CAPITOLO 7
Restò solo fino a sera. Venne soltanto il suo domestico, il giovane a cui voleva bene. Recò un pasto come piaceva all'imperatore quando era solo: un pasto da consumarsi rapidamente, da consumarsi con impazienza.
I miti occhi del giovane erano velati, teneva le palpebre semichiuse, il viso, di solito sano abbronzato e teso, appariva giallastro e improvvisamente segnato da numerose rughe. Pareva fosse reduce da un grande spavento o da una lunga faticosa camminata o da un sogno sconvolto. «Resta qui,» disse l'imperatore «mettiti a sedere, prendi quel libro» e indicò un tavolinetto carico di libri e carte geografiche.
«Leggimi qualcosa, al principio o nel mezzo, è indifferente».
Il domestico obbedì. Si sedette e cominciò a leggere. Era un libro sull'America, ed egli cominciò a leggere dalla prima pagina per rispetto del libro e anche dell'imperatore. Leggeva diligente e attento, con voce monotona, come aveva letto a scuola una volta da ragazzo, e s'impresse tutto nella mente, la natura del suolo, dei vegetali, degli uomini, lesse parecchie pagine senza osar alzare gli occhi, accorgendosi però che l'imperatore non sempre stava a sentire, si alzava e andava alla finestra, poi ritornava alla scrivania, e immaginando che dopo un po' l'imperatore avrebbe cominciato a parlare, s'inquietò e lesse sempre più velocemente. «Ora basta» disse l'imperatore. «Guardami!». Il servitore s'interruppe a metà di una frase. Guardò l'imperatore. «Hai pianto anche tu, figlio mio?» domandò l'imperatore.
«Sì, Maestà» e già sentiva che stava per piangere di nuovo.
«Vedi,» cominciò l'imperatore «sei giovane, non hai ancora afferrato l'ordinamento del mondo e le leggi della vita. Mettiti in mente quello che ti dico, ma non ripeterlo davanti a tutti e soprattutto non lo scrivere mai. Poiché un giorno, lo so, anche tu vorrai scrivere le tue memorie, lo vogliamo tutti, tutti noi che abbiamo vissuto qualche cosa.
Tieni dunque per te quel che ti dico: tutto obbedisce a leggi incomprensibili ma ben precise, le stelle, i venti, gli uccelli di passo, gli imperatori, i soldati, tutti gli uomini, tutte le piante. La legge secondo la quale ho agito io si è adempiuta. Ora finalmente voglio tentare di vivere. Hai capito?». Il domestico annuì. «Dimmi,» domandò l'imperatore «piangi per la mia sventura? Mi consideri uno sventurato?».
Il domestico si alzò, incapace di rispondere. Schiuse le labbra, tentennò, abbassò gli occhi e disse: «Maestà, so soltanto che io stesso sono molto infelice!». «Va' dunque!» ordinò l'imperatore. «Voglio star solo».
Ora che nella stanza non c'era più alcun rumore, riprese a udire le instancabili acclamazioni del popolo davanti al castello. La sera era ormai vicina e soltanto il popolo, il suo popolo, soltanto il popolo di Francia era così tenace nel suo amore. La gente sapeva già che non era più imperatore, ma poco si curava se aveva abdicato, e con la stessa nostalgia della sera in cui era ritornato continuava a gridare: «Viva l'imperatore!» come se egli non avesse perduto la più grande delle battaglie e la vita di tutti quei soldati. Non di tutti, pensò in quel momento. Il suo cervello militare, quasi contro la sua volontà, prese ancora una volta a calcolare - ah, quante volte già l'aveva fatto - che aveva ancora cinquemila e trecento uomini della Guardia, seimila fanti, settemila gendarmi, otto compagnie di veterani, c'era ancora l'armata del generale Grouchy, e in un baleno l'imperatore dimenticò la lunga giornata trascorsa, la sua rinuncia al trono, i suoi progetti. Udiva soltanto il grido: «Viva l'imperatore!», il clamore insistente del popolo, era di nuovo l'imperatore Napoleone. Corse verso la scrivania, stese precipitosamente le carte, mai la sua testa, così gli parve, aveva lavorato così svelta e sicura, certi errori commessi gli parevano abbagli puerili, ridicoli, non capiva più perché era stato così cieco, d'un tratto si sentì addirittura illuminato, come in virtù di una grazia, sentiva di indovinare o meglio di conoscere i piani del nemico, lo adescava, lo aggirava, lo tradiva, lo irretiva, lo batteva e rovinava, il Paese era finalmente libero ed egli continuava a trionfare sui nemici ben oltre le frontiere, già arrivava alla costa, l'Inghilterra fuggiva sulle sue navi verso le rive sicure dell'isola, e quanto tempo sarebbe stata ancora al sicuro da lui? Un giorno avrebbe attraversato anche il mare, l'elemento perennemente ostile, ma talvolta anche benigno, e si sarebbe preso la sua vendetta. Oh, vendetta, dolce vendetta!
Imbruniva, ma l'imperatore studiava così assiduamente le carte che quasi non se ne accorse - di fatto non studiava le carte, ma vedeva i villaggi, vivi e reali davanti ai suoi occhi, i casolari, le strade, le colline, il campo di battaglia, tutti i possibili e futuri campi di battaglia, molti, mille campi di battaglia, ed ecco che tutti risorgevano, i cari commilitoni della sua giovinezza, i fratelli caduti, generali e granatieri, la Morte glieli restituiva, non aveva più bisogno di nessuno, proprio di nessuno, gli bastavano, per vincere, i morti che erano ritornati. Era la più grande battaglia della sua vita, la più stupenda e meravigliosamente congegnata, la vittoria era un gioco, quasi aggraziata pur nella sua spaventosità.
Qualcuno bussò ed egli si riscosse. Gli annunciarono il ministro Carnot.
Recarono due candelabri con le candele che ardevano. Venne acceso il lampadario. Il ministro entrò. «Mi avete disturbato» disse l'imperatore.
«Chiedo perdono, Maestà».
«Vi perdono, ma mi avete distrutto la più bella battaglia. Posso ancora vincere. Posso cacciarli fino alle frontiere. Non mi occorrono più soldati di quelli che ho a disposizione. Posso vincere!».
«Troppo tardi, Maestà. Vi sarà vietato di rimanere qui. Se arrivano i nemici sarete in pericolo. I ministri non sono in grado di garantirvi la vita. Dovete andarvene!».
All'improvviso ci fu un gran caldo nella stanza, l'imperatore aprì lui stesso una delle finestre e il grido tonante della folla lo investì con forza infinita: «Viva l'imperatore!».
Senza voltarsi (volgeva le spalle al ministro e le sue orecchie assorbivano l'amoroso, amato, strepitante grido della folla) disse a gran voce: «Dunque devo andar via. Devo dunque andar via, nonostante tutto!».