24

 

 

 

Il professore e la signora Antolini stavano in quell’appartamento molto chic sulla Sutton Place, con una stanza di soggiorno che per andarci si scendono due scalini e il bar e tutto quanto. C’ero stato parecchie volte perché, dopo che avevo lasciato Elkton Hills, il professor Antolini era venuto spesso a pranzo da noi per sapere come me la cavavo. Allora non era sposato. Poi, quando si era sposato, ero andato spesso a giocare a tennis con lui e con la signora giù al circolo di tennis del West Side, a Forest Hills a Long Island. La signora Antolini era socia. Era stracarica di quattrini. Aveva una sessantina d’anni più del professor Antolini, ma sembrava che andassero molto d’accordo. Tanto per cominciare, erano tutt’e due molto intellettuali, specie il professor Antolini, solo che a starci insieme era più brillante che intellettuale, un po’ come D.B. La signora Antolini era un tipo serissimo. Aveva un’asma tremenda. Avevano letto tutti i racconti di D. B. sia lui che lei - anche la signora - e quando D. B. andò a Hollywood il professor Antolini gli telefonò per dirgli di non andarci. Lui c’era andato lo stesso, con tutto che il professor Antolini gli aveva detto che quando uno sa scrivere come D. B. non ha niente da spartire con Hollywood. Proprio quello che dicevo io, stringi stringi.

Sarei voluto andare a piedi fino a casa loro, perché se non ci ero tirato per i capelli non mi andava di spendere neanche un centesimo dei soldi di Natale di Phoebe, ma quando uscii mi sentii strano. Come un po’ stordito. Allora presi un tassi. Non mi andava, ma lo presi. E mi ci volle un sacco di tempo solo per trovarlo.

Fu il vecchio professor Antolini ad aprirmi la porta quando sonai - dopo che il ragazzo dell’ascensore si era finalmente deciso a portarmi su, quel bastardo. Era in vestaglia e pantofole, e aveva un cocktail in mano. Era un tipo molto sofisticato, e un bevitore tutt’altro che disprezzabile. - Holden, ragazzo mio! - disse. - Dio santo, questo è cresciuto ancora mezzo metro. Mi fa piacere vederti.

- Come sta, professore? Come sta la signora?

- Stiamo come pascià tutti e due. Dammi quel soprabito -. Mi tolse il soprabito e lo appese. - Mi aspettavo di vederti con un neonato tra le braccia. Senza sapere dove sbattere la testa. Con fiocchi di neve sulle ciglia -. Era proprio un gran burlone, certe volte. Si girò e gridò verso la cucina. - Lillian! Arriva questo caffè? - La signora Antolini si chiamava Lillian.

- È pronto! - gridò lei di rimando. - C’è Holden? Salve, Holden!

- Salve, signora Antolini.

Si gridava sempre, in quella casa. Era perché quei due non stavano mai contemporaneamente nella stessa stanza. Una cosa un po’ buffa.

- Siediti, Holden, - disse il professor Antolini. Si vedeva lontano un miglio che era un po’ brillo. A guardare la stanza, pareva che ci fosse appena stato un ricevimento. C’erano bicchieri dappertutto e piatti con le noccioline dentro. - Scusa questa baraonda, - disse. - Sono venute a trovarci certe persone di Buffalo, amici della signora Antolini... Dei veri bufali, in realtà.

Mi misi a ridere, e la signora Antolini mi gridò qualcosa dalla cucina, ma io non capii. - Cosa ha detto? - domandai al professore.

- Ha detto di non guardarla quando viene. Si è appena alzata dal letto. Prendi una sigaretta. Fumi, adesso?

- Grazie, - dissi. Presi una sigaretta dalla scatola che mi porgeva. - Una volta ogni tanto. Non sono un fumatore accanito.

