13.

 

Brooklyn Heights–Manhattan, 1922.

 

Bill non era tornato a casa, quella notte. Aveva comprato una cassa di birra e una bottiglia del miglior whisky invecchiato dodici anni nello stesso speakeasy dove gli avevano fatto credito la sera prima. Era uno spaccio clandestino frequentato da piccoli delinquenti, gente che si occupava di riscuotere per il racket qualche pizzo di poca importanza o l'affitto per le slot machine.

Avevano tutti facce da topi, anche quando erano grandi e grossi.

Perché venivano dalle fogne e nelle fogne vivevano. Ma Bill si sentiva importante a frequentare quello speakeasy, gli sembrava di essere uno di loro. Un duro. Conosceva altri spacci che vendevano alcol di contrabbando, anche più a buon mercato, ma gli piaceva stare spalla a spalla con quei tizi con la pistola infilata nei pantaloni.

Così aveva comprato la cassa di birra e la bottiglia di whisky e poi si era nascosto. Per tutta la notte e tutto il giorno. Aveva trovato un posto isolato di Brooklyn Heights, dal quale poteva vedere i grandi ponti in ferro e acciaio che sembravano trattenere vicine le due sponde di terra. Aveva tagliato con le cesoie delle frasche, con le quali aveva coperto il furgone. Il sangue della ragazzina ebrea che era ancora sulle lame si era mischiato alla corteccia delle frasche. E Bill aveva riso. Poi aveva teso l'orecchio.

Attento. Come se avesse sentito qualcosa. Non qualcuno, qualcosa. Qualcosa nella sua risata. Come se fosse stata diversa.

Provò a ridere di nuovo e di nuovo sentì quel qualcosa. Qualcosa che mancava. E allora, solo allora, provò paura per quello che aveva fatto.

Aveva bevuto la prima birra. E qualche sorso di whisky. Avrebbe voluto accendere un fuoco. Per scaldarsi ma anche per avere un po' di luce. Il buio lo metteva a disagio. Al buio, quand'era ragazzino, non sapeva mai da dove potesse arrivare suo padre. Vederlo arrivare, mentre si sfilava la cinta dai pantaloni e se la arrotolava al pugno, era meno pauroso. Non faceva meno male. Era solo meno pauroso. Allora aveva preso l'accendino a benzina e l'aveva acceso. E con quello aveva dato fuoco a uno stelo secco di sterpaglia. Quella luce non la potevano vedere, si era detto stappando la seconda birra e aveva riso. Di nuovo aveva teso l'orecchio. In cerca di quel qualcosa che mancava. E gli era parso che stesse tornando. Non tutto. Ma un po' era tornato. Come se una parte di sé tornasse. E allora aveva riso più convinto, con un altro stelo che gli bruciava in mano, rischiarando la paurosa oscurità intorno a lui.

Albeggiava quando – alla quarta birra e metà della bottiglia di whisky – Bill aveva ritrovato la sua risata quasi per intero. E non era più buio. Si era infilato nel furgone e si era sdraiato sul sedile.

Aveva appoggiato la testa e gli era parso di sentire il profumo di pulito dell'ebrea. Si era portato la mano in tasca e aveva estratto i soldi e l'anello con lo smeraldo. Prima aveva contato i soldi.

Quattordici dollari e venti cent. Una fortuna. Poi si era rigirato davanti agli occhi l'anello. Intorno al grande smeraldo una corona di piccoli diamanti catturava la luce del sole nascente che filtrava tra le frasche che occultavano il furgone. Bill aveva provato a infilarselo. Ma aveva dita troppo grandi. Anche il mignolo. Era riuscito a malapena a infilarci la prima falange. Era buffo vederlo lì, saldo eppure in bilico. Aveva riso – riscoprendo la sua risata, riconoscendola per intero – e poi aveva chiuso gli occhi, con l'odore dell'ebrea nel naso e le nocche delle mani che un po' gli facevano male. Si era leccato le escoriazioni. Doveva averla colpita sui denti, aveva pensato ridendo piano e poi si era addormentato. Non era più notte. Non era più buio. Non c'era più nulla da temere.

