25

 

 

 

Quando uscii, cominciava appena a far giorno. C’era anche un gran freddo, ma sudavo talmente che mi fece piacere.

Non sapevo dove diavolo andare. Non volevo andare in un altro albergo per non spendere tutti i soldi di Phoebe. Così andò a finire che mi feci tutta la strada a piedi fino a Lexington e presi la metropolitana fino alla stazione centrale. Là c’erano le mie valige e compagnia bella e pensai di dormire in quell’idiotissima sala d’aspetto dove ci sono tutte le panche. E feci proprio così. Per un po’ non fu tanto male perché c’era poca gente e potei stendere le gambe. Ma non mi va di parlarne. Non è stata una cosa piacevole. Non ci provate. Dico sul serio. Vi deprimerà.

Dormii soltanto fin verso le nove perché allora la sala d’aspetto fu invasa da milioni di persone e io dovetti tirar giù le gambe. Non riesco a dormire bene se devo tenere i piedi sul pavimento. Così mi sedetti. Avevo ancora mal di capo. Peggio di prima. E dovevo essere depresso come non sono mai stato in vita mia.

Con tutto che non volevo, mi misi a pensare al professor Antolini e mi domandai che cosa avrebbe raccontato alla signora quando lei si fosse accorta che non avevo dormito da loro e via discorrendo. Questo però non mi preoccupava troppo, perché sapevo che il professor Antolini era molto in gamba e le avrebbe imbastito qualche scusa. Poteva dirle che ero andato a casa o una storia del genere. Questo non mi preoccupava molto. Quello che mi preoccupava, invece, era il fatto di essermi svegliato e di averlo trovato là a coccolarmi sulla testa eccetera eccetera. Voglio dire, mi domandavo se per caso non mi fossi sbagliato nel pensare che stesse prendendosi dei passaggi da finocchio. Mi domandavo, non sarà mica che gli piace soltanto coccolare sulla testa la gente che dorme. Uno come fa a essere sicuro di certe cose, voglio dire è impossibile. Mi domandai perfino se non fosse il caso di prendere le valige e tornare a casa sua, come avevo detto. Cominciai a pensare, voglio dire, che anche se era un finocchio, con me era stato molto gentile. Pensavo che non si era seccato per niente che gli avessi telefonato così tardi, e anzi mi aveva detto di andare subito da lui, se ne avevo voglia. E che si era preso la briga di darmi tutti quei consigli sul fatto di trovare la taglia della propria mente eccetera eccetera, e che quando morì James Castle, quel ragazzo che vi ho detto, soltanto lui gli era andato vicino. Pensavo a tutte queste cose. E più ci pensavo, più mi deprimevo. Voglio dire, cominciai a pensare che forse sarei dovuto tornare a casa sua. Forse lui mi stava accarezzando la testa tanto per fare una cosa. Più ci pensavo, però, e più tutta quella storia mi faceva sentire depresso e sfasato. A peggiorare le cose, gli occhi mi facevano un male cane. Mi dolevano e mi bruciavano, tanto avevo dormito poco. Per giunta mi stava venendo una specie di raffreddore e io non avevo nemmeno un accidente di fazzoletto. Ne avevo nella valigia, ma non mi andava proprio di tirarla fuori dalla cassetta e di aprirla in mezzo a tutta quella gente e compagnia bella.

C’era là quella rivista che qualcuno aveva lasciato sulla panca vicino a me, e io mi misi a leggerla, con l’idea che almeno per un po’ mi avrebbe fatto smettere di pensare al professor Antolini e a un milione di altre cose. Ma cominciai a leggere un maledetto articolo che mi fece sentire quasi peggio. Parlava degli ormoni. Ti raccontava che aspetto dovresti avere, faccia, occhi e tutto quanto, se i tuoi ormoni sono a posto, e io quell’aspetto non ce l’avevo per niente. Ero il ritratto sputato dell’individuo che nell’articolo aveva gli ormoni squinternati. Così cominciai a preoccuparmi dei miei ormoni. Poi lessi quell’altro articolo che spiegava come fai a capire se hai il cancro o no. Diceva che se hai nella bocca qualche ferita che non guarisce presto, è segno che probabilmente hai un cancro. Io avevo quella ferita dentro al labbro da circa due settimane. Sicché mi misi in mente che mi stava venendo il cancro. Quella rivista era proprio fatta apposta per tenerti allegro. Alla fine smisi di leggere e andai a fare una passeggiata. Mi ero messo in mente che avevo un cancro e che in un paio di mesi sarei morto. Sul serio. Ne ero sicurissimo. Non è che questo mi rendesse di umore brillante.

Pareva proprio che stesse per piovere, ma io me ne andai lo stesso a fare la mia passeggiata. Tanto per cominciare, pensai che dovevo far colazione. Fame non ne avevo, ma pensai che dovevo almeno mangiare qualcosa. Metter dentro qualcosa con un po’ di vitamine, voglio dire. Così mi incamminai verso est, dove ci sono tutti quei bei ristoranti a buon mercato, perché non avevo nessuna intenzione di spendere un sacco di soldi.

