MAGNUS
Mi sento un coglione totale.
Volevo solo giocare a tennis con Ella, divertirmi un po’, godermi il sole e tutto il resto e, invece, ho finito per romperle il naso. Che sia successo per via della mia iper competitività o perché tentavo solo di darmi delle arie, ho comunque rovinato un bel momento che stavamo avendo.
Okay, le cose stanno andando molto lentamente e forse non ci cerchiamo a vicenda, né vogliamo passare del tempo insieme. Tuttavia, per la prima volta da quando l’ho conosciuta, mi è sembrato che non stesse discutendo con me perché mi odia, ma che lo stesse facendo più perché lo trovava divertente.
Ora questo ci ha riportati al punto di partenza. Non ha aiutato neanche il fatto che una delle sue domande mi abbia colpito più di quanto avrebbe dovuto. Lo so che è solo curiosa e che non dovrebbe essere un gran problema, ma per qualche ragione è stato così.
Negli ultimi tre giorni, quindi, la situazione si è fatta di nuovo tesa. Quando le parlo, taglia un po’ corto, forse perché questo posto inizia a sembrarle una prigione, e con il passare dei giorni e l’avvicinarsi della fine di queste due settimane, proprio non vedo come faremo a uscire da questa storia in maniera positiva. Ho la sensazione che non la rivedrò mai più.
Il che mi rode, devo ammetterlo.
Ho iniziato ad apprezzarla.
Molto.
Mi affascina e non riesco a capirne il motivo. Forse perché più domande le faccio, più lei si mostra a me e con riluttanza mi permette di rimuovere degli strati. Diventa più dolce e più coraggiosa allo stesso tempo.
So che ha un rapporto complicato con la sua famiglia e il suo paese. Si sente ferita e rifiutata e tenta di curare da sempre il dolore che prova da quando il padre l’ha spedita in collegio. Non riesco a immaginare come sia perdere la madre da piccoli e poi avere l’unico altro genitore che ti rimane che ti manda via come se non ti volesse.
Non ne ha parlato molto con me, ma riesco a vedere il dolore nei suoi occhi, l’atteggiamento di difesa che ha quando serra la mascella, la vulnerabilità delle sue spalle. So che tutto questo l’ha resa timida e la porta a dubitare di se stessa per qualsiasi cosa. Tranne per ciò che l’appassiona: i problemi ambientali.
E, be’, me.
Non riesco a capire se io le piaccia oppure no. Tuttavia, so che le piace molto il modo in cui si sente quando sta con me. Non ha mai paura di dirmene quattro o di dire la sua opinione e suppongo che sia per questo che mi piace farla incavolare tanto, perché sento che più lo faccio e più lei si lascia andare.
Fino a essere se stessa con chiunque e non solo con me.
Certo, in parte il motivo per cui mi sono infatuato di lei è che mi toglie il fiato in qualsiasi momento. È sempre bella, ma lo è ancora di più quando si infiamma contro di me, con quel luccichio malizioso nello sguardo e la lucentezza della pelle e il sorriso che tenta spesso di nascondere, ma invano.
Comunque, se io la faccio incavolare, lei fa incavolare me. Solo che non so se le piacerà ciò che nascondo sotto la superficie.
Questa sera, però, se ne sta di nuovo sulle sue e io sto iniziando ad avere l’ansia per la tensione che c’è in casa, quindi mi metto un cappotto e dico a Einar e Ottar che mi piacerebbe andare in città. Ho bisogno di bere qualcosa e di uscire di casa.
Salgo in macchina e realizzo di aver lasciato il cellulare in camera. Corro rapidamente in casa, lo prendo e poi mi imbatto in Ella proprio mentre sto chiudendo la porta della stanza.
«Dove stai andando?», mi domanda. Il naso non è più gonfio ma è coperto di lividi e ha un occhio nero. Ha fatto del suo meglio per coprirlo con il trucco, ma so che c’è. Mi vergogno di me.
«Al bar», le dico facendo scivolare il cellulare nella tasca del cappotto.
«A fare cosa?».
Io aggrotto le sopracciglia. «A bere. Ovviamente».
