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Era troppo tardi per chiamare un tassi o vattelappesca, e allora feci tutta la strada a piedi fino alla stazione. Non era tanto lontano, ma c’era un freddo del diavolo e con la neve era faticoso camminare e le valige continuavano a sbattermi contro le gambe. Ma a me fece piacere l’aria e tutto quanto, però. L’unico guaio era che il freddo mi faceva dolere il naso e il labbro superiore, dentro, dove il vecchio Stradlater mi aveva appioppato quello sgrugnone. Mi aveva spaccato il labbro contro i denti, e mi faceva piuttosto male. Le orecchie le avevo a posto e calde, però. Quel berretto che avevo comprato aveva dentro i paraorecchi, e io li tirai giù - non me ne fregava un accidente se stavo male. In giro non c’era un cane, ad ogni modo. Stavano tutti a cuccia.
Mi andò proprio bene quando arrivai alla stazione, perché dovetti aspettare il treno solo una decina di minuti. Mentre aspettavo, presi in mano un po’ di neve e mi ci lavai la faccia. Avevo ancora un bel po’ di sangue.
Di solito a me piace andare in treno, soprattutto di notte, con la luce accesa e i finestrini tutti neri e uno di quei tizi col caffè i panini e le riviste che fa avanti e indietro per il corridoio. Io di solito compro un panino al prosciutto e almeno quattro riviste. La notte, in treno, di solito posso perfino leggere senza vomitare uno di quei racconti cretini delle riviste.
Sapete, quei racconti pieni di sbruffoni dal viso tagliato con l’accetta che si chiamano David e di sbruffoncelle che si chiamano Linda o Marzia e non fanno altro che accendere tutte le maledette pipe dei loro David. La notte in treno posso perfino leggere uno di quei racconti schifi, di solito. Ma stavolta era diverso. Non mi andava, ecco. Me ne stavo là seduto senza far niente. Tutto quello che feci fu di togliermi il berretto da cacciatore e ficcarmelo in tasca.
Tutt’a un tratto, ecco che a Trenton sale quella signora e si siede vicino a me. Era vuota tutta la carrozza, praticamente, visto che era così tardi e compagnia bella, ma lei si mise vicino a me invece che in un sedile vuoto perché aveva quella valigia così grossa e io stavo sul sedile accanto alla porta. Piantò la valigia proprio in mezzo al corridoio, dove il controllore e tutti quanti potevano inciamparsi. Aveva quelle orchidee sul vestito, proprio come se fosse appena uscita da un gran ricevimento o vattelappesca. Aveva quarant’anni, immagino, quarantacinque al massimo, ma era ancora molto bella. Le donne mi lasciano secco. Sul serio. Con questo non voglio mica spacciarmi per un erotomane o giù di lì - per quanto abbia una certa carica. È solo che mi piacciono, voglio dire. Non fanno che lasciare le loro maledette valige in mezzo al corridoio.
Ad ogni modo, stavamo seduti là, e tutt’a un tratto lei mi disse: - Mi scusi, ma quella non è l’etichetta dell’Istituto Pencey? - Stava guardando le mie valige sulla reticella.
- Sì, infatti, - dissi. - Aveva ragione. Su una delle mie valige c’era una dannata etichetta del Pencey. Una cafonata, chi lo nega.
- Oh, lei sta a Pencey? - disse. Aveva una bella voce. Una bella voce da telefono, soprattutto. Avrebbe dovuto sempre portarsi dietro un dannato telefono.
- Sì, infatti, - dissi.
- Oh, che piacere! Forse allora conosce mio figlio. Ernest Morrow. Sta a Pencey.
- Sì, infatti. Siamo nella stessa classe.
Suo figlio era indiscutibilmente il più emerito bastardo che fosse mai stato a Pencey in tutta la sporca storia dell’istituto.
Dopo che aveva fatto la doccia, se ne andava sempre per il corridoio sbattendo l’asciugamano bagnato fradicio sul sedere della gente. Ecco per la precisione che tipo era.
- Oh, che bellezza, - disse la signora. Ma senza melensaggine. Era proprio carina e tutto quanto. - Devo dire a Ernest che ci siamo incontrati, - disse. - Posso domandarle come si chiama, caro?