Strada facendo, passai davanti a quei due tizi che stavano scaricando da un camion quel grosso albero di Natale. E uno continuava a dire all’altro: “Tieni su ‘sto figlio di puttana! Tienilo su, Cristo!” Era proprio un modo splendido di parlare di un albero di Natale! Però era anche un po’ buffo, in un senso terribile, e io mi misi un po’ a ridere. Ma non avrei potuto fare niente di peggio, perché non appena mi misi a ridere mi parve d’essere sul punto di vomitare. Sul serio. Cominciai perfino, ma poi passò tutto. Non so perché. Voglio dire, non avevo mangiato roba che facesse male né niente di simile, e di solito ho uno stomaco di struzzo. Ad ogni modo, riuscii a riprendermi e pensai che sarei stato meglio sc mangiavo qualcosa. Così entrai in quel ristorante che aveva tutta l’aria d’essere molto economico e presi frittelle e caffè. Solo che le frittelle non le mangiai. Non riuscivo a mandarle giù. Il fatto è che quando uno si sente depresso per qualche cosa, ingoiare è un vero problema. Però il cameriere fu molto gentile. Si riportò indietro le frittelle e non me le fece pagare. Bevvi solo il caffè. Poi me ne andai e presi a camminare verso la Quinta Avenue.

Era lunedì e via discorrendo e mancava poco a Natale, e tutti i negozi erano aperti. Sicché non era tanto spiacevole camminare per la Quinta Avenue. Era alquanto natalizio. Fermi alle cantonate c’erano tutti quei Babbi Natale macilenti che suonavano i loro campanellini, e suonavano campanellini pure le ragazze dell’Esercito della Salvezza, quelle che vanno in giro senza rossetto né niente. Io continuavo a guardarmi un po’ intorno in cerca di quelle due suore che avevo incontrato a colazione il giorno prima, ma non le vidi. Lo sapevo che non le avrei viste perché mi avevano detto che erano venute a New York per insegnare, ma continuavo a cercarle lo stesso. Ad ogni modo, era proprio Natale, così tutt’a un tratto. Milioni di ragazzini erano venuti giù in città con le madri e salivano e scendevano dagli autobus, entravano e uscivano dai negozi.

Magari ci fosse stata la vecchia Phoebe. Non è più così piccola da perdere la testa nel reparto dei giocattoli, ma si diverte a scherzare e a guardar la gente. Due anni fa, a Natale, me la portai in giro per i negozi. Ci divertimmo un mondo. Fu da Bloomingdale, mi pare. Andammo nel reparto calzature e facemmo finta che lei - la vecchia Phoebe - volesse comprarsi un paio di quelle scarpe da neve che arrivano fin sopra la caviglia, quelle con un milione di buchi per i lacci. Quel povero disgraziato del commesso lo facemmo diventare matto. La vecchia Phoebe ne provò almeno venti paia, e tutte le volte quel poveraccio doveva allacciarle la scarpa fino in cima. Fu uno scherzo feroce, ma la vecchia Phoebe non stava più nella pelle. Andò a finire che comprammo un paio di mocassini e ce li facemmo mettere in conto. Il commesso fu molto gentile. Mi sa che aveva capito che stavamo scherzando, perché la vecchia Phoebe non può fare a meno di ridacchiare.

Ad ogni modo, continuai a camminare per la Quinta Avenue, senza cravatta eccetera eccetera. Poi, tutt’a un tratto, cominciò a succedermi una cosa dell’altro mondo. Ogni volta che arrivavo alla fine di un isolato e scendevo da quel maledetto marciapiede, avevo la sensazione che non sarei mai arrivato dall’altra parte della strada. Mi pareva che avrei continuato ad andare giù, giù, giù, e che nessuno mi avrebbe più rivisto. Ragazzi, mi venne un accidente. Non potete nemmeno immaginarvelo. Cominciai a sudare come dio sa che - tutta la camicia e la biancheria, tutto! Poi cominciai a fare un’altra cosa. Ogni volta che arrivavo alla fine di un isolato, facevo finta di parlare con mio fratello Allie. “Allie, - gli dicevo, - non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire. Per piacere, Allie”. E poi, quando raggiungevo l’altro marciapiede senza essere scomparso, gli dicevo grazie. E poi tutto daccapo non appena arrivavo all’altra cantonata. Ma io continuavo a camminare eccetera eccetera. Avevo una certa paura di fermarmi, credo - francamente, non me ne ricordo. So che mi fermai soltanto un bel pezzo dopo la Sessantesima, passato lo zoo e compagnia bella. Allora mi sedetti su quella panchina. Ero spompato e sudavo ancora come non si sa che. Rimasi seduto un’oretta, credo. Finalmente presi una decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuola. Decisi che avrei visto soltanto la vecchia Phoebe per dirle addio e tutto quanto e ridarle i suoi soldi di Natale, e che poi mi sarei diretto all’ovest con l’autostop. Quello che dovevo fare, pensavo, era di andare al Holland Tunnel e farmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro passaggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei trovato un lavoro. Pensai che potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifornimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro, quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere sordomuto, così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote e senza, sugo. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po’ ne avrebbero avuto piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario eccetera eccetera, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei boschi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato quella bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella mia capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri e insegnargli a leggere e a scrivere.

