CAPITOLO 18

 

Veronica Casimir serbava un ricordo pieno di gratitudine e venerazione per la sua padrona, la beata imperatrice Giuseppina che spesso le appariva in sogno. Una volta era stata semplice lavandaia, ma fin dalla prima giovinezza era già una cartomante straordinaria. Quando il grande imperatore era ancora console, Veronica Casimir aveva letto nelle carte che era destinato a portare una corona. Da allora le erano stati tributati molti onori, addirittura più alti, sosteneva lei, che a un qualsiasi dignitario, ministro o maresciallo che fosse. Occasionalmente veniva invitata a predire il futuro all'imperatore. Era prima lavandaia della corte imperiale. A lei era toccato il compito di provvedere alle camicie di seta azzurra e ai fazzoletti di pizzo della prima imperatrice, alle più resistenti camicie di seta bianca e ai fazzoletti di batista della seconda. Leggeva le sorti della casa imperiale dalle carte, talvolta anche dalla biancheria che le veniva consegnata ogni sera. Sottostavano ai suoi inflessibili ordini trentasei tra lavandaie e inservienti di toilette. Amava l'obbedienza militare, e nei lunghi anni del suo servizio aveva imparato a esercitare le virtù del silenzio e della discrezione, benché per indole fosse loquace e persino chiacchierona.

 

Ogni sera prima di andare a dormire e dopo aver distribuito i capi di biancheria alle donne e agli uomini a lei subordinati, si sedeva al grande tavolo che a quell'ora si ergeva, solitario e solenne, nel refettorio comune, ormai silenzioso. Il fatto è che aveva bisogno di moltissimo spazio, giacché lavorava con più mazzi di carte diverse secondo un sistema complicato. Qualche volta a tarda ora si univano a lei anche i domestici. Il tavolo nero di ebano, lungo e stretto, col piano levigato e lucido, era tetro e sinistro, quasi un catafalco.

Veronica Casimir si sedeva e disponeva le carte. Dai diversi campanili si udivano i rintocchi della mezzanotte. A quel punto lei si interrompeva e aspettava che tutte le campane si fossero smorzate.

Infine raccoglieva alla rinfusa i diversi mazzi di carte, li legava con un vecchio spago bisunto e si alzava senza dire una parola. Nessuno, d'altronde, le chiedeva nulla. E solo di rado lei rivelava i segreti del mondo superiore col quale intratteneva così intimi rapporti. Fin da quando l'imperatore era tornato, Veronica aveva atteso che egli la chiamasse. Cominciò allora a non interrogare più le carte riguardo alle sorti dell'imperatore, bensì alle proprie, a chiedere cioè se l'imperatore non l'avesse dimenticata durante la sua assenza. «No!» fu la risposta delle carte.

 

Eppure, ora, quando le fu ordinato di presentarsi al suo cospetto, fu sorpresa e quasi spaventata. Era nella grande lavanderia, circondata dal personale, nell'ora in cui soleva radunare i subalterni, aspettava gli inservienti con le ceste della biancheria e teneva in mano il foglio sul quale erano segnati gli ordini, gli incarichi, i moniti, le osservazioni. Senza por tempo in mezzo corse in camera sua. Aveva una mezza rampa di scale da salire e le sue gambe corte e grassocce fecero i gradini a due per volta. Entrata nella stanza, si precipitò verso lo specchietto ovale sul tavolo, tra i due candelieri, accese le candele, si mise in testa una cuffia inamidata di fresco, si sedette e con le dita corte e robuste prese a incipriarsi il viso grasso e giallastro. Si spruzzò sul petto qualche goccia di lavanda che prese dalla sacra boccetta regalatale un giorno dalla sua signora, la prima imperatrice Giuseppina, e tutta soddisfatta si alzò in una bianca nuvoletta di profumo e di cipria, un vero splendore. Tolse dalla valigia i mazzi di carte con gesto irruente e sicuro, quasi bellicoso, come il soldato afferra le armi quando è chiamato a un'improvvisa tenzone. Adesso sì era pronta.

 

Dopo molti mesi si ritrovò davanti al suo imperatore. Era seduto alla scrivania, davanti alle carte topografiche complicate e variopinte che lei aveva già visto qualche volta, quando prima delle grandi campagne aveva avuto la grazia di essere chiamata e interrogata da lui. Tentò la riverenza che le dame erano solite eseguire al cospetto dell'imperatore: con ambo le mani allargò la gonna, spinse un piede all'indietro, l'altro avanti, provò a scivolare di un passo in quella difficile posizione e a piegare leggermente un ginocchio, e quando fu convinta di aver eseguito tutto questo con la dovuta grazia rimase in piedi, grassa e ritta, lo sguardo chino e vergognoso. Le finestre erano aperte. La tarda ombra verde e oro della sera estiva entrava nella stanza e gareggiava con le fiammelle inquiete delle tre candele, di un bel giallo carico. Si sentiva il respiro sommesso del vento e l'assiduo e rumoroso bisbigliare dei grilli.

 

«Venite qui!» comandò l'imperatore. Lei si affrettò ad accostarsi alla scrivania. Caracollò fino a lui, grassa, dignitosa, sottomessa. Come aveva desiderato quel momento! Già nel fremito di riverenza che l'aveva presa faccia a faccia con l'imperatore, alla vista di quelle complicatissime carte topografiche distese sul tavolo, ella sentì tutta la propria importanza, sentì un brivido di fronte a se stessa e al nobile ed eccelso significato del suo strumento, le carte da gioco.

