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Avevano ognuno la sua stanza e tutto quanto. Erano tutt’e due sulla settantina, e forse anche più. Però c’erano cose che li mandavano in sollucchero - in modo stupido, naturalmente. So che pare cattivo dirlo, ma non lo dico in senso cattivo. Voglio dire che ci pensavo molto al vecchio Spencer, e se ci pensavi troppo, finiva che ti domandavi perché diavolo vivesse ancora. Voglio dire che era tutto piegato in due e stava su per miracolo e in classe, alla lavagna, tutte le volte che gli cadeva un pezzo di gesso, qualche ragazzo in prima fila doveva sempre alzarsi per raccoglierlo e darglielo. Per me questo è tremendo. Ma se pensavi a lui solo quel tanto, non troppo, dico, potevi farti l’idea che non se la cavava poi tanto male. Per esempio, una domenica che io e certi altri ragazzi eravamo andati a casa sua a prendere la cioccolata calda, ci fece vedere quella vecchia coperta Navajo che lui e la signora Spencer avevano comprata da un indiano a Yellowstone Park. Era chiaro che quell’acquisto mandava in sollucchero il vecchio Spencer. Ecco quello che voglio dire. Prendi uno che è un vecchio bacucco, come il vecchio Spencer, comprare una coperta può mandarlo in sollucchero.

La sua porta era aperta, ma io bussai un pochino lo stesso, tanto per far l’educato e così via. L’avevo anche visto, oltre tutto. Stava seduto in una grande poltrona di pelle, tutto arrotolato in quella coperta che vi ho detto prima. Quando bussai mi guardò. - Chi è? - gridò. - Caulfield? Vieni, figliolo

Gridava sempre, quando non era in classe. Certe volte dava sui nervi.

Mi pentii d’essere andato nell’attimo stesso che entravo. Stava leggendo l’Atlantic Monthly, e c’erano pillole e medicine dappertutto, e tutto aveva l’odore delle gocce Vicks contro il raffreddore. Era un po’ deprimente. Io non ho troppa simpatia per i malati, del resto, cosa ancora più deprimente, il vecchio Spencer aveva addosso quella vecchia, tristissima, logora vestaglia con la quale probabilmente era nato o qualcosa del genere. A me non mi va tanto, di vedere i vecchi in pigiama o in vestaglia, ad ogni modo. Il loro vecchio petto bitorzoluto sta sempre in mostra, e le gambe, le gambe dei vecchi, sulla spiaggia e dappertutto, sono sempre così bianche e senza peli. - Salve, professore, - dissi. - Ho avuto il suo biglietto. Grazie mille, -. Mi aveva scritto quel biglietto per chiedermi di passare da lui a salutarlo prima delle vacanze, visto che non sarei tornato. - Non c’era bisogno che si disturbasse tanto. Sarei venuto a salutarla lo stesso.

- Siediti là, figliolo, - disse il vecchio Spencer. Voleva dire sul letto.

Mi sedetti là. - Come va la sua influenza, professore?

- Figliolo, se mi sentissi un tantino meglio, dovrei chiamare il medico, - disse il vecchio Spencer. Questo lo mise fuori combattimento. Cominciò a ridacchiare come un matto. Poi finalmente si riprese e disse: - Com’è che non sei giù alla partita? Credevo che la grande partita fosse oggi.

- Infatti. Ero lì. Ma è che sono appena tornato da New York con la squadra di scherma, - dissi. Ragazzi, quel letto sembrava un sasso.

Lui cominciò a fare la faccia serissima. Me l’aspettavo. - Sicché ci lasci, eh? - disse.

- Sì, professore. Mi sa proprio di sì.

Lui attaccò il suo solito su e giù con la testa. Roba che in vita vostra non avete mai visto nessuno fare così su e giù con la testa come il vecchio Spencer. Uno non sapeva mai se muoveva tanto la testa perché stava pensando eccetera eccetera, o solo perché era un caro vecchiotto che non capiva un accidente.

- Che cosa ti ha detto il dottor Thurmer, figliolo? Se ho capito bene, avete fatto una bella chiacchierata.