A forza di pensarci mi entusiasmai da matto. Quella faccenda di far finta di essere sordomuto era cretina e lo sapevo, ma mi piaceva lo stesso pensarla. Però decisi davvero di andarmene all’ovest eccetera eccetera. Prima volevo soltanto salutare la vecchia Phoebe. Così, tutt’a un tratto, attraversai la strada correndo come un forsennato - a momenti mi facevo ammazzare, se proprio volete saperlo - e andai da quel cartolaio a comprare un blocchetto di carta e una matita. Pensavo di scriverle un biglietto per dirle dove ci saremmo incontrati, di modo ch’io potessi salutarla e restituirle i suoi soldi di Natale, e poi di portare il biglietto alla sua scuola e di farglielo consegnare da qualcuno della segreteria. Però mi cacciai in tasca il blocchetto e la matita e mi incamminai più in fretta che potevo verso la sua scuola - ero troppo frenetico per scrivere il biglietto nella cartoleria. Camminavo così in fretta perché volevo che avesse il biglietto prima di andare a casa a pranzo, e non mi restava molto tempo.

Sapevo dov’era la sua scuola, naturalmente, perché da ragazzino ci ero andato anch’io. Quando ci arrivai fu strano.

Non ero tanto sicuro di ricordarmi com’era dentro, e invece sì. Era tale e quale come quando ci andavo io. Dentro c’era lo stesso grande cortile che era sempre un po’ buio, con le lampadine protette da una gabbia perché non si rompessero se ci piombava sopra una palla. C’erano gli stessi circoli bianchi verniciati su tutto il pavimento, per le partite eccetera eccetera. E gli stessi vecchi cerchi per la pallacanestro - le reti non c’erano, solo i legni con i cerchi. In giro non c’era nessuno, probabilmente perché non era più l’ora di ricreazione e non era ancora ora di pranzo. Vidi soltanto un ragazzino piccolo, un ragazzino di colore, che stava andando al gabinetto. Anche lui, proprio come noi un tempo, portava infilato a mezzo nella tasca di dietro uno di quei permessi di legno per far vedere che era autorizzato ad andare al gabinetto eccetera eccetera. Sudavo ancora, ma non come prima. Andai fino alle scale, mi sedetti sul primo gradino e tirai fuori il blocchetto e la matita che avevo comprato. Le scale avevano lo stesso odore di quando ero bambino io. Come se qualcuno ci avesse appena fatto pipi. Le scale delle scuole hanno sempre quell’odore. Ad ogni modo, mi ci sedetti e scrissi questo biglietto:

 

Cara Phoebe,

non posso più aspettare fino a mercoledì, perciò è probabile che parta oggi stesso per l’ovest con l’autostop. Troviamoci al Museo d’arte vicino alla porta alle 12 e un quarto, se puoi, e ti restituirò i tuoi soldi di Natale. Non ho speso molto.

Con affetto,

HOLDEN

 

La scuola era praticamente a due passi dal museo, e lei comunque doveva passarci davanti per andare a casa, perciò sapevo che poteva venire senza difficoltà.

Poi cominciai a salire le scale verso la segreteria per dare il biglietto a qualcuno che glielo portasse in aula. Lo piegai una decina di volte perché nessuno lo aprisse. In una dannata scuola non puoi fidarti di nessuno. Ma sapevo che gliel’avrebbero dato se io ero suo fratello e via discorrendo.

Però, mentre salivo le scale, tutt’a un tratto pensai che stavo un’altra volta per vomitare. Solo che non vomitai. Mi sedetti un istante e mi sentii meglio. Ma mentre stavo là seduto, vidi una cosa che mi fece perdere le staffe. Qualcuno aveva scritto “ca... “ sul muro. Stavo proprio per perdere le staffe, accidenti. Pensai che Phoebe e tutte le altre ragazzine l’avrebbero visto e si sarebbero domandate che diavolo significava, e allora qualche ragazzino sporcaccione gliel’avrebbe spiegato - chi sa in che modo da furbastro, naturalmente - e per un paio di giorni tutte loro sarebbero state a pensarci e forse perfino a preoccuparsene. Avrei proprio voluto ammazzare quello che l’aveva scritto. Mi figurai che doveva essere qualche vagabondo pervertito che era sgattaiolato nella scuola la sera tardi per orinare o chi sa che, e poi aveva scritto quella parola sul muro. Continuavo a immaginarmi che lo coglievo in flagrante e gli spaccavo la testa sugli scalini di pietra fino a lasciarlo morto stecchito e tutto insanguinato. Ma sapevo pure che non avrei avuto il coraggio di farlo. Lo sapevo. Questo mi rendeva ancora più depresso. Quasi non avevo nemmeno il coraggio di cancellare quella parola dal muro con la mano, se proprio volete saperlo. Avevo paura che qualche insegnante mi sorprendesse a cancellarla e pensasse che l’avevo scritta io. Però la cancellai lo stesso, alla fine. Poi salii su in segreteria.