Tremava al pensiero che le proprie carte non fossero meno importanti delle carte topografiche dell'imperatore, anzi, erano forse persino più importanti, e tremava di fronte al proprio compiacersi per il fatto che il più grande di tutti gli imperatori del mondo capisse tanto poco del segreto delle carte sue, di Veronica, quanto lei del segreto di quelle geografiche di lui. In quel momento era forse chiamata a determinare le sorti del mondo, come faceva di solito soltanto l'imperatore. Stava dunque là, rabbrividendo, con un senso di sgomento e di rispetto non solo per l'imperatore, ma anche per se stessa. Abbassò gli occhi. Lo sguardo cadde sul suo petto abbondante, più in basso non poteva andare, eppure avrebbe voluto guardare a terra per umiltà e orgoglio oltre che per imbarazzo. Attraverso le palpebre abbassate sentiva lo sguardo beffardo e sorridente dell'imperatore. Come i soldati teneva le braccia abbassate sui grossi fianchi, più in giù le sue mani non potevano arrivare. Preferiva - e anche le occorrevano - i tavoli lisci su cui non doveva esserci nulla, e avrebbe voluto pregare l'imperatore di togliere quelle carte che la confondevano, ma non osava.

 

«Avanti dunque!» ordinò l'imperatore.

 

L'oscurità si faceva sempre più fitta nella stanza; le poche candele diffondevano adesso una specie di luce macabra e consolidavano il coraggio e la fede dell'attempata Veronica nella sua profetica missione.

Finalmente osò alzare gli occhi. Vide il volto cereo dell'imperatore, e su quel volto un sorriso pietrificato: il cadavere di un sorriso.

Fiduciosa e senza titubanza cominciò a disporre le proprie carte da gioco bisunte sopra le carte topografiche multicolori dell'imperatore.

Si sforzò di dimenticare che si trovava davanti al più potente di tutti gli imperatori, e pensando invece che era qui al servizio del mondo superiore, sussurrò: «Per favore, Maestà, alzate tre volte!».

L'imperatore alzò tre volte. Dal dorso scivoloso delle carte turchine veniva il riflesso delle fiamme inquiete delle candele. E Veronica mormorò:

Che è per me sola, quel che s'invola, che mi riguarda, che viene o tarda, che mi vuol bene, tra pianti e pene.

 

Rimescolò velocemente le carte con le sue dita corte e agili la cui destrezza aveva più volte sbalordito l'imperatore. «Per favore, Maestà, alzate ancora sei volte!» disse. L'imperatore alzò sei volte. Intanto pensava alla prima moglie, la defunta Giuseppina, e alle sere in cui lei aveva cercato di scrutare il destino proprio e il suo, ma anche le sorti del Paese e del mondo, nelle carte bisunte di quella Veronica, con la sua poca esperienza e muovendo le lunghe, affusolate dita che lui amava tanto. Non pensava più alle carte. Si perdette nei dolci ricordi della donna perduta. Sorrise. Non udì nemmeno il mormorio di Veronica:

Picche a destra, via ti sbalestra, nei quadri neri, brutti pensieri; asso a sinistra, male registra; fante di cuori, amori, amori; otto di fiori, otto di fiori...

 

Si interruppe. A un tratto raccolse le carte. Fissò l'imperatore. Il suo sguardo era lontano e pareva attraversare la persona massiccia di lei, e vedere il mondo o forse il sepolcro dove la cara imperatrice Giuseppina ora avvizziva e si decomponeva. Senza parlare, con la mano sinistra Veronica si stringeva convulsamente al petto le carte. Ora l'imperatore la guardò, ironico e sorridente: «Ebbene, Veronica,» domandò «bello o brutto?».

 

«Bello, bello, Maestà» rispose lei sollecita. «Lunghi anni attendono ancora Vostra Maestà, lunghi anni!».

 

L'imperatore aprì un cassetto. Dentro c'erano pile di monete d'oro, lustre e luccicanti torrette d'oro. Da una delle torrette l'imperatore tolse dieci monete, tutti napoleoni. «Tenete, per ricordo» disse l'imperatore.

 

La porta si aprì. Veronica si ritrasse frettolosa camminando all'indietro, cercando spasmodicamente di trattenere il fiato grosso.

Quando sentì alle spalle che la salvezza, cioè la porta aperta, era vicina, tentò ancora una volta la sua goffa e ridicola riverenza. Appena fu uscita, la porta si chiuse. Per la terza volta si inchinò davanti alla porta chiusa. Lesta e fiera, dondolò poi giù per la scala. Sul penultimo gradino si dovette però fermare. Era la prima volta in vita sua che si sentiva svenire. Le pareva che la ringhiera alla quale si voleva aggrappare si allontanasse. A un tratto cadde maldestramente con un pesante tonfo. Due soldati della Guardia la sollevarono. Venne portata nel parco. Rinvenne, vide i soldati, si rizzò e disse: «Dio ci aiuti tutti... e specialmente lui!».

 

Poi si ritirò ansando nel grande refettorio della servitù. Era tardi.

Già si portavano in tavola le vivande.