- Ci scommetto proprio, - disse. Mi accese la sigaretta con quel grosso accenditore da tavolo. - Dunque. Fra te e Pencey tutto è finito, - disse. Diceva sempre cose di questo genere. A volte mi divertiva un mondo e a volte no. Direi che esagerava un po’ troppo. Non dico che non fosse spiritoso e tutto quanto - lo era - ma certe volte ti urta i nervi quando uno dice sempre frasi come “Dunque fra te e Pencey tutto è finito”. Certe volte esagera un po’ troppo anche D. B.

- Cosa è successo? - mi domandò il professor Antolini.- Come sei andato in inglese? Se sei andato male in inglese ti metto alla porta immediatamente, tu piccolo fenomeno in componimenti!

- Oh, in inglese sono passato. Facevamo soprattutto letteratura, però. In tutto il trimestre ho fatto solo due temi,- dissi. - Però sono stato bocciato in Esposizione Orale. C’era da fare questo corso obbligatorio di Esposizione Orale, a Pencey. E qui mi hanno bocciato.

- Perché?

- Oh, non lo so -. Non mi andava tanto di parlarne. Mi sentivo ancora un po’ stordito o che so io, e tutt’a un tratto mi era venuto un mal di capo del diavolo. Sul serio. Ma si capiva benissimo che a lui interessava, e così gliene parlai un poco. - Per un corso in cui bisogna alzarsi in classe e fare un discorsetto. Sa come. Spontaneo e via dicendo. E se ci si mette a divagare, gli altri devono gridar più in fretta che possono “Fuori tema!”. Roba che mi faceva diventare matto. Ho preso tre.

- Perché?

- Oh, non lo so. Quella storia del fuori tema mi dava sui nervi. Non lo so. Il guaio è che a me piace quando uno va fuori tema. E più interessante eccetera eccetera.

- Non vuoi che uno resti in argomento quando ti racconta una cosa?

- Oh, certo! Mi piace che uno resti in argomento e tutto quanto. Ma non mi piace che ci resti troppo. Non lo so. Non mi piace quando uno resta sempre in argomento, credo. I ragazzi che prendevano i voti più alti in Esposizione Orale erano quelli che restavano sempre in argomento, questo lo riconosco. Ma c’era quel ragazzo, Richard Kinsella. Lui non restava molto in argomento, e gli altri non facevano che urlargli “Fuori tema!” Era terribile, prima di tutto perché era un tipo molto nervoso - era un tipo molto nervoso, voglio dire - tutte le volte che toccava a lui di fare un discorso gli tremavano sempre le labbra, e se stavi seduto in fondo alla classe non riuscivi quasi a sentirlo. Però, quando smettevano un pochino di tremargli le labbra, io i suoi discorsi li trovavo migliori di tutti gli altri. Però si è preso una bocciatura anche lui, praticamente.

A forza di gridargli “Fuori tema!” tutto il tempo, gli hanno fatto prendere un cinque. Quel discorso sulla fattoria che suo padre aveva comprato nel Vermont, per esempio. Lui parlava, e loro non hanno fatto altro che gridargli “Fuori tema!”, e il professore, il professor Vinson, gli ha messo quattro perché non aveva detto che specie di animali e di piante e di cose c’erano nella fattoria eccetera eccetera. Quello che faceva Richard Kinsella era che cominciava a parlare di quelle cose, poi, tutt’a un tratto, si metteva a parlare di quella lettera che suo zio aveva scritto a sua madre, e che suo zio aveva avuto la poliomielite e via discorrendo a quarantadue anni, e che voleva che nessuno andasse a trovarlo in ospedale perché voleva che nessuno lo vedesse con l’apparecchio ortopedico. Non c’entrava molto con la fattoria, lo riconosco, ma era simpatico. È simpatico quando uno ti parla di suo zio. Soprattutto quando cominciano a parlarti della fattoria del padre, e poi tutt’a un tratto gli interessa di più lo zio. Voglio dire, è una porcata continuare a gridargli “Fuori tema!” quando lui è così simpatico e pieno di entusiasmo... Non lo so. È difficile da spiegare -. E non mi sentivo nemmeno in vena di provarmici. Tanto per cominciare, avevo quel mal di capo fenomenale così tutt’a un tratto. Pregavo Dio che la vecchia signora Antolini si decidesse a venire col caffè. Ecco una cosa che mi manda fuori dei gangheri - se uno dice che il caffè è pronto quando non è vero, voglio dire.