Il preside pareva che non ci fosse, ma una vecchia signora che doveva avere almeno cent’anni stava seduta a una macchina da scrivere. Le dissi che ero il fratello di Phoebe Caulfield della 4 B-I, e le chiesi se per favore poteva far avere a Phoebe il mio biglietto. Le dissi che era molto importante perché mia madre era malata e non poteva preparare il pranzo per Phoebe, e che lei doveva incontrarsi con me per andare a pranzo fuori. La vecchia signora fu molto gentile, quanto a questo. Prese il mio biglietto e chiamò un’altra signora che stava nell’ufficio accanto e quest’altra signora andò a portarlo a Phoebe. Poi io e la vecchia signora centenaria facemmo quattro chiacchiere. Era proprio simpatica e io le dissi che ero andato anch’io in quella scuola, e anche i miei fratelli. Lei mi domandò a che scuola andavo adesso e io le dissi che andavo a Pencey, e lei disse che Pencey era un’ottima scuola. Non avrei avuto la forza di chiarirle le idee nemmeno se l’avessi voluto. Del resto, se credeva che Pencey fosse un’ottima scuola, amen. Non fa certo piacere dire cose nuove a un centenario. A quelli non va di sentirle. Poi, dopo un po’, me ne andai. Fu buffo. Lei mi gridò “Buona fortuna!” proprio come aveva fatto il vecchio Spencer quando me n’ero andato da Pencey. Dio, come detesto che la gente mi gridi “Buona fortuna!” quando me ne vado da un posto! È deprimente.

Scesi per un’altra scala, e vidi un altro “ca...” sul muro. Cercai di cancellare con la mano anche questo, ma questo l’avevano graffiato con un temperino o vattelappesca. Non volle sparire. È inutile, ad ogni modo. Anche ad avere un milione d’anni a disposizione, uno non riuscirebbe a cancellare nemmeno la metà dei “ca... “ lasciati come firma nel mondo. Impossibile.

Guardai l’orologio nel cortile della ricreazione ed erano soltanto le dieci e venti, perciò dovevo ammazzare un bel po’ di tempo prima di vedere la vecchia Phoebe. Però mi incamminai lo stesso verso il museo. Non sapevo dove altro andare. Pensai che magari potevo fermarmi a una cabina telefonica per chiamare la vecchia Jane prima di cominciare il mio autostop verso l’ovest, ma non mi sentivo in vena. Tanto per cominciare, non ero nemmeno sicuro che fosse già a casa per le vacanze. Così andai al museo e mi misi a girellare.

Mentre aspettavo Phoebe nel museo, proprio vicino alle porte e tutto quanto, mi si avvicinarono quei due ragazzini per domandarmi se sapevo dove fossero le mummie. Quello piccolo, quello che mi aveva parlato, aveva i calzoni sbottonati. Io glielo dissi. Allora lui se li abbottonò lì stesso dove si era fermato per parlarmi - non si prese nemmeno il disturbo di andare dietro una colonna o che so io. Mi lasciò secco. Avrei voluto ridere, ma avevo paura che mi tornasse la voglia di vomitare, così non lo feci. - Dove stanno le mummie, amico?- disse un’altra volta il ragazzino. - Lo sai?

Per un po’ mi divertii a prendere in giro quei due. - Le mummie? E cosa sono? - domandai al piccolo.

- Ma sì. Le mummie, quella gente morta. Quella che la seppelliscono nelle loro combe e tutto quanto.

Combe. Mi lasciò secco. Voleva dire tombe.

- Com’è che voi due bei tipi non siete a scuola? - dissi.

- Non c’è scuola, oggi, - disse il ragazzino che parlava sempre lui. Le stava sparando grosse, quel piccolo bastardo, com’è vero che sono vivo. Però, finché non arrivava Phoebe, non avevo niente da fare, così li aiutai a trovare il posto dove stavano le mummie. Ragazzi, una volta avrei saputo andarci a occhi chiusi, ma erano anni che non mettevo piede in quel museo.

- Vi interessano tanto le mummie, a voi due? - dissi.

- Altroché.

- Il tuo amico non sa parlare? - dissi.

- Mica è mio amico. È mio fratello.,

- E non sa parlare? - Guardai quello che non apriva mai bocca. - Non sai parlare per niente? - gli domandai.

- Sì, - disse. - Non mi va.

Finalmente trovammo il posto dove stavano le mummie ed entrammo.

- Lo sai, tu, come seppellivano i morti gli egiziani? - domandai a quello piccolo.

- Nooo.