Era di nuovo sera quando si svegliò. Di nuovo buio. Solo le luci della città, oltre l'East River. Bill si guardò il mignolo con il luminoso anello dal grande smeraldo e la corona di diamanti. Stava per ridere ma si trattenne. Aveva paura di sentire di nuovo quella parte mancante. Ma adesso sapeva come rimediare. Scese dal furgone e stappò una birra. Ne bevve metà tutta d'un fiato, poi si attaccò alla bottiglia di whisky e buttò giù una generosa sorsata. Non aveva mai bevuto un whisky invecchiato dodici anni, era roba per ricchi. Infine diede fondo alla birra. Ruttò e poi rise. Sì, era la sua risata. Bevve ancora una sorsata di whisky e di nuovo rise, forte, a pieni polmoni.

Rimanevano sette birre. E poco meno di mezza bottiglia di whisky. Bevve due birre, una dietro l'altra, e lanciò le bottiglie verso il fiume, verso il ponte, verso quella città piena di luci colorate.

«Arrivo!» urlò alla città. «Vengo a prenderti!» Liberò il furgone dalle frasche che lo nascondevano, mise in moto e partì. I fari delle auto illuminavano le travature del grande ponte. E la città si mostrava in tutta la sua terribile bellezza.

La città del denaro, pensava Bill, guardando i riflessi verdi e arcobaleno dell'anello in bilico sul mignolo.

«Vengo a prenderti» disse di nuovo, ma a bassa voce, come una minaccia, e in mezzo a tutte quelle luci lo sguardo gli tornò cupo, buio, spento. Stappò una birra. E poi un'altra. E quando ebbe finito tutte le birre diede fondo al whisky. E infine rise, beandosi di quel suono al quale non mancava niente.

Parcheggiò in una zona male illuminata di South Seaport e poi si diresse a piedi verso casa. Si infilò in un vicolo stretto e fetido, che sapeva degli scarti del mercato del pesce. Da lì scavalcò una recinzione di legno e si calò in un cortile. Dal cortile – rasentando un vecchio muro di mattoni rosi dal gelo – raggiunse una rete metallica. Ci si aggrappò e la scalò, lasciandosi andare dall'altra parte. Cadde, sbilanciato dal troppo alcol. Si rialzò ridendo sommessamente, controllando di avere l'anello al mignolo e i soldi in tasca. Poi proseguì lungo un muretto basso, a braccia larghe, come un equilibrista, e di lì saltò su una scala antincendio. Aprì la finestra al terzo piano e si infilò nell'appartamento, in silenzio.

Si accucciò in un angolo, riprendendo fiato. E sorrise. Non aveva più fatto quel tragitto da quando era un ragazzino pauroso e scappava di casa, la notte. Ma era come se l'avesse fatto ieri.

«Chi è?» disse una voce roca, impastata dall'alcol.

Bill aveva di nuovo voglia di bere.

Dalla stanza accanto venne un rumore di vetro contro il vetro. Il collo di una bottiglia contro il bordo di un bicchiere. Lì avrebbe certamente trovato da bere, Bill lo sapeva mentre si alzava in piedi.

«Ho sentito un rumore di là» disse la voce roca, dura, sgradevole. «Vai a vedere, brutta troia ebrea!»

«Non c'è bisogno, pa'» fece Bill comparendo nella stanza.

L'uomo se ne stava sprofondato in una poltrona di velluto verde, stinta, lisa sui braccioli e macchiata. Stringeva un bicchiere mezzo pieno di liquore. La bottiglia era a terra, ai piedi della poltrona, a portata di mano. Una bottiglia senza etichetta. Non del buon whisky di contrabbando ma il blue ruin, il distillato più scadente che girava sottobanco al mercato del pesce. Un'altra bottiglia identica era rovesciata per terra. Vuota. L'uomo guardò Bill. «Che cazzo ci fai qui, scheisse?» disse e poi bevve.

«Voglio bere anch'io» disse Bill.

«Compratelo» fece l'uomo.

Bill rise. Si infilò una mano in tasca, prese tutti i soldi che aveva e li gettò addosso al padre. «Ecco, adesso l'ho comprato» disse e si chinò verso la bottiglia di blue min.

Il padre lo colpì in volto con una manata.