- Holden... una breve domanda pedagogica e un po’ pedantesca. Non ti pare che ogni cosa debba arrivare a tempo e luogo? Non ti pare che se uno comincia a parlarti della fattoria di suo padre, dovrebbe rimanere nel tema, e poi passare a parlarti dell’apparecchio ortopedico dello zio? Oppure, visto che l’apparecchio di suo zio è un argomento così stimolante, non avrebbe dovuto sceglierlo subito come tema al posto della fattoria?

Non avevo molta voglia di pensare e di rispondere e tutto. Mi faceva male la testa e mi sentivo a terra. Mi faceva un po’ male perfino lo stomaco, se proprio volete saperlo.

- Sì... non lo so. Penso di sì. Voglio dire, penso che come argomento avrebbe dovuto scegliere suo zio invece della fattoria, se lo interessava di più. Ma è questo che voglio dire, un sacco di volte uno non sa che cosa lo interessa di più finché non comincia a parlare di una cosa che non lo interessa di più. Certe volte non si può evitarlo. Quello che penso è che uno va lasciato in pace, se almeno è interessante e si fa prendere dall’entusiasmo per qualche cosa. A me piace, quando uno si entusiasma di qualche cosa. È simpatico. È che lei non ha conosciuto quel professore, il professor Vinson. Certe volte era roba da farti diventare matto, lui e il suo dannato corso. Voglio dire, non faceva altro che raccomandarti di unificare e di semplificare. Con certe cose non si può, è chiaro. Voglio dire, non è che uno può semplificare e unificare qualcosa solo perché un altro vuole così. Lei non ha conosciuto quello là, il professor Vinson. Era molto intelligente e tutto quanto, voglio dire, ma si vedeva lontano un miglio che non era certo un’aquila.

- Finalmente ecco il caffè, signori, - disse la signora Antolini. Era entrata portando quel vassoio col caffè e i dolci e altra roba. - Holden, non mi guardare nemmeno con la coda dell’occhio. Faccio spavento.

- Salve, signora, - dissi. Feci per alzarmi e tutto quanto, ma il professor Antolini mi acchiappò per la giacca e mi tirò un’altra volta giù a sedere. La vecchia signora Antolini aveva la testa piena di quegli arnesi per arricciare i capelli, ed era senza rossetto né niente. Non era certo una Venere. Pareva proprio vecchia e tutto quanto.

- Ve lo lascio qui. Servitevi, voi due, - disse. Posò il vassoio sul tavolo da fumo, spingendo da parte tutti quei bicchieri. - Come sta la mamma, Holden?

- Bene, grazie. Non la vedo da un po’, ma l’ultima volta...

- Caro, se Holden ha bisogno di qualche cosa, sta tutto nell’armadio della biancheria. Sull’ultimo ripiano. Io sono stanca morta, - disse la signora Antolini. E si vedeva. - Saprete preparare il divano da soli, voi due, no?

- Pensiamo a tutto noi. Tu va’ di corsa a letto, - disse il professor Antolini. Diede un bacio alla signora e lei mi augurò la buonanotte e se ne andò in camera. Stavano sempre a baciarsi in pubblico, quei due. Io presi un po’ di caffè e circa la metà di un dolce duro come un sasso o quasi. Ma il professor Antolini prese solo un altro cocktail. E li fa belli forti, tra l’altro, si capisce benissimo. Rischia di finire alcolizzato, se non ci va piano.

- Un paio di settimane fa ho pranzato con tuo padre,- disse tutt’a un tratto. - Lo sapevi?

- No, non lo sapevo.

- Naturalmente lo capisci che è molto preoccupato per te.

- Lo so. Questo lo so, - dissi.