- Be’, dovresti saperlo. È molto importante. Gli avvolgevano la faccia in questi panni, che erano trattati con qualche sostanza chimica segreta. Così loro potevano restare sepolti nelle tombe per migliaia di anni, e la loro faccia non si decomponeva né niente. Nessuno all’infuori degli egiziani sa come si fa. Nemmeno la scienza moderna.

Per arrivare dove sono le mummie bisogna passare per quella specie di corridoio strettissimo dove sulla parete ci sono le pietre che sono state prese proprio dalla tomba di quel faraone e via discorrendo. Era alquanto spaventoso e si vedeva lontano un miglio che i due bulletti che mi accompagnavano non si divertivano molto. Mi stavano attaccati alle costole, e quello che non apriva mai bocca mi teneva addirittura per la manica. - Andiamo, - disse al fratello. - Le ho già viste. Ehi, forza! - Fece dietro front e via di corsa.

- Quello ha una fifa che se lo porta via, - disse l’altro, -Ci vediamo! - E via di corsa anche lui.

Allora rimasi solo nella tomba. Non mi dispiacque, in un certo senso. Era così bello e tranquillo. Poi, tutt’a un tratto, non indovinerete mai che cosa vidi sul muro. Un altro e “ca...”. Era scritto con la matita rossa o vattelappesca, proprio sotto la vetrina, sotto le pietre.

Questo è il vero guaio. Non puoi mai trovare un posto bello e tranquillo, perché non esiste. Puoi credere che esista, ma quando ci arrivi, il momento che volti gli occhi, viene qualcuno di soppiatto e scrive “ca...” proprio sotto il tuo naso. Provateci, una volta. Credo perfino che se un giorno morirò e mi porteranno in un cimitero, e io avrò una tomba e tutto quanto, sopra ci sarà scritto “Holden Caulfield” e in che anno sono nato e in che anno sono morto, e poi, sotto, un bel “ca...”. Sono pronto a giurarci.

Quando uscii dal posto dove stanno le mummie dovetti andare al bagno. Avevo un po’ di diarrea, se proprio volete saperlo. Di quella faccenda della diarrea me ne infischiavo, ma capitò un’altra cosa. Mentre stavo uscendo dal gabinetto, proprio a un passo dalla porta, mi successe come di svenire. Mi andò bene, però. Voglio dire, come niente potevo ammazzarmi quando caddi per terra, invece fini che mi sdraiai su un fianco. Sul serio. Il braccio mi faceva un po’ male per l’urto, ma non mi sentivo più quel maledetto capogiro.

Erano suppergiù le dodici e dieci, e allora tornai a fermarmi vicino alla porta per aspettare la vecchia Phoebe, Pensavo che forse era l’ultima volta che la vedevo. Qualcuno dei miei parenti, dico. Mi immaginavo che probabilmente l’avrei rivista, ma chi sa fra quanti anni. Forse sarei tornato a casa verso i trentacinque anni, mi immaginavo, se per caso quando si ammalava e voleva rivedermi prima di morire, ma quella sarebbe stata l’unica ragione per cui avrei lasciato la mia capanna e sarei tornato. Sapevo che mia madre avrebbe avuto una crisi di nervi e avrebbe cominciato a piangere e mi avrebbe scongiurato di restare a casa e di non tornare nella mia capanna, ma io me ne sarei andato lo stesso. Sarei stato indifferentissimo. L’avrei fatta calmare, e poi sarei andato dall’altra parte della stanza di soggiorno, avrei tirato fuori il portasigarette e avrei acceso una sigaretta, freddo come un blocco di ghiaccio. Gli avrei detto di venirmi a trovare qualche volta, se ne avevano voglia, ma senza insistere né niente. Avrei fatto così, la vecchia Phoebe l’avrei lasciata venire da me d’estate e durante le vacanze di Natale e di Pasqua. E D.B. l’avrei fatto venire da me per un poco, se voleva un bel posticino tranquillo per scrivere, ma nella mia capanna non poteva scrivere film, solo racconti e libri. Avrei messo questa regola, che quando venivano a trovarmi nessuno poteva fare cose fasulle. Se qualcuno cercava di fare cose fasulle, doveva andarsene.

Tutt’a un tratto guardai l’orologio nel guardaroba e mancavano venticinque minuti all’una. Cominciò a venirmi la paura che quella vecchia signora a scuola avesse detto all’altra signora di non dare il mio biglietto alla vecchia Phoebe. Cominciò a venirmi la paura che le avesse detto di bruciarlo o chi sa che. Mi venne davvero una paura del diavolo. Volevo assolutamente vedere la vecchia Phoebe, prima di mettermi per strada. Voglio dire, avevo i suoi soldi di Natale e via discorrendo.

Finalmente la vidi. La vidi attraverso il pannello di vetro della porta. Quello che non riuscivo a capire era perché si portasse dietro quella grossa valigia. Stava attraversando la Quinta Avenue e si trascinava dietro quel maledetto valigione. Ce la faceva a stento. Quando fui più vicino, vidi che era la mia valigia vecchia, quella che usavo quando stavo a Dhooton. Non arrivavo a capire che diavolo stesse facendo con quella valigia.

