CAPITOLO 2
A Parigi! Era questa l'unica chiara risoluzione dell'imperatore. Uno dei generali gli cavalcava al fianco. Benché tutto il seguito sapesse già che aveva deliberato di tornare a Parigi, l'imperatore ripeté: «A
Parigi, generali!». «Agli ordini, Maestà!» disse l'ufficiale.
L'imperatore tacque per un bel pezzo. Il nuovo giorno si annunciava radioso e trionfale. Dall'alto azzurro scendeva il giubilo spensierato delle allodole invisibili, da lontano l'eco debole e smorzata dei soldati in marcia. Si udiva un malinconico sbatacchiare di armi, un nostalgico e stanco nitrire di cavalli, un brusio di voci umane che ora si spegneva e subito dopo si rafforzava, e ogni tanto un grido forte e rapido che somigliava a una bestemmia. Le truppe si trascinavano disordinate, sbandando a destra e a sinistra, in mezzo a campi e prati.
L'imperatore teneva la testa bassa. Si sforzava di non vedere altro che l'argentea criniera svolazzante del suo cavallo e il pallido nastro grigio della strada sulla quale cavalcava. In quella vista si era addirittura sprofondato. Ma contro il suo volere i tristi rumori gli arrivavano da entrambi i lati e a lui sembrava che le armi dell'esercito gemessero miseramente, piangessero, armi buone e forti, ma battute, vergognose, umiliate. Sapeva anche che, se pure fosse vissuto altri cent'anni, mai avrebbe dimenticato quel pianto di armi e cavalli, né il sospiro e il gemito dei carriaggi. Poteva bensì distrarre lo sguardo dai soldati. Ma il suo cuore sentiva comunque il gemito metallico delle armi. Per far credere a se stesso e agli altri che malgrado tutto intendeva ancora intraprendere qualcosa, comandò di istituire posti di guardia, di fare attenzione ai disertori, di arrestare e punire i fuggiaschi e coloro che abbandonavano la via tracciata. Ma non pensava affatto a quei suoi ordini superflui, mentre si affannava a emanarli a destra e sinistra. Pensava a Parigi, al ministro della Polizia, ai deputati, a tutti i veri nemici che in quel momento gli sembravano ancora più pericolosi dei Prussiani e degli Inglesi. Ordinò due volte l'alt perché aveva deciso di arrivare durante la notte. A Laon, davanti alla piccolissima stazione di posta, trovò gente, funzionari e ufficiali della Guardia nazionale, cittadini curiosi dalla faccia campagnola e bonaria. Tutto era tranquillo, il cielo si andava oscurando a vista d'occhio, i cavalli alla cavezza nitrivano davanti alla posta, contenti dell'avena che avevano ricevuto, un branco di oche passò schiamazzando per raggiungere in fretta il ricovero, da lontano giungeva il muggito pacifico delle mucche, il gaio schiocco di una frusta da pastore, un profumo dolce di lillà e ippocastani, insieme con quello acre di concio, fieno e letame. Nella stanza bassa della stazione si diffondeva già il grigiore del crepuscolo. Qualcuno accese l'unica lanterna con tre candele. All'imperatore sembrò che così la stanza diventasse ancora più buia. Si recarono allora altre quattro lanterne a vento chiuse. Quattro soldati si misero ai quattro angoli della stanza, immobili, reggendo le lanterne. L'ampia porta a due battenti della stazione di posta era spalancata, e proprio dirimpetto a essa, sulla panca levigata destinata ai viaggiatori e alla gente in attesa della prossima vettura, era seduto l'imperatore. Stava a gambe divaricate, i calzoni bianchi erano macchiati e anneriti in alcuni punti, gli stivali sporchi di fango.
Teneva le mani appoggiate sulle cosce robuste e la testa china. La luce lo investiva da quattro parti e dalla lanterna appesa nel mezzo. Era seduto proprio di fronte alla porta aperta, e tutti gli abitanti di Laon erano là fuori e fissavano l'imperatore. Egli aveva l'impressione di essere sul banco degli imputati e che gli stessero facendo un processo muto e terribile. Aveva l'impressione che dovessero di lì a poco pronunciare una sentenza contro di lui, una sentenza muta e terribile, e intanto si consultassero, senza fiato, senza voce, per poter emettere quella sorda, muta, terribile sentenza. Fissò a lungo il pezzetto di pavimento tra l'uno e l'altro stivale, due assi strette e sudicie. Pensò a Parigi e al ministro della Polizia e a un tratto ricordò il crocifisso infranto, quello che aveva fatto cadere nel suo castello, di modo che le due assi grigie e sudicie si trasformarono di colpo nelle assicelle bruno-dorate dell'impiantito della sua stanza, mentre annunciavano il ministro Fouché e uno stivale nascondeva i frammenti della croce d'avorio. L'imperatore si alzò, non riusciva più a star seduto. Cominciò a camminare su e giù, su e giù, su e giù per la stanzetta bassa della stazione di posta, non sentiva alcun rumore dalla gente che numerosa si accalcava di fuori, davanti alla porta aperta, eppure era in attesa di una voce umana qualsiasi. Il silenzio era terrorizzante e l'imperatore aspettava soltanto una parola, non un grido, non un'acclamazione, bensì una parola, un'unica umana parola. Non venne nulla. Camminava su e giù fingendo di non sapere che la gente fuori della porta lo vedeva, ma essere visto gli faceva male. E quel silenzio mortale che spirava dalla gente, la loro immobilità, la loro instancabile pazienza nel tener fisso lo sguardo su di lui, i loro occhi tranquilli e la loro immensa tristezza suscitarono nell'imperatore un terrore mai provato. Insieme con lui si era alzato, claudicante e taciturno, anche il generale, il suo aiutante, la sua ombra. Zoppicava dietro di lui, esattamente a tre passi di distanza. A un certo punto l'imperatore si volse verso la porta aperta. Rimase fermo un attimo, come se aspettasse il consueto grido: «Viva l'imperatore!», quel grido così caro alle sue orecchie, quel grido che così teneramente accarezzava il suo cuore. L'imperatore si portò sulla soglia. I lumi della stanza gli illuminavano le spalle e la gente in attesa di fuori non poteva vederlo in viso. Quelli che erano fuori vedevano soltanto la luce sopra le spalle dell'imperatore. Il suo viso, invece, rivolto verso di loro, si confondeva con la tenebra azzurra della notte estiva che ormai stava scendendo. Parve allora che la gente, già tanto tranquilla, si facesse ancora più silenziosa. I grilli notturni cantavano forte nei campi. Già luccicavano le stelle in cielo, argentee e benigne. L'imperatore era fermo sulla porta dai battenti spalancati: aspettava. Aspettava una parola, una qualsiasi parola. Era abituato alle acclamazioni, a sentir gridare «Viva l'imperatore!». Ora invece era il nero silenzio della gente e della notte a venirgli incontro, e persino le buone stelle d'argento gli parevano infastidite e ostili. Davanti a lui uno dei contadini nella prima fila, a capo scoperto, dal viso semplice che la notte chiara rendeva ben visibile, disse a voce alta al suo vicino: «Questo non è l'imperatore Napoleone!
Questo è Giobbe, non l'imperatore!». L'imperatore si volse immediatamente e «Avanti, avanti!» ordinò al generale Gouraud.
E montò in carrozza. «E' Giobbe, è Giobbe!» risuonava nelle orecchie dell'imperatore.
«E' l'imperatore Giobbe» rispondevano le ruote.
L'imperatore Giobbe era in viaggio per Parigi.