«Con chi? Heidi?».
Questo mi coglie di sorpresa. «Heidi? Quel cirripede? No. Con nessuno».
«Quindi vai al bar da solo?».
Non so perché abbia un tono così sospettoso. Forse perché l’ho fatto ogni singola sera. A volte aspetto che vada a dormire, perché mi dispiace che lei non possa uscire.
«Ho degli amici con cui mi vedo lì», dico con cautela, pensando ad Harold il Gobbo e al resto della combriccola.
«Certo», dice. «Amici».
Si volta per andarsene e io le afferro un braccio.
«Pensi che sia andato via ogni notte per vedere altre donne?», le chiedo e lei solleva il mento ma non mi risponde. «Ella, le uniche gambe femminili tra cui voglio stare sono le tue».
Lei sgrana gli occhi fino a farli diventare grandi come piattini.
Sapevo che così avrei catturato la sua attenzione.
«Sei libero di fare ciò che vuoi. Non mi importa niente se vai con altre donne», dice dopo un attimo, cercando di sembrare disinvolta. Ma non sono così ingenuo.
«Penso che tu stia mentendo», le dico, notando come incroci il mio sguardo solo per un secondo.
«Perché dovrei mentire?»
«Non lo so». Scrollo le spalle ma non le lascio andare il braccio. «Per farmi incavolare. A volte ti comporti come se lo facessi per lavoro».
Lei sbuffa e distoglie lo sguardo.
«Non ti preoccupare», le dico. «Mi piace quando lo fai».
«Non cerco di farti incavolare», mi spiega. «Mi viene naturale».
Giusto. Non so come spiegarle che più mi combatte e più mi eccito. Sono andato in giro con un’erezione incredibile per gran parte della settimana che stiamo trascorrendo insieme.
«Okay». La guardo mentre faccio scivolare la mano sul suo avanbraccio e fino al polso delicato, stringendogli le dita intorno. Sento il suo battito aumentare contro la mia pelle e sollevo lentamente lo sguardo per incrociare il suo. «Solo perché tu lo sappia, più diventi sfacciata con me e più penso a quali altre cose la tua bocca è in grado di fare».
Lei si irrigidisce e cerca di divincolare il polso, ma io la trattengo. «Sei un bruto».
Sollevo le sopracciglia e sorrido. «Un bruto? Mi piace. Non c’è anche un’acqua di colonia con questo nome?».
Lei mi guarda con rabbia. «Sei un cavernicolo. Non hai classe».
«Ahia», dico prendendola in giro e passando il pollice sulla pelle morbida dell’interno del suo polso. Faccio un passo verso di lei. «Hai insultato il mio rango sociale. Come farò a riprendermi? Lo so, forse un giorno sarò re. Questo dovrebbe risolvere i problemi di classe».
«Avere un alto ceto sociale, soldi e una posizione di potere non hanno niente a che vedere con la classe e lo sai. Potrai anche essere re, ma sarai un re rozzo».
«E quindi non avrebbe senso avere una regina dolce al mio fianco? La vita è una questione di equilibri».
«Non sono dolce e tu lo sai».
Mi succhio il labbro inferiore per un momento e i suoi occhi seguono il movimento. Porca miseria, se solo riuscissi a capire se è attratta o no da me, sarebbe decisamente d’aiuto.
«Il fatto è, Principessa, che sei dolce. Sei anche peperina. Hai tanti sapori diversi che ancora non ho avuto la possibilità di assaggiare».
Ella arrossisce furiosamente e scuote la testa. «Perché perdo tempo con te?»
«Non ne sono sicuro. Perché lo fai?»
«Sei un hestkuk».
La guardo perplesso per un attimo e lascio cadere la mano. Poi scoppio a ridere, incredulo per quanto ha appena detto.
«Cosa? Mi hai chiamato hestkuk?», riesco a dirle tra le risate. «Dove lo hai imparato? Sai almeno cosa significa?»
«Ho chiesto a Ottar di dirmi qualche parolaccia nel caso ne avessi bisogno. Ha detto che significa stronzo. Sai, più di drittsekk». Le si dipinge un’espressione preoccupata sul volto. «Non è così?»