- Rudolph Schmidt, - le dissi. Non avevo nessuna voglia di raccontarle tutta la storia della mia vita. Rudolph Schmidt era il bidello del nostro piano.
- Le piace Pencey? - mi domandò lei.
- Pencey? Non è tanto male. Non è un paradiso né niente di simile, ma vale tante altre scuole. Certi professori sono molto coscienziosi.
- Ernest l’adora.
- Lo so, - dissi. E per un po’ mi misi a rifilarle le solite cretinate. - Lui è un tipo che si adatta benissimo alle cose. Davvero. Voglio dire, sa il vero sistema per adattarsi.
- Crede? - mi domandò lei. Pareva maledettamente interessata.
- Ernest? Ma certo, - dissi. Poi la guardai mentre si toglieva i guanti. Ragazzi, i brillantoni si sprecavano.
- Mi sono appena rotta un’unghia, scendendo dal tassì,- disse. Alzò gli occhi a guardarmi e sorrise un poco. Aveva un sorriso tremendamente simpatico. Davvero. La maggior parte della gente non ha quasi sorriso o ne ha uno vomitevole. - Io e suo padre delle volte siamo preoccupati per lui, - disse.-
Delle volte abbiamo l’impressione che non sia troppo bravo a far lega.
- In che senso?
- Be’, è un ragazzo molto sensibile. In realtà non è mai stato troppo bravo a far lega con gli altri ragazzi. Forse prende le cose un po’ troppo sul serio, per la sua età.
Sensibile. Mi lasciò secco. Quel Morrow era sensibile suppergiù quanto un dannato cesso.
La guardai bene. Non mi pareva affatto stupida. Pareva in grado di farsi un’idea maledettamente chiara di che razza di bastardo fosse suo figlio. Ma non si può mai dire - con una madre, intendo. Le madri sono tutte un po’ matte. Ma fatto sta che la madre del vecchio Morrow mi piaceva. Era una a posto. - Vuole una sigaretta?
Si guardò intorno. - Non credo che sia uno scompartimento per fumatori, Rudolph, - disse. Rudolph. Mi lasciò secco.
- Non importa. Possiamo fumare finché non cominciano a piantar grane, - dissi. Lei prese una sigaretta e io gliel’accesi.
Era carina, mentre fumava. Aspirava e tutto quanto, ma non divorava il fumo come fanno quasi tutte le donne della sua età. Aveva fascino a strabenedire. E sex-appeal a strabenedire, anche, se proprio volete saperlo.
Mi stava guardando in modo un po’ strano. - Forse mi sbaglio, ma credo che le stia sanguinando il naso, caro, - disse tutt’a un tratto.
Io feci di sì con la testa e tirai fuori il fazzoletto. - Mi sono beccato una palla di neve, - dissi. - Una di quelle ben pressate -. Probabilmente le avrei anche raccontato la vera storia, ma ci sarebbe voluto troppo tempo. Mi piaceva, però. Cominciavo a essere un po’ pentito di averle detto che mi chiamavo Rudolph Schmidt. - Il vecchio Ernie, - dissi. - È uno dei ragazzi più popolari, a Pencey. Lo sapeva?
- No, non lo sapevo.
Feci di si con la testa. - In realtà, ci abbiamo messo tutti un bel po’ di tempo per arrivare a conoscerlo. È un tipo buffo. Un tipo strano, sotto un sacco di aspetti, capisce quel che voglio dire? Come quando l’ho visto la prima volta, che ho pensato che fosse un po’ snob. Ecco quello che ho pensato. Invece non lo è mica. È solo che ha una personalità originalissima e ci vuole un po’ di tempo per arrivare a capirlo.
La vecchia signora Morrow non disse niente, ma ragazzi, avreste dovuto vederla. L’avevo incollata al sedile. Prendi la madre di uno, e tutto quello che vuol sentire sono le lodi di quel fenomeno di suo figlio.
Allora cominciai a sparare balle sul serio. - Le ha raccontato delle elezioni? - le domandai. - Le elezioni di classe?
Lei scosse la testa. L’avevo ipnotizzata, quasi. Davvero.
