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Me ne restai là seduto a sbronzarmi e ad aspettare che comparissero la vecchia Tina e la vecchia Janine a fare la loro solita solfa, ma non c’erano più. Comparve un tipo di finocchio dalle chiome ondulate che sonava il piano, e poi venne fuori a cantare quella nuova bambola, Valencia. Non era niente di speciale, ma sempre meglio di Tina e Janine, e se non altro cantava belle canzoni. Il piano stava proprio vicino al bar dov’ero seduto io e compagnia bella, e la vecchia Valencia era lì in piedi praticamente a un passo da me. Io mi misi a spogliarla con gli occhi, ma quella fece finta di non avermi nemmeno visto. Non l’avrei fatto, probabilmente, ma mi stavo prendendo una sbornia dell’accidente. Quando fini di cantare, se la filò dalla sala così in fretta che non ebbi nemmeno la possibilità di invitarla a bere qualcosa con me, allora chiamai il capo cameriere. Gli dissi di domandare alla vecchia Valencia se voleva sedersi a bere con me. Lui disse che andava a domandarglielo. Ma figuriamoci se le disse qualcosa. La gente non porta mai le ambasciate a nessuno.

Ragazzi, restai seduto a quel maledetto bar fin verso l’una prendendomi una solennissima sbornia. A momenti ci vedevo doppio. Stavo attentissimo a una cosa sola, però, a non diventare turbolento né niente. Non volevo che qualcuno si accorgesse di me o vattelappesca e mi domandasse quanti anni avevo. Ma ragazzi, a momenti ci vedevo doppio. Quando fui proprio ciucco, ricominciai quella stupida commedia della pallottola in pancia. Ero l’unico in quel bar con una pallottola in pancia. Continuavo a tenere la mano sotto la giacca, sulla pancia e compagnia bella, perché il sangue non mi gocciolasse dappertutto. Non volevo far sapere nemmeno che ero ferito, a nessuno. Nascondevo il fatto che ero un figlio d’un cane di ferito. Be’, poi andò a finire che mi venne voglia di fare una telefonata alla vecchia Jane per sapere se era già a casa. Sicché pagai il conto e tutto quanto. Poi uscii dal bar e andai dove c’erano i telefoni. Continuavo a tenermi la mano sotto la giacca per evitare che il sangue gocciolasse. Ragazzi, che sbornia! Ma quando entrai in quella cabina telefonica, non ero più molto in vena di chiamare Jane. Ero troppo sbronzo, mi sa. Allora andò a finire che chiamai la vecchia Sally. Dovetti fare una ventina di numeri prima di azzeccare quello giusto. Ragazzi, e chi ci vedeva!

- Pronto! - dissi, quando a quel dannato telefono rispose qualcuno. Urlai, quasi, tanto ero sbronzo.

- Chi parla? - disse quella gelida voce da gran dama.

- Sono io. Holden Caulfield. Mi fa parlare con Sally, per favore.

- Sally dorme. Io sono la nonna di Sally. Perché chiama così tardi, Holden? Ma lo sa che ora è?

- Sì. Voglio parlare con Sally. Importantissimo. Me la passi.

- Sally dorme, giovinotto. La chiami domani. Buonanotte.

- La svegli! La svegli, dico! Dai, forza!

Allora si senti un’altra voce. - Holden, sono io -. Era la vecchia Sally. - Cos’è quest’idea brillante?

- Sally? Sei tu?

- Sì, e smettila di gridare. Sei ubriaco?

- Sì. Sta’ a sentire. Ehi, sta’ a sentire. Vengo la vigilia di Natale. D’accordo? A decorarti quel maledetto albero. D’accordo? Ehi, Sally, d’accordo?

- Sì. Sei ubriaco. Ora va’ a letto. Dove sei? Chi c’è con te?

- Sally? Vengo a decorarti l’albero, d’accordo? D’accordo, sì o no?

- . Ora va’ a letto. Dove sei? Chi c’è con te?

- Nessuno. Me, io e me stesso -. Ragazzi, che sbornia!

Stavo perfino reggendomi ancora la pancia. - Mi hanno impiombato. Gli scagnozzi di Rocky mi hanno impiombato. Lo sai? Sally, lo sai?

- Non ti sento. Ora va’ a letto. Devo lasciarti. Chiamami domani.

- Ehi, Sally! Vuoi che ti decori l’albero? Vuoi? Eh?

- ! Buonanotte. Vattene a casa e mettiti a letto.

E riattaccò.

- ‘Notte. ‘Notte. Piccola Sally. Sally adorata tesoro, - dissi. Ve lo figurate, quant’ero sbronzo? Poi riattaccai a mia volta. Mi immaginai che probabilmente era appena tornata a casa da un appuntamento. La vidi fuori coi Lunt e compagnia bella in qualche posto, e quel lavativo che andava ad Andover. Tutti quanti che nuotavano in una maledetta teiera e si dicevano cose molto intellettuali e facevano gli irresistibili e i balordi. Mi mordevo le mani all’idea di averle telefonato. Quando sono sbronzo, ammattisco.

Restai in quella dannata cabina telefonica per un pezzo. Continuavo a reggermi al telefono, in certo qual modo, se no crollavo. Non mi sentivo in gran forma, se volete proprio saperlo. Finalmente, però, uscii di là e andai alla toletta degli uomini, urlando come un cretino, e riempii un lavabo di acqua fredda. Poi ci tuffai dentro la testa fino alle orecchie. Non mi curai nemmeno di asciugarla né niente. Che quella figlia di puttana gocciolasse, amen. Poi andai al termosifone vicino alla finestra e mi ci sedetti sopra. Era caldo e gradevole. Mi faceva sentir bene perché stavo tremando come un idiota. È una cosa buffa, quando mi sbronzo tremo sempre a tutto spiano.