- Sì. Altroché. Sono stato nel suo ufficio un paio d’ore, come minimo.

- Che cosa ti ha detto?

- Oh... be’, che la vita è una partita e via discorrendo. E che va giocata secondo le regole, è stato abbastanza gentile, però. Voglio dire, non ha perso le staffe né niente. Ha solo continuato a parlar della vita che è una partita e via discorrendo. Lei sa bene.

- La vita è una partita, Figliolo. La vita è una partita che si gioca secondo le regole.

- Sì, professore. Lo so, Questo lo so. Partita un accidente. Una partita. È una partita se stai dalla parte dove ci sono i grossi calibri, tante grazie - e chi lo nega. Ma se stai dall’altra parte, dove di grossi calibri non ce n’è nemmeno mezzo, allora che accidente di partita è? Niente, non si gioca.

- Il dottor Thurmer ha già scritto ai tuoi? - mi domandò il vecchio Spencer.

- Ha detto che scriverà lunedì.

- E tu hai dato tue notizie?

- No, professore, non ho dato notizie perché probabilmente li vedrò mercoledì sera quando arrivo a casa.

- E come credi che prenderanno la faccenda?

- Be’, saranno abbastanza seccati, - dissi, - Non c’è dubbio. Sarà perlomeno la quarta volta che cambio scuola -. Scossi la testa. Scuoto la testa a tutto spiano, io. - Ragazzi! - dissi. Dico anche “Ragazzi!” a tutto spiano. In parte perché ho un modo di parlare schifo, e in parte perché certe volte, per la mia età, mi comporto proprio come un ragazzino. Avevo sedici anni, allora, e adesso ne ho diciassette, e certe volte mi comporto come se ne avessi tredici. È proprio da ridere, perché sono alto un metro e ottantanove e ho i capelli grigi. Sul serio. Da un lato - il destro - sono pieno di capelli bianchi, milioni. Li ho sempre avuti, anche quand’ero bambino. Eppure certe volte mi comporto ancora come se avessi appena sì e no dodici anni. Lo dicono tutti, specie mio padre. E in parte è vero, ma non del tutto vero. La gente pensa sempre che le cose siano del tutto vere. Io me ne infischio, però certe volte mi secco quando la gente mi dice di comportarmi da ragazzo della mia età. Certe volte mi comporto come se fossi molto più vecchio di quanto sono - sul serio - ma la gente non c’è caso che se ne accorga. La gente non si accorge mai di niente.

Il vecchio Spencer ricominciò a fare su e giù con la testa. Cominciò pure a mettersi le dita nel naso. Faceva come se stesse soltanto pizzicandoselo, ma in realtà ci infilava dentro il suo vecchio pollice. Mi sa che pensava di poterlo fare tranquillamente perché nella stanza non c’ero che io. Non che me ne importasse, però è abbastanza stomachevole guardare uno che si mette le dita nel naso.

Poi lui disse: - Alcune settimane fa, quando sono venuti a parlare col dottor Thurmer, ho avuto l’onore di conoscere il tuo papà e la tua mamma. Sono persone eccezionali.

- Sì, certo. Sono molto in gamba.

Eccezionali. Ecco una parola che detesto con tutta l’anima. È fasulla. Roba che vomiterei ogni volta che la sento.

Poi, tutt’a un tratto, il vecchio Spencer ebbe l’aria di dovermi dire una cosa bellissima, acuta come una puntina da disegno. Si sedette un po’ più dritto sulla poltrona e si girò un poco. Era stato un falso allarme, però. Non fece altro che prendere l’“Atlantic Monthly” che teneva sulle ginocchia e tentar di gettarlo sul letto, vicino a me. Fece cilecca. Era a non più di cinque centimetri, ma fece cilecca lo stesso. Io mi alzai, lo raccolsi e lo posai sul letto. E tutt’a un tratto mi venne una voglia matta di andarmene da quella stanza. Sentivo arrivare una predica tremenda. Non che quell’idea mi sgomentasse molto, ma non mi sentivo in vena di sorbirmi una predica e di fiutare quell’odore di gocce Vicks e di guardare il vecchio Spencer in pigiama e vestaglia, tutto in una volta. Proprio no.