- Be’, eravamo in moltissimi a volere che il vecchio Ernie diventasse presidente della classe. Voglio dire che la scelta era unanime. Era l’unico, voglio dire, che potesse realmente cavarsela, - dissi; accidenti, se le sparavo grosse. - Ma è stato eletto quell’altro ragazzo, Harry Fencer. E sa perché è stato eletto Fencer? Per il puro e semplice motivo che Ernie non ha voluto che lo designassimo. Perché è così maledettamente timido, modesto e compagnia bella. Ha rifiutato... è proprio timido, ragazzi. Lei dovrebbe fare di tutto perché cerchi di vincersi - La guardai. - Non gliene aveva parlato?
- No, non me ne ha parlato.
Feci di si con la testa. - Questo è Ernie. Non ha voluto. È l’unico suo difetto, è troppo timido e modesto. Lei dovrebbe proprio spingerlo a cercare di lasciarsi andare un po’, ogni tanto.
Proprio in quel momento venne il controllore per guardare il biglietto della vecchia signora Morrow, e così potei smetterla di sparar balle. Però sono contento di averle sparate per un po’. Prendi uno come Morrow, che sta sempre a sbattere l’asciugamano sul sedere della gente - col fermo proposito di far male a qualcuno - non è che sono bastardi solo da ragazzi. Restano bastardi per tutta la vita. Ma dopo tutte le scemenze che le ho rifilato, scommetto che adesso la signora Morrow continuerà a immaginarselo tutto timido e modesto, il tipo che non ha voluto farsi designare presidente della classe. È possibile. Non si può mai dire. Le madri non sono tanto acute in queste cose.
- Prenderebbe un cocktail? - le domandai. Mi era venuta la voglia di prenderne uno io. - Possiamo andare nella vettura pullman. Le va?
- Caro, lei può ordinare liquori? - mi domandò. Ma non con l’aria da padreterno, però. Era troppo affascinante eccetera eccetera per avere l’aria da padreterno.
- Be’, no, non proprio, ma di solito riesco ad averli, data la mia statura, - dissi. - E ho un sacco di capelli bianchi -. Girai la testa e le feci vedere i miei capelli bianchi. La affascinarono enormemente. - Andiamo, mi faccia compagnia, perché no? - dissi. Mi avrebbe fatto piacere averla con me.
- Credo proprio che sia meglio di no. Ma grazie lo stesso, caro, - disse. - Ad ogni modo, è molto probabile che la vettura pullman sia chiusa. È molto tardi, sa? - Aveva ragione. Mi ero completamente dimenticato dell’ora.
Poi mi guardò e mi fece proprio la domanda che temevo di sentirmi fare. - Ernest ha scritto che sarà a casa mercoledì, che le vacanze di Natale cominceranno mercoledì, - disse. - Spero che lei non l’abbiano chiamato a casa all’improvviso perché qualche suo familiare è ammalato -. Pareva sinceramente preoccupata. Non è che stesse ficcando il naso, si vedeva.
- No, stanno tutti bene, - dissi. - Si tratta di me. Devo operarmi.
- Oh! Quanto mi dispiace, - disse. E le dispiaceva sinceramente. A me dispiacque subito di averlo detto, ma ormai era fatta.
- Non è niente di grave. Ho un piccolo tumore nel cervello.
- Oh, no! - Si portò la mano alla bocca eccetera eccetera.
- Oh, andrà benissimo garantito! È proprio superficiale. Ed è molto piccolo. Possono toglierlo in un paio di minuti.
Poi mi misi a leggere l’orario che avevo in tasca. Tanto per smettere di dir bugie. Io quando comincio posso andare avanti per ore, se mi sento in vena. Senza scherzi. Ore.
Non parlammo molto, dopo. Lei si mise a leggere il “Vogue” che si era portata, e io per un po’ guardai dal finestrino. Scese a Newark. Mi fece un sacco di auguri per l’operazione e compagnia bella. Continuava a chiamarmi Rudolph. Poi mi disse di andare a trovare Ernie durante l’estate, a Gloucester nel Massachusetts. Disse che la loro casa era proprio sulla spiaggia, e che avevano il campo da tennis e compagnia bella, ma io la ringraziai tanto e le dissi che sarei andato nell’America del Sud con mia nonna. E questa era proprio grande, perché mia nonna è troppo se mette il naso fuori di casa, tranne forse per andare a qualche dannato spettacolo diurno o che so io. Ma non andrei a trovare quel figlio di buona madre di Morrow per tutto l’oro del mondo, nemmeno se fossi sul lastrico.