- Ehi, - disse quando mi fu vicina. Quell’accidente di valigia le aveva mozzato il respiro.

- Credevo che non venissi più, - dissi io. - Che diavolo c’è in quell’arnese? Non mi serve niente. Me ne vado come mi vedi. Non mi porto nemmeno le valige che ho alla stazione. Che diavolo ci hai messo, qui dentro?

Lei posò la valigia. - I miei vestiti, - disse. - Io vengo con te. Posso? D’accordo?

- Che? - dissi. A momenti cadevo, quando me lo disse. Giuro davanti a Dio che a momenti cadevo. Mi girò un po’ la testa e pensai che stavo per svenire un’altra volta o qualcosa del genere.

- Li ho portati giù con l’ascensore di servizio, così Charlene non mi vedeva. Non è pesante. Tutto quello che c’è sono due vestiti e i miei mocassini e la biancheria e le calze e qualche altra cosa. Non è pesante. Sentila una volta... Non posso venire con te? Holden! Non posso? Ti prego.

- No. Chiudi il becco.

Pensai che stesse per venirmi un accidente. Voglio dire, non volevo dirle di chiudere il becco e via discorrendo, ma pensai che sarei svenuto di nuovo.

- Perché non posso? Ti prego, Holden! Non farò niente, verrò solo con te, nient’altro! Non mi porterò nemmeno i vestiti, se non vuoi, mi porterò soltanto...

- Non puoi portarti niente. Perché non vieni. Vado da solo. Perciò chiudi il becco.

- Ti prego, Holden. Ti prego, lasciami venire. Sarò molto, molto, molto... tu nemmeno ti... -

- Tu non vieni. Ora chiudi il becco! Dammi quella valigia, - dissi. Le tolsi di mano la valigia. Avevo quasi voglia di picchiarla. Per qualche istante pensai che le avrei mollato un ceffone. Sul serio.

Lei cominciò a piangere.

- Mi pareva che dovevi restare a scuola e via discorrendo. Mi pareva che in quella recita dovevi fare Benedict Arnold e via discorrendo, - dissi. Lo dissi rabbiosissimo. - Che cosa vuoi fare? Non vuoi più far la recita, Dio santo? - Questo la fece piangere ancora più forte. Ci avevo gusto. Tutt’a un tratto avrei voluto che le cadessero gli occhi dal gran piangere. La odiavo, quasi. Credo che la odiavo soprattutto perché se veniva via con me non avrebbe più fatto quella recita.

- Andiamo, - dissi. Tornai a salire le scale del museo. Pensai che non mi restava altra soluzione che lasciare al guardaroba quell’accidente di valigia che si era portata, e poi lei poteva ritirarla alle tre, finita la scuola. Sapevo bene che non poteva portarsela a scuola. - Andiamo, ora, - dissi.

Ma lei non sali le scale con me. Non volle venire con me. Io salii lo stesso, però, e portai la valigia al guardaroba e ritirai lo scontrino, poi tornai giù. Lei stava ancora là sul marciapiede, ma quando mi avvicinai mi girò le spalle. In questo è maestra. Ti gira le spalle tutte le volte che gliene salta il ticchio.

- Non vado più in nessun posto. Ho cambiato idea. Perciò smettila di piangere e chiudi il becco, - dissi. Il buffo era che quando le dissi così non stava nemmeno piangendo. Glielo dissi lo stesso, però. - Andiamo, adesso, ti riporto a scuola. Andiamo, su. Farai tardi.

Lei non mi rispose, niente. Feci un tentativo di prenderla per mano, ma lei la tirò via. Continuava a star girata dall’altra parte.

- Hai pranzato? Hai già pranzato? - le domandai.

Lei non mi rispose. Fece una cosa sola, si tolse il mio berretto rosso da cacciatore - quello che le avevo dato io - e pari pari me lo scaraventò in faccia. Poi tornò a girarmi le spalle.

Fu una cosa grande, però non dissi niente. Raccolsi il berretto e me lo cacciai nella tasca del soprabito.

- Andiamo, su. Ti riporto a scuola, - dissi.

- Io a scuola non ci torno.

A questo punto non seppi che cosa dire. Restai là fermo un paio di minuti.

- Devi tornare a scuola. Vuoi fare quella recita, no? Vuoi fare Benedict Arnold, no?

- No.

- Ma sì che vuoi. È più che certo. Forza, su, andiamo,- dissi. - Tanto per cominciare, io non vado più in nessun posto. Te l’ho detto. Vado a casa. Vado a casa appena tu torni a scuola. Prima vado giù alla stazione a prendere le valige, e poi vado dritto...