E invece eccola. - Che cosa ti succede, figliolo? - disse il vecchio Spencer. E trattandosi di lui fu piuttosto secco, anche.

- Quante materie hai portato, questo trimestre?

- Cinque, professore.

- Cinque. E in quante sei stato respinto?

- In quattro -. Spostai un pochino il didietro sul letto. Non mi ero mai seduto su un letto così duro. - Sono passato in inglese, - dissi, perché tutta quella roba su Beowulf e Lord Randal figlio mio l’avevo già fatta a Whooton. Voglio dire, in inglese non ho dovuto fare quasi niente, tranne un tema ogni tanto.

Non stava nemmeno a sentire. Non stava quasi mai a sentire, quando uno gli diceva qualche cosa.

- Io ti ho bocciato in storia per il semplice motivo che non sapevi assolutamente niente.

- Lo so, professore. Ragazzi, lo so benissimo! Non poteva farne a meno.

- Assolutamente niente, - ripeté. Ecco una cosa che mi fa perdere le staffe. Quando la gente dice le cose due volte, dopo che uno gli ha dato ragione la prima volta. Allora lui la disse tre volte. - Ma assolutamente niente. Sono quasi convinto che tu non hai aperto il libro nemmeno una volta durante tutto il trimestre. L’hai aperto? Di’ la verità, figliolo.

- Be’, ci ho dato un’occhiata un paio di volte, - gli dissi. Non volevo ferire i suoi sentimenti. Lui era fissato, per la storia.

- Ci hai dato un’occhiata, eh! - disse, molto sarcastico.

- Il foglio del tuo... ehm... esame scritto sta lassù sul comò. In cima a quel mucchio. Portamelo, per piacere.

Era un tiro schifo, ma andai a prenderlo e glielo portai non avevo scelta, niente. Poi tornai a sedermi su quel letto di cemento. Ragazzi, quanto rimpiangevo d’essere andato a salutarlo non potete nemmeno immaginarvelo.

Lui si mise a maneggiare il mio compito come se fosse uno stronzo o che so io. - Abbiamo studiato gli egiziani dal 4 novembre al 7 dicembre, - disse. - Per il tema facoltativo, sei stato tu stesso a scegliere quest’argomento. Ti interessa di sapere che cosa sei riuscito a dire?

- No, professore, non molto, - dissi.

Ma lui lo lesse lo stesso. Non puoi fermare un professore quando vuol fare una cosa. La fa, e basta.

- “Gli egiziani erano un’antica razza caucasica e risiedevano in una delle regioni settentrionali dell’Africa. Questa, come tutti sappiamo, è il più vasto continente dell’emisfero orientale”.

E io dovevo starmene seduto lì a sentire tutte quelle cretinate. Era proprio un tiro schifo.

- “Gli egiziani, oggi, costituiscono per noi argomento di grande interesse per vari motivi. La scienza moderna vorrebbe ancora sapere quali fossero gli ingredienti segreti che gli egiziani usavano quando fasciavano i morti, in modo da salvare dalla putrefazione i loro visi per innumerevoli secoli. Questo interessante enigma è tuttora una vera sfida alla scienza moderna del ventesimo secolo”.

Smise di leggere e posò il mio compito. Stavo cominciando a provare per lui una specie di odio. - Il tuo saggio, chiamiamolo così, finisce qua, - disse con quel tono molto sarcastico.

Chi l’avrebbe mai pensato che un uomo così vecchio potesse essere tanto sarcastico e così via. - Però, - disse, - hai aggiunto una piccola nota in fondo alla pagina.

- Lo so, - dissi io. Lo dissi molto in fretta, perché volevo fermarlo prima che si mettesse a leggere forte anche quella. Ma bravo chi lo fermava. Era partito in quarta.

