54.

 

Manhattan, 1928.

 

Non aveva più fiato. Le gambe gli facevano male. Ma non poteva fermarsi, non poteva smettere di correre, li sentiva alle sue spalle.

Svoltando in Water Street vide un portuale che rincasava con la sua borsa degli attrezzi in spalla. «Ehi!» urlò disperato. «Aiutami!» Il portuale si voltò verso il ragazzo con il vestito sgargiante che correva scompostamente, ormai stremato, inseguito da due ceffi che impugnavano una pistola. E vide che più indietro sopraggiungeva una macchina, a fari spenti.

«Aiutami!» urlò il ragazzo.

Il portuale si guardò in giro, poi si infilò in un portone e stava chiudendolo quando il ragazzo lo raggiunse e cercò di entrare.

«Aiutami! Mi ammazzano!» urlò ancora il ragazzo.

Il portuale lo guardò in viso. Il ragazzo aveva i lineamenti stravolti dalla paura e dalla corsa. Aveva occhi bui. E profonde, scure occhiaie nere. Il portuale continuava a fissarlo in silenzio, mentre gli ansiti del ragazzo si infilavano nello spiraglio aperto.

«Aiutami…» sussurrò il ragazzo, con le lacrime agli occhi.

Il portuale diede una spallata al portone e lo chiuse fuori.

Joey si voltò verso i suoi inseguitori. Riprese a correre. Ma ormai aveva le gambe indurite dalla fatica. Svoltò per Jackson Street. Davanti a sé poteva vedere le acque scure dell'East River e, più oltre, la sagoma ondulata di Vinegar Hill. Scivolò. Cadde.

Si rialzò e riprese a correre ma non era ancora arrivato sotto al viadotto di South Street che la macchina nera lo sorpassò e gli tagliò bruscamente la strada. Gli sportelli si aprirono.

Joey si bloccò. Si voltò. I due inseguitori dietro di lui avevano smesso di correre. Sorridevano ansimando e avanzavano con calma. Improvvisamente era come se il tempo si fosse fermato. Joey abbassò lo sguardo e vide che cadendo si era strappato i pantaloni del suo vestito da centocinquanta dollari sul ginocchio. E si ricordò di quella volta che da bambino, dopo essere caduto, Abe il Fesso, suo padre, gli aveva pulito il ginocchio sputando sopra la propria cravatta e poi, a casa, gli aveva rammendato i pantaloni.

E allora si lasciò andare in terra e cominciò a piangere.

Dalla macchina uscirono Lepke Buchalter e Gurrah Shapiro. E dietro di loro un uomo dal viso anonimo e un cappello di feltro in testa. L'autista rimase al volante.

«Joey, Joey…» disse con voce cantilenante Gurrah. «Che fai? Ti metti a piangere come una ragazzina?» Joey non riusciva ad alzare lo sguardo.

«Dove sono i soldi?» chiese con voce gentile Gurrah.

Joey faceva segno di no con la testa e non parlava. Aveva la faccia bagnata di lacrime e tirava su col naso.

Gurrah si abbassò. Le ginocchia gli scricchiolarono. Si sfilò il fazzoletto dal taschino, prese Joey per il mento, gli alzò il viso e gli strinse il fazzoletto sul naso. «Soffia» disse.

Joey piangeva.

«Soffia, Joey» disse ancora Gurrah, con una voce meno amichevole.

Joey soffiò nel fazzoletto.

«Più forte» disse Gurrah.

Joey soffiò più forte.

«Bravo» disse allora Gurrah. «Allora, Joey, dove hai messo i soldi? C'è Lansky che li rivorrebbe.» Joey si portò una mano alla tasca interna ed estrasse un rotolo di banconote.

«Ci sono tutti?» chiese Gurrah senza prenderli.

Joey fece segno di sì col capo.

«Lo vedi come è stato facile?» rise Gurrah. «Ti senti più leggero? Eh? Di' la verità. Ti sei levato un peso dalla coscienza, no?» Poi lo prese per un braccio. «Vieni, Joey. Daglieli tu i soldi a Lansky. E più carino se glieli rendi tu, non credi?» e lo spinse verso l'uomo col cappello di feltro. «Lansky, guarda il ragazzo. Te li porta lui. Te li ha fregati, è vero, però adesso te li rende. È un bravo ragazzo» disse quando furono di fronte a Lansky.

Lansky guardava Joey senza espressione, con le mani in tasca.

Joey gli tese il rotolo di soldi.

«Rimettili a posto» gli disse senza levare le mani dai pantaloni.