«In realtà la traduzione è molto facile», le dico. «Significa “cazzo di cavallo”. Però l’hai pronunciato bene».
«Cazzo di cavallo!?», ripete indignata. «Come fa a essere un insulto?»
«Per me non lo è. D’altro canto, io ce l’ho così». Il suo sguardo scende per un attimo verso il mio inguine e io non riesco a fare a meno di sorridere.
«Dannato Ottar», borbotta distogliendo subito lo sguardo.
«Lui è del nord, lì sono più creativi con le parolacce», le dico. «Visto che parliamo di cazzi, però, penso che dovremmo fermarci qui. Prima sembravi molto interessata. Aggiungiamo cazzo di cavallo al serpente nei pantaloni, al maestro delle cerimonie e alla mortadella rosa».
Pensavo che i miei nomignoli l’avrebbero portata di nuovo ad alzare gli occhi al cielo e, invece, produce una specie di ringhio. Tutta la dolcezza viene sostituita da una rabbia da allarme rosso.
«Va’ a farti fottere», mi dice e poi si avvia lungo il corridoio.
Helvete. Sta diventando piuttosto sboccata.
«Fai la cattiva, Principessa», le dico. «È così che mi piaci».
Lei mi mostra il dito medio e continua a camminare.
Dopo il nostro alterco sul cazzo di cavallo nel corridoio, vado al bar e sono sicuro che Ella sia andata a letto arrabbiata. La verità è che mi dispiace, ancora, che ci sia questa situazione e appena fuori Oslo dico a Einar di riportarmi alla tenuta. Dopo tutta quella storia, non mi sembrava giusto andare al bar.
La mattina dopo mi rifiuto di lasciare le cose strane tra di noi. Mi sono assicurato di fare colazione insieme a lei, che si lamentava della tipica colazione norvegese, che in pratica consiste in fette di pane impilate l’una sull’altra con un milione di cose diverse. Io ci metto aringhe, cipolle sottaceto e prosciutto, cosa che la disgusta. Lei si limita a metterci la Nutella.
«Ehi», le dico mentre sto seduto al tavolo nel posto di fronte al suo. «Mi dispiace per ieri sera».
Lei scrolla le spalle tenendo gli occhi puntati sulla Nutella.
Jane, che è rimasta a guardarci come se fossimo uno spettacolo teatrale creato apposta per divertirla, ci chiede: «Che è successo?»
«Niente», risponde Ella.
«Penso che si senta un po’ agli arresti domiciliari», ammetto. «E io sono stato un po’ scortese, rozzo e avventato. Quindi mi è venuta un’idea».
Ella solleva lentamente la testa per guardarmi. «Cioè?», domanda con cautela.
«Stasera, quando vado al bar, puoi venire con me».
Lei si acciglia e inizia a mangiucchiare il pane. «Lo sai che non devo essere vista in pubblico».
«Lo so».
«Soprattutto con questo naso», dice indicando i lividi che stanno sparendo abbastanza in fretta.
«Ora stai molto meglio», le dice Jane. «Davvero».
«E poi non importa», aggiungo io. «Perché vado in un solo bar e nessuno lo conosce. In pratica, si trova in una stradina secondaria, è grande un quarto di questa stanza e il proprietario, Harold, non fa entrare le telecamere. E in più, non vedo paparazzi lì in giro da settimane».
Ella mi fissa per un attimo e io riesco a vedere l’angelo e il diavolo dentro di lei che litigano fra di loro. Quella parte di lei che odia il fatto che in questo momento sta perdendo le lezioni, le sta dicendo che lasciare la tenuta è contro le regole. L’altra parte, quella che ha paura di essere esclusa e messa da parte, le sta dicendo che ha bisogno di farlo, che merita di divertirsi un po’.
Decido di fare appello a quest’ultima.
«Ti meriti una pausa», le dico. «Conosco le regole, ma prometto che non la prenderai in quel tuo bel culetto».
«Signore», mi ammonisce Ottar dalla cucina, dove si sta versando il caffè. Non lo avevo neanche notato prima.