- Ti ho detto che io a scuola non ci torno, Tu fai quello che ti pare, ma io a scuola non ci torno, - disse lei, - Perciò chiudi il becco -. Era la prima volta che mi diceva di chiudere il becco. Fu terribile. Dio, fu proprio terribile, Peggio di una bestemmia. Ancora non voleva guardarmi e ogni volta che tentavo di metterle una mano sulla spalla o che so io, lei si divincolava.

- Senti, vuoi fare una passeggiata? - le domandai, - Vuoi andare a piedi fino allo zoo? Se oggi non ti faccio andare a scuola e andiamo a passeggio, la smetti con tutte queste scemenze?

Non mi rispose, e così glielo dissi un’altra volta, - Se oggi ti lascio saltare la scuola e andiamo a fare quattro passi, la smetti con le scemenze? Domani torni a scuola e fai la brava ragazza?

- Forse, può darsi, - disse. Poi attraversò la strada come un bolide, senza nemmeno guardare se veniva qualche macchina. Certe volte è proprio matta.

Però non la seguii. Sapevo che sarebbe stata lei a seguire me, e così mi incamminai verso il centro, diretto allo zoo, sul marciapiede lungo il parco, e lei si incamminò verso il centro sull’altro dannato marciapiede. Non mi guardava affatto, ma capivo benissimo che probabilmente mi osservava con la coda dell’occhio, quella stupida, per vedere dove andavo eccetera eccetera. Ad ogni modo, facemmo così tutta la strada fino allo zoo. L’unica cosa che mi seccava era quando passava un autobus a due piani, perché allora non potevo guardare l’altro marciapiede e non vedevo che diavolo stesse facendo lei. Ma quando arrivammo allo zoo le gridai: - Phoebe! Io vado allo zoo! Andiamo, su! - Non mi guardò, ma capii che mi aveva sentito, e quando cominciai a scendere le scale per entrare allo zoo mi girai, e vidi che lei attraversava la strada per seguirmi eccetera eccetera.

Allo zoo la gente non era molta perché era una giornata un po’ schifa, ma c’era un crocchio intorno allo stagno delle otarie e compagnia bella. Io feci per passare oltre, ma la vecchia Phoebe si fermò e fece finta di guardare le otarie che mangiavano - un tizio gli stava buttando dei pesci - così tornai indietro. Pensai che era l’occasione buona per avvicinarmi a lei eccetera eccetera. Le andai accanto, mi fermai un po’ dietro di lei e le posai le mani sulle spalle, appena appena, ma lei piegò le ginocchia e mi sgusciò via - ve l’ho detto che sa essere molto sostenuta, quando vuole. Rimase là ferma a guardare mentre le otarie mangiavano, e io fermo dietro di lei. Non le misi più le mani sulle spalle né niente, perché se l’avessi fatto, stavolta davvero che sarebbe scappata via. I ragazzini sono buffi. Bisogna stare molto attenti a quello che si fa.

Quando ci allontanammo dalle otarie lei non volle camminarmi vicino, però non si tenne troppo a distanza. Lei camminava su un lato del marciapiede e io sull’altro. Non era l’ideale, ma sempre meglio che vederla camminare lontana un miglio, come prima. Ci avvicinammo a dare un’occhiata agli orsi, lassù su quella collinetta, ma non c’era molto da vedere. Ce n’era fuori uno solo, l’orso polare. L’altro, l’orso bruno, stava nella sua dannata grotta e non volle uscire. Non se ne vedeva che il didietro. Vicino a me c’era un ragazzetto con un cappello da cowboy che gli scendeva fino alle orecchie che continuava a dire al padre: - Fallo venire fuori, papà. Fallo venire fuori!- Guardai la vecchia Phoebe, ma lei niente, non rideva. Si capisce subito quando i ragazzini ce l’hanno con voi. Non ridono, niente da fare.

Lasciati gli orsi uscimmo dallo zoo, e dopo aver attraversato quella stradina nel parco, passammo sotto una di quelle piccole gallerie dove c’è sempre odore di orina. Di là si andava alla giostra. La vecchia Phoebe continuava a non volermi parlare, però adesso mi camminava quasi vicina. Io l’afferrai di dietro per la cintura del soprabito, così, tanto per fare, ma lei si divincolò. Disse: - Tieni le mani al posto tuo, per piacere -. Ce l’aveva ancora con me. Ma non come prima. Ad ogni modo continuavamo ad avvicinarci alla giostra e già si cominciava a sentire quella musichetta saltellante che suonano sempre. Stavano sonando Oh, Marie! Sonavano quella stessa canzone da una cinquantina d’anni, da quand’ero piccolo io. Ecco l’unica cosa simpatica delle giostre, suonano sempre le stesse canzonette.

- Credevo che d’inverno la giostra fosse chiusa, - disse la vecchia Phoebe. A conti fatti, era la prima cosa che diceva. Probabilmente si era dimenticata che doveva avercela con me.

- Forse perché è quasi Natale, - dissi. Non disse niente, quando io dissi così. Probabilmente si era ricordata che doveva avercela con me.