Joey gli infilò il rotolo nella tasca della giacca.

Lansky lo guardò. «Ti sei strappato i pantaloni» disse.

E allora Joey riprese a piangere.

«Scusa, Lansky» disse Gurrah, sfilandogli il fazzoletto dal taschino. «Il mio è sporco.» Poi prese Joey sottobraccio e lo portò verso un pilone del viadotto. «Soffia» gli disse mettendogli il fazzoletto al naso.

Joey cercò di divincolarsi. Ma Gurrah lo teneva stretto. Voltandosi, Joey vide Lepke che stava per entrare in macchina. «Sono amico di Christmas!» urlò piangendo. «Lepke, sono amico di Christmas!» Lepke si voltò a guardarlo. Gli sorrise. Un sorriso aperto, rassicurante. «Lo so, Joey. Stai tranquillo.» Poi entrò in macchina e chiuse lo sportello.

Anche Lansky chiuse il suo sportello.

«Soffia» disse di nuovo Gurrah.

Joey soffiò.

«Più forte» disse Gurrah.

E Joey soffiò più forte.

«Prendi fiato bene» disse Gurrah amichevolmente. «Apri la bocca, prendi fiato e poi soffia.» Joey aprì la bocca. Gurrah gli infilò il fazzoletto dentro. E poi ci ficcò anche il proprio. Joey si agitò, sbarrando gli occhi, preso alla sprovvista, e non si accorse che uno dei due ceffi che l'aveva inseguito a piedi gli passava un fil di ferro intorno alla gola e cominciava a stringere. Joey scalciò, cercò di urlare, si portò le mani al fil di ferro. Ma più si agitava, più diventava debole. E in un attimo gli occhi gli si rovesciarono nelle orbite e i pantaloni si bagnarono di urina.

Gurrah guardava. «Che schifo» disse alla fine. Poi si rivolse al carnefice di Joey e gli disse: «Non sporcare l'East River con questa merda. Lascialo nell'immondizia» e raggiunse la macchina, che subito ripartì a fari spenti.

«Questa è l'ultima volta, allora» disse Christmas, attirando a sé Maria.

Maria si stiracchiò pigramente e poi si accoccolò sul petto di Christmas. «Sì» disse.

«Mi mancherà questo letto» fece Christmas passandole una mano tra/i lunghi riccioli neri.

«Davvero?» chiese Maria.

«Il letto di casa mia non è così comodo.» Maria rise. «Maleducato» e gli diede un pizzicotto. «E a me mancherai tu» disse poi.

Christmas scivolò sotto le coperte e la baciò tra i seni. «Mi inviterai al matrimonio?» le domandò.

«No.»

«Perché?» chiese Christmas abbandonandosi di nuovo sul cuscino.

Maria gli spettinò il ciuffo biondo e lo fissò negli occhi, in silenzio. «Per questo» disse.

«Questo cosa?»

«Ramon vedrebbe come ci guardiamo» sorrise Maria. «E non gli piacerebbe.»

«Mi ucciderebbe?» Maria sorrise. «Sono innamorata di Ramon. Non vorrei mai che soffrisse.»

«Sarete felici» disse con una punta di tristezza Christmas.

Maria appoggiò la guancia a quella di lui. Gli sfiorò il collo con le labbra. «Stai pensando a lei?» bisbigliò con voce dolce.

Christmas si alzò dal letto e cominciò a vestirsi. «Ogni giorno.

Ogni istante» disse.

«Vieni qui» fece Maria spalancando le braccia. «Salutami prima di andartene.» Christmas si abbottonò la giacca poi si chinò su Maria e la baciò teneramente sulle labbra. «Sei bella» le disse, con gli occhi velati dalla malinconia dell'addio. «Mi dispiacerà non ridere più con te.»

«Sì…» disse Maria.

«Vado…»

«Sì…» Si guardarono. Si sorrisero. Due amanti che si lasciavano senza pena. Due amici che si perdevano. Due compagni di gioco le cui strade si separavano. Si sorrisero per quel dolore leggero che si stavano infliggendo.

«È presto… non vuoi rimanere ancora un po'?» disse allora Maria.

Christmas le accarezzò il viso, scuotendo il capo. «No. Ho un appuntamento prima della trasmissione.»

«Cosa ci può essere di più interessante che rimanere con me?» scherzò Maria.

Christmas sorrise senza rispondere.

«Allora?»

«Devo salutare un amico.»

«Ah…» Si guardarono.

«Vado…» disse Christmas.

«Sì…» E ancora si guardarono.

«La troverai» disse allora Maria e gli strinse la mano.