Io scrollo le spalle. Ha sentito cose ben peggiori.
«A che ora?», mi chiede lei. «Che devo mettermi? Non ho portato nulla che si addica a un bar o a posti simili».
Le faccio un sorriso rassicurante. «Credimi, puoi anche metterti il pigiama che indossi ora. Non è quel tipo di bar».
«Devo pensarci su», risponde prima di dare un morso al sandwich.
Sono tentato di chiamare il quiz tiiiiime ma, dato che dovrebbe essere una cosa tra noi, decido di aspettare.
La serata si avvicina lentamente. Sono quasi le otto quando Ella compare sulla soglia del salotto mentre io guardo il cellulare seduto vicino al camino.
«Okay. Ci sto», mi dice semplicemente.
Io la guardo. Porta dei jeans skinny e un top scollato che mostra un accenno del reggiseno di pizzo nero che porta sotto.
Gesù. Sono abbastanza sicuro che questa sia la prima volta che vedo il solco fra i suoi seni. Balzo praticamente in piedi, come attratto da una ipnotica forza sessuale, finché non sono a un passo da lei.
«Sei…», le dico, senza riuscire a fermare il mio sguardo che le vaga per tutto il petto e le braccia. Il tessuto del top è sinuoso e supplica di essere toccato, tolto, preferibilmente con i miei denti.
«Questa è la cosa più carina che ho», mi dice mordendosi il labbro inferiore.
Mi schiarisco la voce. Ho l’uccello di cemento in questo momento e non me ne frega niente se se ne accorge. «È perfetta», riesco a dire alla fine incrociando il suo sguardo. «Sei fantastica».
Lei distoglie timidamente lo sguardo. «È solo un top economico che ho preso da H&M».
«Sei bellissima», le dico con enfasi.
«Oh be’, grazie», risponde e noto che si è messa un po’ di trucco, non solo per coprire i lividi, ma ha aggiunto anche un po’ di eyeliner sfumato che la fa sembrare un po’ più grande e decisamente più sexy.
D’altro canto, penso anche che non ci sia niente di più sexy di Ella di prima mattina, mentre cammina per il corridoio con la vestaglia morbida e le ciabatte, con la faccia pulita, gli occhi assonnati e i capelli lunghi e biondi che le ricadono sulle spalle tutti in disordine. Sembra sempre che durante la notte sia stata scopata per bene.
Inizio a pensare che dovrei fare qualcosa affinché sia io a farla apparire così.
Ora che è pronta, non perdiamo tempo. Jane e Ottar rimangono a casa e quindi c’è solo Einar ad accompagnarci a Oslo.
Sembra quasi un appuntamento mentre ce ne stiamo seduti sul sedile posteriore dell’auto e io discuto con me stesso sul prenderle o meno la mano. Tuttavia, so che a questo punto non ho nient’altro da perdere. Il tempo sta scadendo e, ad ogni secondo che passa, so come finiranno queste due settimane.
Le prendo la mano e, anche se trasalisce al contatto, non la ritrae. Mi permette di tenerla lì, tra noi due, sul sedile di mezzo.
Anche se la macchina è lunga ed Einar sta davanti, abbasso la voce e canto piano: «Quiz tiiiiime».
Lei mi rivolge uno sguardo che dice: Sul serio? Qui?
Io proseguo. «Ti piace? Che io ti tenga la mano?».
Lei mi fissa con occhi sgranati e le sue sopracciglia si muovono rapide mentre lotta di nuovo tra risposte diverse. Alla fine, però, annuisce e dice piano: «Sì».
Vorrei che aggiungesse qualcos’altro ma non penso che otterrò molto altro.
Per il momento, sento di aver ottenuto una vittoria. La battaglia non è finita ma è un grosso passo in avanti per noi. Chi diavolo avrebbe mai pensato che un giorno tenere la mano a una ragazza per me sarebbe stato come scoparmela? Però è la verità. Tenere la mano di Ella è come afferrare il sole.
Ci infiliamo tra le strade buie e umide al centro di Oslo ed Einar parcheggia all’angolo del bar.