- Vuoi andare a fare un giro? - dissi. Sapevo che probabilmente ne aveva voglia. Quand’era piccola piccola, e Allie, D. B. e io la portavamo al parco con noi, andava matta per la giostra. Non si riusciva a strapparla da quel dannato aggeggio.

- Sono troppo grande, - disse. Credevo che non mi avrebbe risposto e invece sì.

- No che non lo sei. Vai pure. Io ti aspetto qui. Vai, su - dissi. Eravamo proprio lì, oramai. Sulla giostra c’erano alcuni bambini, per lo più molto piccoli, e i genitori li stavano aspettando lì avanti, seduti sulle panchine e via discorrendo. Allora fini che andai allo sportello dove vendono i biglietti e ne presi uno per la vecchia Phoebe. Poi glielo diedi. Lei mi stava proprio vicina. - Tieni, - le dissi. - Aspetta un momento... prendi anche il resto dei tuoi soldi -. Feci per darle il resto dei soldi che mi aveva prestato.

- Tienili tu. Tienili per me, - disse lei. Poi aggiunse subito: - Ti prego.

È deprimente, quando uno ti dice “Ti prego”. Se è Phoebe o qualcuno così, voglio dire. Mi sentii depresso da morire. Però mi rimisi i soldi in tasca.

- Vieni a fare un giro anche tu? - mi domandò lei. Mi stava guardando in modo un po’ buffo. Si capiva che non ce l’aveva più tanto.

- Il prossimo, magari. Adesso sto qui a guardarti, - dissi.

- Hai il biglietto?

- Sì.

- Vai, allora, io mi siedo su questa panchina. Sto a guardarti -. Andai a sedermi sulla panchina e lei sali sulla giostra. Ne fece tutto il giro. Voglio dire che ne fece proprio tutto il giro, una volta sola. Poi si sedette su quel vecchio stallone scuro dall’aria malandata. Allora la giostra si mise in moto e io guardai Phoebe che girava, girava. Sopra c’erano solo altri cinque o sei ragazzini, e la canzone che stavano sonando era Fumo negli occhi. La sonavano in modo molto buffo, come se fosse jazz. Tutti i bambini si sforzavano di afferrare l’anello d’oro, anche la vecchia Phoebe, e io avevo un po’ paura che cadesse da quel maledetto cavallo, però non dissi e non feci niente. Il fatto, coi bambini, è che se vogliono afferrare l’anello d’oro, uno deve lasciarli fare senza dire niente. Se cadono, amen, ma è un guaio se gli dite qualcosa. Finito il giro, lei scese dal suo cavallo e venne da me, - Stavolta vieni anche tu, - disse.

- No, sto solo a guardarti. Mi sa che sto solo a guardarti,- dissi. Le diedi un po’ dei suoi soldi. - Tieni. Prendi qualche altro biglietto.

Lei prese i soldi. - Non sono più arrabbiata con te, - disse.

- Lo so. Sbrigati, ora ricomincia.

Allora, tutt’a un tratto, mi diede un bacio. Poi tese la mano e disse: - Sta piovendo. Comincia a piovere.

- Lo so.

E allora lei fece una cosa che per poco non mi lasciava secco: mi infilò la mano nella tasca del soprabito, ne tirò fuori il mio berretto rosso da cacciatore e me lo mise in testa.

- Non lo vuoi tu? - dissi.

- Per un po’ puoi portarlo.

- D’accordo. Però adesso sbrigati. Finisce che perdi il giro. Non troverai più il tuo cavallo né niente.

Ma lei continuava a esitare.

- Lo pensavi proprio quello che hai detto? È vero che non vai in nessun posto? È vero che dopo vai a casa? - mi domandò.

- Sì, - dissi. E lo pensavo davvero. Non le stavo dicendo una bugia. Andai a casa davvero, dopo. - Sbrigati, ora, - dissi, - Si sta muovendo.

Lei scappò via, comprò il suo biglietto e tornò su quella maledetta giostra appena in tempo. Poi ne fece tutto il giro finché non ritrovò il suo cavallo. Allora ci montò sopra. Mi salutò con la mano, e anch’io la salutai con la mano.

Ragazzi, cominciò a piovere che non vi dico. A secchi, ve lo giuro su Dio. I genitori e le madri e tutti quanti corsero a mettersi proprio sotto il tetto della giostra per non bagnarsi come pulcini eccetera eccetera, ma io me ne restai per un pezzo su quella panchina. Ero bagnato fradicio, soprattutto il collo e i calzoni. Il berretto da cacciatore mi riparava davvero, e molto, in un certo senso, ma ero fradicio lo stesso. Me ne infischiavo, però. Mi sentivo così maledettamente felice, tutt’a un tratto, per come la vecchia Phoebe continuava a girare intorno intorno. Mi sentivo così maledettamente felice che per poco non mi misi a urlare, se proprio volete saperlo. Non so perché. Era solo che aveva un’aria così maledettamente carina, lei, là che girava intorno intorno, col suo soprabito blu eccetera eccetera.

Dio, peccato che non c’eravate anche voi.