Christmas le sorrise, si voltò e uscì dall'appartamento e dalla vita di Maria.

Montò su un treno della BMT e rimase seduto, fissando un bullone arrugginito di fronte a lui, senza far caso a chi saliva e scendeva dal vagone, con la testa vuota e piena nello stesso tempo.

Preparandosi a un altro addio. Definitivo. Doloroso. Inevitabile.

E una parte della sua mente, adesso come quando era con Maria, continuava a rimuginare su quello che aveva fatto Karl il traditore. "Bastardo" pensò con astio. Li voleva vendere. "Ci sarà tempo anche per te" si disse.

Quando arrivò la sua fermata scese e camminò piano, senza fretta. Superò i cancelli del Mount Zion Cemetery, percorse i viali silenziosi e infine – in una zona isolata del cimitero ebraico – vide un uomo che non aveva mai incontrato ma del quale aveva sentito parlare spesso e una donna che non gli aveva stretto la mano quando aveva saputo che non era ebreo. L'uomo, con un vestito grigio scuro, con le maniche e il colletto lisi, aveva lo yarmulke in testa. La donna un velo. Ed era vestita di nero. Entrambi avevano abiti invernali. E sudavano nell'afa dell'estate.

Christmas si avvicinò ai due e chiese: «Posso restare?».

L'uomo e la donna voltarono il capo e lo guardarono senza espressione. Né di stupore né di fastidio. Poi tornarono a fissare la lapide, piccola, bianca, sulla quale era incisa la stella di David.

"Yosseph Fein. 1906–1928" diceva la scritta sulla lapide.

Null'altro. Né "amato figlio" né che tutti lo chiamavano Joey né che il suo soprannome era Sticky perché tutti i portafogli gli si appiccicavano alle mani né che era magro da far schifo o che aveva occhiaie profonde e nere. «Quando Abe il Fesso tirerà le cuoia lo butteranno in una fossa al Mount Zion Cemetery e sulla tomba ci scriveranno: "Nato nel 1874. Morto nel…" che cazzo ne so…

"1935". Punto e basta. E sai perché? Perché non c'è un cazzo d'altro da dire di Abe il Fesso» aveva detto un giorno Joey, pieno di disprezzo. E adesso Joey aveva la tomba che aveva immaginato per suo padre. Non c'era scritto che voleva comprarsi una bella macchina. O che riscuoteva il pizzo per le slot machine degli altri, o che vendeva droga, o che guadagnava più di suo padre facendo schlamming, picchiando la sua gente con un tubo di ferro nascosto da una copia del "New York Times". Non c'era scritto che aveva la paura dipinta negli occhi e una debolezza da traditore. Non c'era scritto che aveva rubato a Meyer Lansky una fetta dei soldi che il sindacato passava all'organizzazione per avere la protezione della mafia ebraica. Non c'era scritto che era morto strangolato e che era stato buttato in mezzo alla spazzatura, né che indossava un vestito di seta da centocinquanta dollari, troppo sgargiante per essere di una persona perbene. Non c'era scritto niente. Nome, data di nascita, data della morte.

Non c'era scritto nemmeno che Christmas era stato il suo unico amico.

E lì, in quella zona isolata del Mount Zion Cemetery, non c'era nessuno a parte suo padre e sua madre, immobili davanti alla terra smossa. Come due statue di sale che sudavano nei loro vestiti invernali. Nessun altro. Nessuno che rimpiangesse Joey.

Nessuno che fosse abbastanza amico di Abe il Fesso e di sua moglie per dargli solidarietà. Erano solo loro tre.

«Era… un ragazzo…» cominciò a dire Christmas, perché non voleva che Joey se ne andasse senza una parola. Ma s'inceppò, senza sapere come proseguire.

La madre di Joey si voltò a guardarlo. Per un istante. Senza riprovazione né speranza. Poi tornò a fissare la terra che ricopriva la fossa e la bara.

"Era un ragazzo" pensò Christmas allontanandosi. Perché non c'era molto altro da dire.

E allora, in quella quiete senza oblio, risuonò un verso, incontrollato e improvviso. Stonato. Come un muggito trattenuto.

Christmas si voltò e vide che le spalle di Abe il Fesso cedevano, scosse da un altro, breve, quasi ridicolo singulto che gli fece cadere dalla testa lo yarmulke. La moglie si chinò, lo raccolse e lo risistemò sul capo del marito. Poi le spalle di Abe il Fesso si raddrizzarono ed entrambi tornarono a tramutarsi in due statue di sale che fissavano in silenzio la terra smossa.