- A quanto pare, prima di telefonarmi aveva ricevuto dal tuo ultimo preside una lunga lettera piuttosto penosa, nella quale lo si informava che tu non ti impegnavi affatto. Saltavi i corsi. Ti presentavi regolarmente impreparato. Insomma, eri del tutto...

- Non saltavo nessun corso. Mica lo permettono. Ce n’erano un paio che una volta al secolo mi risparmiavo di andarci, per esempio quell’Esposizione Orale che le ho detto prima, ma non ho mai saltato i corsi.

Non avevo la minima voglia di parlarne. Il caffè mi faceva sentire un po’ meglio con lo stomaco, ma avevo ancora quel tremendo mal di capo.

Il professor Antolini si accese un’altra sigaretta. Fumava come un turco. Poi disse: - Francamente, non so che diavolo dirti, Holden.

- Lo so. Parlare con me è un problema difficile. Me ne rendo conto.

- Ho l’impressione che tu ti stia deliberatamente preparando a un capitombolo, un terribile capitombolo. Ma, onestamente, non so di che genere... Mi senti?

- Sì.

Era chiaro che stava cercando di concentrarsi eccetera eccetera.

- Può essere di quel genere per cui a trent’anni te ne stai seduto in un bar odiando tutti quelli che entrano se appena appena hanno l’aria d’aver giocato a rugby in un’università, oppure, puoi racimolare quel tanto di istruzione che basta per odiare la gente che dice “Tolto io, c’erano tutti”. O forse finirai in qualche ufficio, a scaraventare cancelleria sulla testa della stenografa più vicina. Non lo so, francamente. Ma tu sai dove voglio arrivare, almeno?

- Sì. Certo, - dissi. E lo sapevo, infatti. - Però tutta quella storia dell’odio è sbagliata. Voglio dire, odiare quelli che giocano a rugby e compagnia bella. Sbagliatissima. Non odio mica tanta gente, io. Posso odiarli per un poco, magari, questo sì, come Stradlater, un tale che c’era a Pencey, e quell’altro, Robert Ackley. Ogni tanto li odiavo proprio, questo è vero, ma non durava mai molto, ecco quello che voglio dire. Dopo un po’, se non li vedevo, se non venivano in camera, o se non li vedevo in sala da pranzo per due volte di seguito, sentivo perfino la loro mancanza. Dico davvero, sentivo perfino la loro mancanza.

Per un poco il professor Antolini non disse niente. Si alzò, prese un altro cubetto di ghiaccio, lo mise nel suo cocktail, poi tornò a sedersi. Era chiaro che stava pensando. Io però avrei voluto con tutta l’anima che continuasse quel discorso la mattina dopo, anziché in quel momento, ma lui era partito in quarta. La gente ha sempre la smania di discutere quando tu non ce l’hai.

- Benissimo. Ora stammi a sentire un momento... può darsi che non esprima tutto questo in modo memorabile come vorrei, ma tra un giorno o due ti scriverò una lettera. Allora ti riuscirà tutto chiaro. Ma adesso sta’ a sentire, ad ogni modo -.

Ricominciò a concentrarsi. Poi disse: - Il capitombolo che secondo me ti stai preparando a fare... è un tipo speciale di capitombolo, orribile. A chi precipita non è permesso di accorgersi né di sentirsi quando tocca il fondo. Continua soltanto a precipitare giù. Questa bella combinazione è destinata agli uomini che, in un momento o nell’altro della loro vita, hanno cercato qualcosa che il loro ambiente non poteva dargli. O che loro pensavano che il loro ambiente non potesse dargli. Sicché hanno smesso di cercare. Hanno smesso prima ancora di avere veramente cominciato. Mi segui?

- Sì, professore.

- Sicuro?

- Sì.

Si alzò e andò a versarsi un altro cicchetto. Poi si sedette di nuovo. Per un pezzo non disse niente.

- Non voglio spaventarti, - disse poi. - Ma non stento affatto a vederti morire nobilmente, in un modo o nell’altro per una causa indicibilmente ignobile -. Mi diede una strana occhiata. - Se ti scrivo una cosa, la leggi con attenzione? E la conservi?

