CAPITOLO 15

 

Così, in quella maniera solenne, l'imperatore aveva assicurato la libertà al popolo di Francia. Sembrava quindi che non fosse più l'imperatore violento di una volta. Ma nel Paese la gente udiva soltanto il fragore delle armi, il canto dei soldati, dei veterani che dopo lunghi mesi ritornavano nelle caserme, e il canto delle giovani reclute.

Non c'era alcun dubbio, l'imperatore richiamava l'esercito. La gente non credeva più nei giornali i quali scrivevano che tutte le potenze del mondo volevano riconciliarsi presto con l'imperatore. Le menzogne svolazzavano sopra città e villaggi, colombelle fatate, false, multicolori, si levavano a stormi dai giornali, uscivano dalle labbra degli ipocriti, delle spie, dei chiacchieroni e dei saccenti.

Volteggiavano anche sopra le teste dei soldati che da ogni parte avevano ricevuto ordine di marciare verso la capitale, per proseguire poi verso nord-ovest. Dunque ci sarebbe stata la guerra e quelle svariate notizie multicolori altro non erano che bugie. Purtroppo, il popolo francese conosceva i segni che precedono la guerra. Da un giorno all'altro un grande sgomento si diffuse di colpo in ogni parte del Paese. Le colombelle di vario colore, le menzogne che spacciavano la pace non volteggiarono più nell'aria. Erano scomparse nel grande sgomento, nel crudele silenzio entro cui si annunciava una e una sola verità: la verità della guerra imminente. Di notte si accendevano i fuochi di guardia dove i soldati sostavano durante la marcia verso nord-ovest. Al mattino i tamburi rullavano attraverso la campagna. I soldati marciavano per le strade asciutte, torride, tra campi in fiore essi vedevano maturare il pane e si domandavano se un giorno l'avrebbero anche mangiato. Potevano essere morti prima che quel grano fosse macinato, potevano essere sotto quella terra a concimare i campi... i campi di chi? E i veterani che avevano già partecipato alle molte guerre dell'imperatore pensavano ai loro commilitoni rimasti in terra straniera. I veterani si conoscevano tutti. E si distinguevano dagli altri perché discorrevano nel proprio gergo, quel gergo che tutti i soldati del mondo imparano soltanto davanti alla morte. Avevano migliaia e migliaia di ricordi in comune. Burrasche e solleone, luna piena e mattino, mezzogiorno e sera, un'immagine sacra e una fontana, un pagliaio e una mandria di buoi, tutto vedevano con occhi diversi da quelli dei giovani. «Ricordi» erano in grado di dire l'uno all'altro «quella volta in Sassonia? C'era una fontana dove noi della Terza Compagnia si dovette aspettare due lunghe giornate balorde e maledette».

- «Sì, sì,» rispondeva l'altro «quella fontana la ricordo, era a tre miglia da Dresda». - «Che bontà la salsiccia di Eylau!» diceva uno. E l'altro: «Certo, certo, ma anche questa di salsiccia viene da un cavallo in gamba». - «Quella volta era il cavallo di un colonnello». - «Questa è soltanto il cavallo di un capitano». - «Ma dove è andato a finire quello stupidello di Desgranges?». «Nella Beresina, credo. Una vecchia carpa se l'è inghiottito, tanto era piccolo!». - «E il caporale Dupuis?». - «Ad Austerlitz, perbacco! Hai perso la memoria? Hai dimenticato anche il buon Dupuis?».

 

Di questi discorsi le giovani reclute non capivano niente. Sapevano soltanto che anche loro andavano a morire. Forse, pensavano, era facile per i vecchi andare a morire, perché conoscevano l'imperatore. Per loro vicina era la vita, un estraneo, invece, l'imperatore. Perché voleva la guerra? Perché e dove dovevano marciare?

 

Eppure marciavano, nonostante tutto marciavano e marciavano. E quando attraversavano Parigi, passando davanti al castello dove risiedeva l'imperatore, gridavano: «Viva l'imperatore!».

 

Egli però, l'imperatore, era solo. Solo più che mai, stava davanti alle grandi carte colorate e confuse, alle sue carte dilette. Abbracciavano tutto il vasto mondo. E il mondo, vasto com'è, era tutto un campo di battaglia. Ah, quant'era facile conquistare il mondo, bastava guardare le carte che lo rappresentavano! Ogni fiume era un ostacolo, il mulino un caposaldo, il bosco un nascondiglio, la collina un osservatorio, la chiesa un obiettivo, il ruscello un alleato, e tutti i campi del vasto mondo, tutti i prati e le steppe, che magnifici teatri di magnifiche battaglie! Erano belle, le carte! Rappresentavano il mondo meglio dei dipinti. A guardarla bene sulle carte topografiche la terra sembrava piccola, sì da lasciarsi percorrere in fretta, tanto in fretta quanto esige il tempo, la pendola dal ticchettio inesorabile, la sabbia che scorre senza requie...

 

L'imperatore tracciava sulle carte croci, stelle, linee, con la circospezione con cui giocava a scacchi. Qua e là segnava un numero: qui i morti, là i sopravvissuti, qui i cannoni e là i cavalleggeri, da una parte le salmerie, dall'altra la sanità. E cavalli, sacchi di farina, botti di grappa, nemici, uomini, cavalli, ancora grappa, montoni, buoi e uomini, uomini, uomini, ancora e ancora uomini.

 

Qualche volta si alzava lasciando la scrivania e le carte, apriva la finestra e guardava la piazza, la grande e vasta piazza dove una volta, piccolo ufficiale sconosciuto, aveva comandato molti soldati sconosciuti. Ora i piccoli soldati marciavano a migliaia verso nord-ovest. Egli tendeva l'orecchio ai loro canti. Udiva i loro tamburi.

Erano proprio loro, i vecchi tamburini. Sentiva il loro passo saldo e veloce. Era il passo stupendo, svelto e vittorioso dei Francesi, il ritmo dei piedi validi e veloci che erano passati per le strade di mezzo mondo: piedi coraggiosi, i piedi dei soldati imperiali, ancora più utili e necessari delle mani.

 

In quei momenti ascoltava avidamente il grido: «Viva l'imperatore!». E tornava a sedersi allegro alla scrivania, davanti alla carta dove segnava qua e là i suoi numeri con inchiostro rosso, color del sangue.

Indicavano cavalli, grappa, buoi, carri, cannoni, soldati, soldati che in quel momento marciavano davanti al castello e gridavano: «Viva l'imperatore!».