«Ti manca questa zona?», mi chiede Ella. Le tengo ancora la mano mentre camminiamo lungo la strada quasi deserta, mentre Einar ci segue.
«Sono passati solo dieci giorni», le dico.
«Lo so. Però, in qualche modo mi sembra una vita».
Capisco cosa intende. La tenuta si è trasformata in una specie di curvatura spazio-temporale. «Ti manca l’università?», le domando.
Lei ci pensa su. «Sì e no. Mi mancano le lezioni, imparare cose nuove. Non mi manca vivere lì. Ero piuttosto sola».
Mi si spezza un po’ il cuore per la sua ammissione. Non voglio che questa ragazza si senta sola, non dopo quello che ha passato. «Che mi dici di Jane? Dovrebbe aiutarti. Siete molto legate».
«Sì, infatti». Mi sorride leggermente. «È la persona più cara che abbia. Però, sai, viene comunque pagata da mio padre. Lui le dà uno stipendio per tenermi d’occhio, quindi, per quanto siamo vicine, mi chiedo che succederebbe se venisse licenziata o se mio padre decidesse che non serve più. Rimarrebbe ancora con me? Forse no».
«Sono sicuro che lo farebbe».
«Ottar lo farebbe?».
Rido piano. «Ottar se ne andrebbe così in fretta che sarebbe come in quei cartoni in cui si vede un buco a forma di Ottar nel muro».
Lei ridacchia. «Capisco».
Ci fermiamo fuori al bar di Harold. La vetrina anteriore ha il vetro satinato, quindi non si può vedere l’interno da fuori. Sopra c’è scritto “Harold’s” con una pittura dorata e scrostata.
«Comunque», le dico attirandola a me prima di aprire la porta. «Potrei avergli detto che siamo già fidanzati».
«E perché lo avresti fatto?», mi chiede con voce strozzata.
«Ehi, non è peggio di quello che hai detto a tuo padre», le ricordo. «Diciamo che mi sentivo ottimista».
«Ti senti ancora ottimista?».
Le sollevo la mano in modo da metterla tra i nostri due petti. «Il fatto che tu mi abbia permesso di tenerti la mano per tutto questo tempo mi dà ragione di esserlo».
Poi apro la porta.
«Prince», dice allegramente Harold e poi smette di strofinare il bancone del bar non appena vede Ella. «E chi abbiamo qui?».
«È lei?», chiede Slender Man dal tavolo, con una voce così acuta e ansiosa che quasi mi aspetto che inizi a battere le mani. «È la tua fidanzata?»
«È lei», rispondo fieramente. «Questa è la futura Principessa Isabella di Norvegia».
Maud si alza barcollando dalla sedia e si avvicina per esaminarla, scrutando Ella da vicino.
«Ti sei fatta una bella guardata, Maud?», le domando e poi realizzo che ho parlato in norvegese e passo all’inglese. «Ella viene dal Liechtenstein», dico mettendole una mano dietro la schiena e guidandola verso il lato del bancone più lontano dalla porta. «Quindi non sa ancora molto norvegese, a parte qualche parolaccia. Ma non preoccupatevi. Farò in modo di insegnargliene altre».
La presento a tutti e, una volta entrato anche Einar, vado alla porta e la chiudo a chiave, spiegando ad Harold che, poiché il fidanzamento è ancora un segreto, non possiamo rischiare che qualcuno lo scopra.
«E non ti preoccupare, tesoro», dice Maud a Ella tra un sorso di martini e l’altro. «Non lo diremo ad anima viva. Tutte le anime che conosciamo sono morte o sono qui dentro». Poi si lancia in un lungo discorso su tutti gli amanti che ha avuto e che sono morti, su tutte le stelle del cinema che sono morte, su tutte le persone che probabilmente moriranno presto e così via.
Per fortuna Ella è ammaliata dalle storie di Maud sulla vecchia Hollywood, anche se sono un po’ macabre. Poi si alza per parlare con Guillermo e raccontargli di lei e alla fine si siede addirittura con Slender Man per fargli delle domande.