- Sì. Ma certo, - dissi. E l’ho fatto, anche. Ho ancora il foglietto che mi ha dato.

Si avvicinò a quella scrivania dall’altra parte della stanza e senza nemmeno sedersi scrisse qualcosa su un pezzo di carta, poi tornò e si sedette con quel foglio in mano. - Per quanto sembri strano, questo non l’ha scritto un poeta di mestiere, l’ha scritto uno psicanalista che si chiamava Wilhelm Stekel, ecco quello che... mi segui ancora?

- Ma sì, certo.

- Ecco quello che ha detto: “Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa”.

Si chinò in avanti e me lo porse. Io lo lessi subito appena lui me lo diede, e poi lo ringraziai eccetera eccetera e me lo misi in tasca. Era stato gentile a prendersi tutto quel disturbo, sul serio. Ma il fatto era che non mi sentivo di concentrarmi, ragazzi, tutt’a un tratto mi sentivo così maledettamente stanco.

Ma si vedeva lontano un miglio che lui non era stanco per niente. Tanto per cominciare, era brillo forte. - Io credo, - disse, - che uno di questi giorni ti toccherà di scoprire dove vuoi andare. E allora devi metterti subito in marcia. Ma immediatamente. Non puoi permetterti di perdere un minuto. Tu no.

Feci di sì con la testa perché lui mi guardava in faccia e via discorrendo, ma non ero troppo sicuro di capire che diavolo avesse in mente. Ero quasi sicuro di saperlo, ma in quel momento non ci avrei giurato. Ero troppo stanco, accidenti.

- E mi dispiace dirtelo, - continuò, - ma credo che non appena comincerai a vedere chiaramente dove vuoi andare, il tuo primo impulso sarà di applicarti allo studio. Per forza. Sei uno studioso, che ti piaccia o no. Smanii di sapere. E io credo che non appena ti sarai lasciato dietro tutti i professori Vines e i loro temi ora...

- I professori Vinson, - dissi io. Voleva dire tutti i professori Vinson, non tutti i professori Vines. Però non avrei dovuto interromperlo.

- D’accordo, i professori Vinson. Non appena ti sarai lasciato dietro tutti i professori Vinson, allora comincerai ad andare sempre più vicino, se sai volerlo e se sai cercarlo e aspettarlo, a quel genere di conoscenza che sarà cara, molto cara al tuo cuore. Tra l’altro, scoprirai di non essere il primo che il comportamento degli uomini abbia sconcertato, impaurito e perfino nauseato. Non sei affatto solo a questo traguardo, e saperlo ti servirà d’incitamento e di stimolante. Molti, moltissimi uomini si sono sentiti moralmente e spiritualmente turbati come te adesso. Per fortuna, alcuni hanno messo nero su bianco quei loro turbamenti. Imparerai da loro... se vuoi. Proprio come un giorno, se tu avrai qualcosa da dare, altri impareranno da te. È una bella intesa di reciprocità. E non è istruzione. È storia. È poesia -. Si interruppe e mandò giù un bel sorso di cocktail. Poi ricominciò. Ragazzi, era proprio partito in quarta. Meno male che non avevo cercato di fermarlo né niente. - Non sto cercando di dirti, - prosegui, - che soltanto gli uomini colti e preparati sono in grado di dare al mondo un contributo prezioso. Non è vero. Ma sostengo che gli uomini colti e preparati, se sono intelligenti e creativi, tanto per cominciare, e questo purtroppo succede di rado, tendono a lasciare, del proprio passaggio, segni di gran lunga più preziosi che non gli uomini esclusivamente intelligenti e creativi. Tendono ad esprimersi con più chiarezza, e di solito hanno la passione di seguire i propri pensieri sino in fondo. E, cosa importatissima, nove volte su dieci sono più modesti dei pensatori non preparati. Mi segui, di’. - Sì, professore.