Bill non reagì. Stappò la bottiglia e bevve un lungo sorso. Poi si passò una mano in faccia, con un'espressione disgustata. Prese qualcosa di trasparente tra il pollice e l'indice e lo buttò per terra.

«Pesce. Che merda» disse. «Perdi scaglie dappertutto.» In quel momento una donnetta dall'aria emaciata, piccola e magra, con gli zigomi prominenti che tiravano la pelle olivastra del viso e due grandi occhi neri, malinconici, comparve nella stanza. Indossava una vestaglia che Bill conosceva da anni. Sempre quella. E aveva un nuovo livido sulla mascella.

«Ma'…» disse Bill con la bottiglia in mano.

«Bill!» fece la donna, lanciandosi sul suo ragazzo per abbracciarlo.

Ma Bill la tenne a distanza, frapponendo tra loro il braccio teso in fondo al quale stringeva la bottiglia di blue ruin.

La donna si portò una mano alla bocca. Nei grandi occhi neri preoccupazione e disperazione. La preoccupazione era un sentimento nuovo, nato quel giorno. La disperazione una compagna che si portava appresso da anni, da così tanti anni che Bill non ricordava di averle mai letto altro nello sguardo.

«È venuta la polizia…» disse piano la donna. Poi vide l'anello al mignolo del figlio. «Bill, Bill… che cosa hai fatto?»

«Ebrea del cazzo che non sei altro» scattò il padre alzandosi dalla poltrona, barcollando. «Ecco che ha fatto!» e le buttò in faccia i soldi. «Hai la merda in testa, come tutti gli ebrei!»

«Falla finita, pa'» disse Bill. «Falla finita» e bevve ancora.

Il padre lo guardò. Era più alto di suo figlio. E più forte di lui.

L'aveva picchiato per una vita. Con le mani, coi calci, con la cinghia. «Ebreo di merda anche tu» gli disse. «Lo sai che se sei figlio di una baldracca ebrea sei ebreo anche tu?» e ghignò, con una luce buia negli occhi.

«Sì, me l'hai detto un milione di volte, pa'» Bill bevve ancora.

«E non mi fa più ridere.»

«Piantatela… vi prego» s'intromise la madre.

Il padre si girò verso la donna. Spalancò un braccio e la colpì con furia. «Troia ebrea, sempre a metterti in mezzo.» Bill si voltò senza dire una parola e andò in cucina.

«Vieni qui, pezzo di merda. Ridammi la mia bottiglia. Te li ficco su per il culo i tuoi soldi. Finirai sulla forca e io farò una festa. Ma prima voglio lasciarti qualche segno sulla tua schiena da ebreo» e cominciò a slacciarsi la cinta dei pantaloni. Se la sfilò e l'arrotolò intorno al pugno. E barcollando a destra e a sinistra per reggersi in piedi, non s'accorse che i pantaloni gli calavano a terra.

«Mi fai pena» disse Bill rientrando nella stanza. Bevve un'ultima sorsata, buttò la bottiglia a terra e poi gli infilò nella pancia il coltello che il padre usava al mercato per eviscerare il pesce.

La madre si gettò tra padre e figlio mentre Bill affondava un secondo colpo. La donna sentì la lama che le scheggiava le costole e le entrava nel torace con un rumore viscido. Sbarrò gli occhi e cadde a terra. Allora Bill alzò di nuovo il coltello e di nuovo calò un colpo. Il padre aveva allungato le mani per proteggersi. La lama gli lacerò il palmo.

«Te l'ho mai detto che le tue mani sporche di pesce mi fanno schifo?» rise Bill e lo colpì di nuovo in pancia.

Il padre crollò a terra, sulla moglie.

Bill alzò il coltello e lo calò di nuovo e di nuovo ancora, senza curarsi se colpiva la madre ebrea o il padre pescivendolo. E si stupì quando, affondando per l'ultima volta la lama, disse, ad alta voce: «Ventisette». Ventisette coltellate. Aveva tenuto il conto.

Buttò l'arma sui due corpi, scomposti e insanguinati, cercò nella dispensa qualcosa da mangiare e una bottiglia. Raccolse i suoi quattordici dollari e venti cent. Guardò nella scatola di cartone dove sapeva che sua madre metteva da parte il denaro e contò tre dollari e quarantacinque. Poi frugò nelle tasche del padre e trovò un dollaro e venticinque. Si sedette nella poltrona verde e contò quanto aveva. Diciotto dollari e novanta.