Credetemi, di solito Slender Man parla e parla e, quando lo fa, crea una sorta di enorme buco nero che risucchia la vita da te e dalla stanza, finché non rimani schiacciato dal peso della sua sorte e della sua vita orribili.
Di conseguenza, nessuno chiede mai a Slender Man come sta perché, credetemi, non volete saperlo.
Comunque, forse Ella sta bevendo più del normale oppure è solo troppo felice di essere fuori da quella casa, però è davvero interessata a quello che lui ha da dire. E, per una volta, il suo buco nero di disperazione non ha alcuna possibilità contro il suo raggio di sole etereo. È come guardare Galadriel fare una seduta di psicoterapia con Sauron ed è come se riuscisse davvero a capirlo.
Cazzo, sono contento che Ella non possa vedere i miei pensieri. Non so se essere un fan sfegatato del Signore degli anelli sia un punto a mio favore o no.
Più tardi, durante la serata, Harold si sporge sopra il bancone, mi fissa con l’unico occhio buono e mi dice: «Io l’approvo».
«Sì?». Sono qui a guardare Ella che fa ridere Slender Man. Tutti nel bar trasaliscono a quel suono perché nessuno l’aveva mai sentito. Sembrava il verso di un gatto strangolato, ma era pur sempre una risata.
«È intelligente, è una delizia, è molto bella», mi dice. «Penso che andrà bene per te. Sono contento che tu abbia deciso di portarla qui, soprattutto dopo tutto quello che ci hai detto di lei».
Suppongo di aver parlato abbastanza di Ella durante le mie serate lì.
«Sai», gli dico lentamente, cercando di capire il modo giusto di esprimermi. «Anche se ci sposeremo, a volte mi chiedo se lei voglia davvero farlo per me. O se lo faccia per altri motivi».
Guardo Harold con attenzione perché è abbastanza vecchio da aver dimenticato le bugie bianche e come si risparmiano i sentimenti di una persona. I vecchi brandiscono la schiettezza come una spada.
Tuttavia, non riesco a leggere niente di negativo sulla sua faccia segnata dal tempo. «Le donne come Ella non fingono. È onesta e sincera, quella lì. Penso che, se vuole sposarti, vuole sposarti per davvero. Non si può fingere l’amore».
Il mio sorriso è teso. Qui Harold si sbaglia. Non c’è amore tra di noi e, se le cose procederanno come dovrebbero, come spero, allora ci ritroveremo entrambi in un mondo di finzione. Tutto ciò che legge sul suo viso e che riguarda me è del tutto falso.
Per il momento, comunque, decido di tenere le parole di Harold nel cuore e per il resto della serata fingo anche io. Fingo che ogni volta che Ella mi guarda dall’altro lato del bar e mi sorride significhi qualcosa. Che io per lei significhi qualcosa.
Non avevo mai creduto che una cosa così semplice come l’avere una persona che vuole te e solo te potesse significare tanto. Le relazioni, il matrimonio… Inizio ad abituarmi. Inizio a capire che l’orribile situazione in cui mi sono messo dopotutto potrebbe non essere così orribile.
Purché si tratti di Ella.
Quel pensiero mi provoca una fitta al petto.
Deve essere lei.
Non funzionerà con qualcun’altra.
Finiamo per rimanere lì molto oltre il normale orario di chiusura: Guillermo e Slender Man se ne sono andati un secolo fa e Maud si è addormentata e russa sul bancone.
Einar controlla che la strada sia libera e poi Ella e io camminiamo incespicando fino alla macchina, ubriachi e accaldati, l’uno contro l’altra nonostante la notte uggiosa.
«Be’, è stato divertente», dice Ella. Si sposta in modo da mettersi sul sedile centrale e poggiare la testa sulla mia spalla. «Penso che non bevessi così da molto tempo. E anche che non parlassi così da tanto».
«Non riesco a credere che tu sia riuscita a far aprire Slender Man e a farlo stare allegro», le dico fissandole la testa e lottando contro il desiderio di darle un bacio. Vederla appoggiata sulla mia spalla mi dà calore in un milione di modi diversi.
«Si chiama Erik», mi sgrida e poi sbadiglia. «Ed è un soprannome orribile, il suo. Comunque, dove hai imparato l’inglese?»
