropea!» urlò.

L'uomo in strada guardò verso l'alto. Ma non disse nulla. Aveva un'espressione stupida in faccia, pensò Zip. Poi l'uomo, con cautela, si infilò dentro l'auto. Mise in moto e cominciò a dare gas, facendo salire su di giri il motore. In maniera esagerata.

«Ho deciso di chiamarmi Zip, pa'» disse il ragazzino.

«Zip? Che razza di nome sarebbe?» L'uomo in strada cominciò a suonare all'impazzata il clacson.

Uscì dall'abitacolo e guardò in su, sbracciandosi eccitato verso l'edificio di fronte a quello di Zip. «Che cavolo aspettate? Almeno andiamo a farci un giro, porca troia!» urlò.

«Sai che ho una banda tutta mia, pa'?» disse Zip.

«Una banda?» Il padre gli diede uno scappellotto. «Quando la pianterai di dire cazzate?» fece e alzò lo sguardo verso la finestra di fronte. «Lo vedi quello?» e indicò un uomo giovane ed elegante, vestito di nero, che rideva accanto a una donna. «Quello è Christmas Luminita. È uno che ce l'ha fatta ad andare via da qui. È ricco.» Zip riconobbe l'uomo che gli aveva detto di tenere d'occhio la Cadillac. "Christmas è un nome da negro" pensò sorridendo, e accarezzò la banconota da dieci dollari che aveva in tasca.

«E tu credi che quello lì è diventato importante raccontando cazzate?» disse il padre di Zip e richiuse la finestra.

L'uomo nella Cadillac continuava a suonare il clacson.