- “Egregio professor Spencer”, - lesse ad alta voce.-

“Questo è tutto quello che so sugli egiziani. A quanto sembra, non riesco a provare un grande interesse per loro, benché le sue lezioni siano molto interessanti. Non ho niente da obiettare se mi boccia, perché tanto sarò bocciato in tutto fuorché in inglese. Con i miei ossequi, Holden Caulfield” -. Poi posò il mio maledetto compito e mi guardò come se mi avesse clamorosamente battuto a ping-pong o che so io. Credo che non gli perdonerò mai di avermi letto quelle cretinate ad alta voce. Se a scriverle fosse stato lui, io non gliele avrei mica lette ad alta voce, neanche per sogno. Tanto per cominciare, io quella dannata nota l’avevo scritta soltanto perché l’idea di bocciarmi non lo facesse restar troppo male.

- Mi biasimi se ti ho bocciato, figliolo? - disse.

- Ma no, professore, no davvero! - dissi. Avrei dato non so che cosa perché la smettesse di chiamarmi tutto il tempo “figliolo”.

Ormai che aveva finito col mio compito, cercò di gettarlo sul letto. Ma fece cilecca anche stavolta, naturalmente. Dovetti alzarmi di nuovo, raccoglierlo e posarlo sopra all’“Atlantic Monthly”. Una bella seccatura, quella ginnastica ogni due minuti.

- Come ti saresti regolato tu al posto mio? - disse. - Sii sincero, figliolo.

Be’, era chiaro che in realtà l’idea di avermi bocciato lo faceva sentire un verme. Sicché per un poco mi misi a sparar balle. Gli dissi che ero un autentico lavativo eccetera eccetera. Gli dissi che se fossi stato al suo posto avrei fatto esattamente la stessa cosa, e che la maggior parte della gente non valuta quanto sia duro fare il professore. Eccetera eccetera. Le solite balle.

La cosa buffa, però, è che mentre continuavo a raccontar balle pensavo a tutt’altro. Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via.

È una bella fortuna, però. Voglio dire, potevo sparare balle col vecchio Spencer e al tempo stesso pensare a quelle anitre.

È buffo. Non occorre spremersi le meningi, quando si parla con un professore. Tutt’a un tratto, però, mentre continuavo a raccontare balle, lui m’interruppe. Non faceva che interrompermi.

- E tu, di fronte a tutto questo, cos’è che senti, figliolo? È una cosa che m’interessa molto. Proprio molto.

- Parla della mia espulsione da Pencey con quel che segue? - dissi. Avevo il vago desiderio che si coprisse il petto bitorzoluto. Non era un bello spettacolo.

- Se non sbaglio, mi sembra che tu abbia avuto qualche difficoltà anche a Whooton e ad Elkton Hills - Stavolta il suo tono non era soltanto sarcastico, ma anche un po’ maligno.

- A Elkton Hills non ho avuto troppe difficoltà, - gli dissi.

- Non sono stato proprio espulso né niente. Me ne sono andato io, in un certo senso.

- Perché, se non sono indiscreto?

- Perché? Oh, be’, è una storia lunga, professore. Voglio dire che è un po’ complicata -. Non me la sentivo di rivangare tutta quella faccenda con lui. Tanto non l’avrebbe capita. Non era proprio pane per i suoi denti, Uno dei principali motivi per cui avevo lasciato Elkton Hills è che c’era pieno così di palloni gonfiati. Ecco tutto. Arrivavano a frotte da ogni parte.

C’era quel preside, per esempio, il signor Haas, che era il pallone gonfiato più bastardo che avessi mai conosciuto in vita mia. Dieci volte peggio del vecchio Thurmer. La domenica, per esempio, il vecchio Haas faceva il giro per stringere la mano a tutti i genitori che venivano in visita a scuola. Sprizzava cordialità da tutti i pori. A patto che un ragazzo non avesse dei genitorucoli un po’ buffi. Dovevate vedere come faceva coi genitori del mio compagno di stanza. Voglio dire, se uno aveva una madre un po’ tracagnotta o mezza calzetta o vattelappesca o un padre di quelli con le giacche imbottite sulle spalle e le scarpe bianche e nere da contadino a festa, allora il vecchio Haas si limitava a scambiare con loro una stretta di mano, gli faceva un sorriso fasullo e poi se ne andava a parlare, magari per mezz’ora, coi genitori di qualcun altro. Queste sono le cose che non posso sopportare, Ci divento matto. Mi deprimono talmente che ci divento matto. Lo odiavo, quel maledetto Elkton Hills.