«Al college. E grazie ai film sulla Scuola di Polizia».
«Tu non sei andato al college», mi dice dopo un attimo.
Io sorrido. «È una battuta di Fusi di testa».
«Quindi hai imparato l’inglese da Fusi di testa».
«Quel film mi ha aiutato a superare un momento difficile», ammetto con un sospiro.
Lei mi guarda inclinando la testa: gli occhi scuri sono pieni di dolcezza e le palpebre sono pesanti. Mi fissa per un attimo prima di sorridere lentamente. Vorrei che sapesse cosa mi fa quel sorriso. Forse lo sa.
«Che c’è?», le chiedo lentamente, innervosito per la sua attenzione.
«Non ho mai incontrato uno come te», dice con un tono stupito.
Inarco un sopracciglio. «Ti assicuro che ci sono un sacco di persone che citano ancora Fusi di testa».
«Non intendevo questo», ribatte lei.
La distanza tra di noi sembra diminuire, il mio respiro si fa più pesante e l’aria è carica di tensione. Con qualsiasi altra donna e in qualsiasi altra situazione l’avrei baciata da un pezzo. Ora sono paralizzato al solo pensiero. Non penso di aver mai voluto baciare tanto qualcuno e questo mi spaventa. E ciò che mi spaventa mi fa concentrare di più.
«Che intendi?», sussurro.
«Per tutto questo tempo, non ho mai pensato a te come a un principe».
Io mi acciglio. «Ti ringrazio. Credo».
«È una cosa positiva. Per lo meno per me. Ho sempre supposto che tu fossi come ti mostri in pubblico. Presuntuoso, egoista e arrogante».
«Significano tutti la stessa cosa. E penso di essere ancora così».
«Lo so», dice. «Ma non sei solo questo. Sei più intelligente di quanto sembri. Sei molto in gamba. Sei attento. Sei curioso e, oserei dire, bizzarro. Non conosco nessun altro che va ogni sera al bar per passare il tempo con un gruppo di vecchi. Ci sono molti più aspetti di quello del principe playboy che mostri in pubblico. Di fatto, penso che tu abbia dei lati che non mostri nemmeno a te stesso».
Dannazione. Il discorso qui in limousine si sta facendo profondo.
«Il che mi riporta al quiz tiiiiime», canta dolcemente e questo mi porta automaticamente a sorridere. «Dato che prima ho dimenticato di farti la mia domanda…».
«Spara».
«Al bar continuavi a guardarmi mentre parlavo con Erik. A che stavi pensando?».
Io rido piano. «Vuoi la verità?»
«Sì. È ovvio».
«Pensavo che sembravi Galadriel mentre tira su il morale a Sauron».
«Del Signore degli anelli?», mi chiede con un gran sorriso.
Annuisco. «È un altro lato di me che non conosci».
«Interessante. E di cosa parlavi con il barista? Sembrava che parlavate di me».
«È una domanda ufficiale?»
«No», risponde dopo un attimo stringendosi di più a me.
Io deglutisco a fatica. Dovrei tenere la boccaccia chiusa dato che non sono obbligato a rispondere.
Ma c’è una parte di me, quella coraggiosa che rincorre la paura, che danza con lei, che vuole che mi dichiari e parli in ogni caso.
«Gli stavo domandando se pensava che mi sposerai per amore o per altro. Se stessi mentendo».
Lei mi fissa. «Oh. E che ha detto?»
«Ha detto che sei il tipo di donna che non potrebbe mai fingere. Sei onesta e sincera in tutto e per tutto».
Il suo sguardo si abbassa. «Capisco».
«E lo so che non è vero», ammetto. «Però, cavolo, per un momento è stato davvero bello fingere».
«Fingere che cosa?». Adesso la sua voce si è fatta ancora più bassa.
«Che lo stiamo facendo perché lo vogliamo».
Sento che annuisce piano contro la mia spalla.
E poi scende il silenzio.
Sembra che le mie parole ricadano intorno a noi come pioggia fuori dall’auto, mentre veniamo riportati alla tenuta per nasconderci di nuovo.