Ancora una volta non disse niente per un pezzo. Non so se vi sia mai capitato, ma è un po’ faticoso starsene là seduto aspettando che uno dica qualcosa mentre pensa eccetera eccetera, sul serio. Mi sforzavo di non sbadigliare. Non è che mi annoiassi, per niente, ma tutt’a un tratto mi era venuto un sonno del diavolo.

- Gli studi accademici ti renderanno un altro servigio, se li prosegui per parecchio tempo, cominceranno a farti capire che taglia di mente hai. Che cosa le va bene e, forse, che cosa non le va bene. Dopo un poco, comincerai a capire a che specie di pensieri dovrebbe attenersi la tua particolare taglia di mente. Per dirne una, questo può farti risparmiare tutto il tempo che perderesti a provarti idee che non ti si addicono, che non sono adatte a te. Comincerai a conoscere le tue vere misure e a vestire la tua mente attenendoti a quelle.

Allora, tutt’a un tratto, sbadigliai. Razza di bastardo maleducato, ma chi ce la faceva più. Però il professor Antolini si mise a ridere. - Andiamo, - disse, e si alzò. - Prepariamo il tuo divano.

Lo seguii, e lui andò a quell’armadio e cercò di prendere dall’ultimo ripiano lenzuola, coperte e vattelappesca, ma con quel bicchiere di cocktail in mano non ci riusciva. Allora se lo scolò tutto, posò il bicchiere per terra e poi tiro giù la roba. Io lo aiutai a portarla sul divano. Facemmo il letto insieme. Non è che lui fosse un fenomeno. Non rimboccava niente come si deve. Ma chi se ne infischiava. Roba che potevo dormire in piedi, tanto ero stanco.

- Come stanno tutte le tue donne?

- Magnificamente -. La mia eloquenza si sprecava, ma non mi sentivo in vena.

- Come sta Sally? - Conosceva la vecchia Sally Hayes. Una volta gliel’avevo presentata.

- Benissimo. L’ho vista oggi pomeriggio -. Ragazzi, pareva che fossero passati vent’anni! - Non abbiamo più molto in comune.

- Carina da morire. E quell’altra ragazza? Quell’altra di cui mi hai parlato, quella del Maine.

- Oh, Jane Gallagher. Sta bene. Domani probabilmente le telefono.

Avevamo finito di fare il letto. - È tutto tuo, - disse il professor Antolini. - Ma non so che diavolo farai delle gambe, però.

- Oh, va benissimo. Sono abituato ai letti corti, - dissi.

- Grazie mille, professore. Stanotte mi avete proprio salvato la vita, lei e la signora.

- Il bagno sai dov’è. Se hai bisogno di qualcosa lancia un urlo. Io per un po’ resto in cucina; ti dà fastidio la luce?

- No, macché, no davvero. Grazie mille.

- Bene. Buonanotte, bello.

- Buonanotte. Grazie mille.

Lui se ne andò in cucina e io andai nel bagno a spogliarmi e tutto quanto. Non potei lavarmi i denti perché non avevo lo spazzolino. Non avevo nemmeno il pigiama e il professor Antolini si era dimenticato di prestarmene uno. Sicché me ne tornai nella stanza di soggiorno, spensi quella piccola lampada vicino al divano e poi me ne andai a letto con addosso soltanto gli slip. Altro che corto, quel divano, ma avrei potuto davvero dormire in piedi senza batter ciglio. Rimasi sveglio sì e no un paio di secondi, ripensando a tutto quello che mi aveva detto il professor Antolini. Sul fatto di scoprire la taglia della propria mente eccetera eccetera. Era proprio un tipo in gamba, Ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti e mi addormentai.

Poi successe una cosa. Mi secca perfino di parlarne. Tutt’a un tratto mi svegliai. Non so che ora fosse, niente, ma mi svegliai. Mi sentivo qualcosa sulla testa, la mano di qualcuno. Ragazzi, mi venne proprio un accidente! Be’, era la mano del professor Antolini. Era andata a finire che si era seduto per terra vicino al divano, al buio e tutto quanto, e mi stava dio sa se accarezzando o coccolando quella stramaledetta testa. Ragazzi, giuro che feci un balzo di mezzo chilometro.