Allora il vecchio Spencer mi domandò qualcosa, ma io non lo sentii nemmeno. Stavo pensando al vecchio Haas. - Come, professore? - dissi.

- Non hai nessun rimorso di dovertene andare da Pencey?

- Oh, qualche rimorso ce l’ho. Senza dubbio... Non tanti, però. Non ancora, almeno. Credo che questa faccenda non mi abbia ancora veramente colpito. Ci vuole un po’ di tempo perché le cose mi colpiscano. Per ora, riesco solo a pensare che mercoledì vado a casa. Sono un vero lavativo.

- Non ti preoccupi proprio niente del tuo avvenire, figliolo?

- Oh, ma certo che mi preoccupo del mio avvenire. Naturale. Naturale che mi preoccupo -. Ci pensai un momento.

- Ma non tanto, credo. Non tanto, credo.

- Te ne preoccuperai, - disse il vecchio Spencer. - Lo farai, figliolo. Lo farai quando sarà troppo tardi.

Non mi andava di sentirglielo dire. Era come se fossi già morto o giù di li. Era molto deprimente. - Suppongo di sì, - dissi.

- Vorrei ficcarti un po’ di buonsenso in quella testa, figliolo. Sto cercando di aiutarti. Sto cercando di aiutarti, se mi riesce.

Ed era proprio vero, tra l’altro. Si vedeva. Solo che ci trovavamo proprio ai due poli opposti, ecco tutto. - Questo lo so, professore, - dissi. - Grazie infinite. Dico sul serio. Gliene sono veramente grato. Davvero -. Poi mi alzai dal letto. Ragazzi, non sarei potuto restar seduto su quel letto per altri dieci minuti nemmeno per salvare la pelle. - È che adesso devo andarmene, però. Ho da prendere in palestra un sacco di roba che devo portarmi a casa. Davvero -. Lui alzò gli occhi a guardarmi e ricominciò a dondolare la testa in su e in giù con quell’espressione seria sulla faccia. Mi fece una gran pena tutt’a un tratto. Solo che non potevo restare là dentro un minuto di più, ai poli opposti com’eravamo, e con lui che non azzeccava mai il letto quando ci buttava qualcosa sopra, e quella sua squallida vestaglia che gli lasciava scoperto il petto, e quell’odore influenzale di gocce Vicks per tutta la stanza.

- Senta, professore. Non si preoccupi per me, - dissi. - Parlo sul serio. Me la caverò benissimo. È solo che sto attraversando un periodo così, adesso. Tutti attraversano certi periodi così, dico bene?

- Non lo so, figliolo. Non lo so.

Che rabbia, quando la gente risponde in quel modo. - Ma certo. È proprio così, - dissi. - Parlo sul serio, professore. La prego di non preoccuparsi per me -. Gli misi la mano sulla spalla. - Intesi? - dissi.

- Non vuoi una tazza di cioccolata calda, prima di andartene? La signora Spencer sarebbe...

- La prenderei tanto volentieri, veramente, ma il fatto è che devo proprio andarmene. Devo andare di corsa in palestra. Grazie, ad ogni modo. Grazie infinite, professore.

Allora ci stringemmo la mano. E tutta quella solita zuppa.

Mi venne una tristezza d’inferno, però.

- Le scriverò mie notizie, professore. Badi alla sua influenza, adesso.

- Addio, figliolo.

Quando avevo già chiuso la porta e stavo tornando nella stanza di soggiorno, lui mi gridò qualcosa, ma non capii bene.

Sono quasi sicuro che mi gridò “Buona fortuna!” Spero di no. Accidenti, spero proprio di no. Io non griderei mai “Buona fortuna!” a nessuno. È tremendo, se uno ci pensa.