Si guardò l'anello al mignolo. Se lo sfilò. Prese il coltello insanguinato e con la punta smontò tutte le pietre, una a una, fece una bustina con un foglio di giornale, ce le ficcò dentro e poi mise via il pacchetto. Dalla tasca del cadavere del padre spuntava un fazzoletto. Lo prese e con quello pulì dal sangue la montatura dell'anello.

Infine scavalcò la finestra dalla quale era entrato e percorse a ritroso tutto il cammino che faceva da ragazzino, quando aveva paura del buio, quando aveva paura di non vedere il padre arrivare ubriaco con la cinta arrotolata al pugno, per picchiarlo senza una ragione. Quando scappava di casa perché sapeva che sua madre – l'ebrea che aveva voluto sposare il pescivendolo tedesco non l'avrebbe difeso. Perché le donne erano tutte troie. E quelle ebree erano le peggiori.

«Quanto mi dai per questa montatura d'argento?» disse Bill al vecchio ebreo.

Sapeva che il negozietto rimaneva aperto fino a tardi. Gli ebrei erano delle merde schifose. Avrebbero fatto di tutto per denaro.

Erano gente senza cuore.

Il vecchio prese la sua lente e si rigirò in mano la montatura, osservandola. Poi guardò il ragazzo. Aveva un'aria idiota, pensò.

«Che vuoi che valga una montatura?» disse alzando le spalle e buttandola sul bancone del negozietto, nella feritoia della rete di protezione. «Due dollari.»

«Solo due dollari?»

«Non esiste un'altra pietra che ci si incastoni se non la sua originale. Bisogna fondere tutto e fare un'altra montatura per un'altra pietra. È più la fatica che il guadagno» disse il vecchio.

Ebrei. Tutti così. Bill lo sapeva bene. E quel vecchio era peggio di tutti. E anche questo lo sapeva bene. Ma non ne conosceva altri. Almeno non aperti a quell'ora. E lui doveva raggranellare il più possibile e squagliarsela. Si ficcò una mano in tasca e palpò il cartoccio con le pietre. No, non poteva farlo. Il vecchio ebreo avrebbe pensato che era un ladro e avrebbe avvertito la polizia.

«Ne voglio almeno cinque. È una montatura d'argento.» Sì, quel ragazzo era un vero idiota, pensò il vecchio. Odiavano gli ebrei perché erano più intelligenti di loro. Almeno, lui s'era sempre dato questa spiegazione. Perché tutti questi americani erano dei veri idioti. «Tre» disse.

«Quattro» fece Bill.

Il vecchio contò quattro banconote e le fece passare al di là della feritoia. Poi prese la montatura.

Bill lo guardava immobile.

«Che c'è ancora?» gli chiese l'ebreo.

Bill guardava dritto negli occhi quel vecchio che aveva spiato tante volte insieme a sua madre, quand'era piccolo, e poi da solo, una volta cresciuto. Fissava quel vecchio ebreo avido e senza cuore, che aveva cacciato di casa sua figlia quando s'era innamorata di un pescivendolo tedesco. Quell'ebreo schifoso che aveva coperto gli specchi di casa, che aveva recitato il Kaddish, le preghiere dei defunti, perché per lui era come se sua figlia fosse morta e non l'aveva mai più voluta vedere. E che non aveva mai voluto conoscere suo nipote.

Guardava suo nonno, Bill.

«Ebreo di merda» rise Bill, della sua risata leggera. Si voltò e uscì.

Il vecchio non batté ciglio. «Martha» fece poi, rimasto solo, rivolto verso il retro del negozio. «Senti un po' questa. Un idiota mi ha venduto per quattro dollari una montatura che ne vale almeno cinquanta. Una montatura in platino. E quell'idiota credeva che fosse d'argento» e rise, della sua risata leggera, allegra, scanzonata, così particolare, con la quale aveva conquistato il cuore della sua adorata moglie, cinquantanni prima.

La stessa allegra e scanzonata risata con la quale, tre anni dopo, aveva accolto la notizia che la moglie aveva dato alla luce una splendida bambina. La madre di Bill.