- Che diavolo sta facendo? - dissi.

- Niente! Sto semplicemente seduto qui, in ammirazione,

- Ma che sta facendo, insomma? - dissi un’altra volta, Non sapevo che diavolo dire; be’, ero imbarazzato in modo tremendo.

- Che ne diresti di parlare a bassa voce? Sto semplicemente seduto qui...

- Io devo andarmene, ad ogni modo, - dissi. Ragazzi, quant’ero nervoso! Cominciai a infilarmi al buio quei maledetti calzoni. Quasi non riuscivo a mettermeli, tant’era l’accidente di nervoso che avevo addosso. Tra scuola e compagnia bella, conosco più dannati pederasti io che tutta la gente che avete incontrata in vita vostra, e gli pigliano gli accessi sempre quando nelle vicinanze ci sono io.

- Devi andare dove? - disse il professor Antolini. Faceva di tutto per sembrare maledettamente disinvolto e calmo eccetera eccetera, ma non era davvero tanto calmo, accidenti a lui. Ve lo garantisco io.

- Ho lasciato alla stazione le valige e tutto quanto. È meglio che vada a prenderle, credo. C’è dentro tutta la mia roba.

- Ci saranno anche domattina. Torna a letto, adesso. Vado a letto anch’io. Che ti prende?

- Non mi prende niente, è solo che in una delle valige c’è tutto il denaro e il resto. Torno subito. Prendo un tassi e torno subito -. Ragazzi, che casamicciola stavo facendo, lì al buio.

- Il fatto è che quel denaro non è mio. È di mia madre, e io...

- Non essere ridicolo, Holden. Torna a letto. Vado a letto anch’io. Il denaro lo troverai sano e salvo anche domat...

- No, senza scherzi. Devo proprio andare. Davvero -. Ero già quasi tutto vestito, solo che non riuscivo a trovare la cravatta. Non riuscivo a ricordarmi dove diavolo avessi cacciato la cravatta. Mi misi la giacca e tutto quanto senza la cravatta. Il professor Antolini adesso si era seduto nella poltrona grande, un po’ lontano da me, e mi fissava. Era buio e tutto quanto e non potevo vederlo bene, ma sapevo benissimo che mi stava fissando. E continuava a sbevazzare, tra l’altro. Gli vedevo in mano il suo fedelissimo bicchiere.

- Sei un ragazzo molto, molto strano.

- Lo so, - dissi. Non persi nemmeno tempo a cercare la cravatta. Così me ne andai senza. - Arrivederci, professore, - dissi. - Grazie mille. Dico davvero.

Quando mi diressi verso la porta di casa lui mi venne dietro, e quando premetti il bottone dell’ascensore lui si fermò su quella maledetta porta. Si limitò a ripetere quel ritornello che ero “un ragazzo molto, molto strano”. Strano, accidenti a lui! Poi rimase ad aspettare là sulla porta e via discorrendo finché non venne quel maledetto ascensore. Non ho mai aspettato tanto un ascensore in tutta la mia maledetta vita. Giuro.

Mentre aspettavo l’ascensore non sapevo di che diavolo parlare, con lui che continuava a starsene là, così dissi: - Mi metterò a leggere dei buoni libri. Sul serio -. Bisognava pure dire qualcosa! Era molto imbarazzante.

- Prendi le valige e torna a tutta velocità. Lascio la porta senza catenaccio.

- Grazie mille, - dissi. - Ci vediamo -. Finalmente era arrivato l’ascensore. Ci entrai e scesi giù. Ragazzi, tremavo come un dannato. E sudavo, anche. Mi prende un sudore freddo del diavolo, quando succede una di queste storie da invertiti. Cose del genere mi saranno già capitate una ventina di volte da quando ero bambino. Non posso mandarle giù.