Non avevo nient’altro da fare, sicché me ne restai seduto sul termosifone a contare quei piccoli riquadri bianchi del pavimento. Mi stavo inzuppando. L’acqua mi gocciolava sul collo a litri e finiva tutta sul colletto e sulla cravatta e compagnia bella, ma non me ne importava un accidente. Ero troppo ciucco per badarci. Poi, non era passato molto, quel tale che sonava il piano per la vecchia Valencia, quella specie di finocchio tutto ondulato, entrò per pettinarsi i riccioli d’oro. Mentre si stava pettinando attaccammo un po’ discorsa, per quanto non è che lui fosse tanto cordiale.

- Ehi. Vede quella bambola di Valencia, adesso che torna nel bar? - gli domandai.

- È estremamente probabile, - disse lui. Bastardo spiritoso. Tutti quelli che incontro io sono dei bastardi spiritosi.

- Senta. Le porga i miei ossequi. E le domandi se quel maledetto cameriere le ha fatto la mia ambasciata, le spiace?

- Perché non te ne vai a casa, bello? Quanti anni hai, a proposito?

- Ottantasei. Senta. Le porga i mie ossequi. Intesi?

- Perché non te ne vai a casa, bello?

- Perché no. Ragazzi, lo sa sonare proprio, lei, quel maledetto piano! - gli dissi. Lo stavo solo lisciando. Sonava il piano in modo schifo, se proprio volete saperlo. - Dovrebbe andare alla radio, - dissi. - Uno bello come lei. Tutti quei dannati riccioli d’oro. Le occorre un agente?

- Vattene a casa, bello, su da bravo. Vattene a casa e fatti un bel sonno.

- Non ho una casa dove andare. Senza scherzi, le occorre un agente?

Non mi rispose. Si limitò ad uscire. Aveva finito di pettinarsi e di lisciarsi e via discorrendo, e così se ne andò. Come Stradlater. Questi apolli sono tutti uguali. Quando si sono pettinati ben bene i loro stramaledetti capelli, ti piantano in asso.

Quando alla fine scesi dal termosifone e mi diressi al guardaroba, stavo piangendo e tutto quanto. Vattelappesca perché, ma piangevo. Forse perché mi sentivo così maledettamente solo e depresso, immagino. Poi, quando arrivai al guardaroba, Dio solo sa dove avevo messo quel maledetto scontrino. Là ragazza del guardaroba fu molto carina, però. Mi diede il soprabito lo stesso. E il mio disco di Little Shirley Beans - che ce l’avevo ancora e via discorrendo. Le diedi un dollaro perché era stata così carina, ma lei non volle prenderlo. Continuava a dirmi di andare a casa e di mettermi a letto. Feci qualche tentativo di darle un appuntamento per quando smontava dal lavoro, ma lei non volle. Disse che era abbastanza vecchia per essere mia madre e via discorrendo. Io le feci vedere i miei stramaledetti capelli bianchi e le dissi che avevo quarantadue anni - per scherzo, naturalmente. Era carina, però. Le feci vedere quel mio dannato berretto rosso da cacciatore e le piacque. Prima che uscissi me lo fece mettere perché avevo ancora i capelli fradici. Era proprio in gamba.

Quando uscii non mi sentivo più tanto sbronzo, ma era tornato un gran freddo e cominciai a battere i denti come un dannato. Non riuscivo a trattenermi. Andai fino alla Madison Avenue e mi misi ad aspettare un autobus, perché non avevo quasi più soldi e dovevo cominciare a far economia sui tassi e via discorrendo. E del resto, non sapevo nemmeno dove andare. Così andò a finire che mi incamminai verso il parco. Mi venne l’idea di andare a quel laghetto per vedere che diavolo facessero le anitre, se c’erano o no. Ancora non sapevo se c’erano o no. Il parco non era molto lontano e io non avevo nessun altro posto dove andare - non sapevo nemmeno dove sarei andato a dormire - così andai là. Non avevo sonno né niente. Avevo solo una malinconia del diavolo.

Poi, proprio mentre entravo nel parco, successe una cosa terribile. Mi cadde di mano il disco della vecchia Phoebe. Si ruppe in cinquanta pezzi a dir poco. Era in una grossa busta e tutto quanto, ma si ruppe lo stesso. A momenti piangevo, mi sentivo in un modo terribile, ma non feci altro che tirare fuori i pezzi dalla busta e mettermeli nella tasca del soprabito. Non servivano più a un accidente, ma non me la sentivo di buttarli via. Poi andai nel parco. Ragazzi, che buio!

Ho passato a New York tutta la mia vita e conosco Central Park come le mie tasche, perché da bambino ero sempre là a pattinare e a scorrazzare in bicicletta, ma quella notte sudai sette camicie a trovare quel lago. Sapevo benissimo dov’era - era proprio a due passi da Central Park South e via discorrendo - ma non mi riusciva di trovarlo. Dovevo essere più ciucco di quanto credessi. Continuavo a camminare, un passo dietro l’altro, e intorno a me tutto diventava sempre più buio e sempre più spettrale. Non vidi un’anima per tutto il tempo che restai nel parco. Meglio così. Probabilmente avrei fatto un balzo di almeno un chilometro, se avessi incontrato qualcuno. Poi, alla fine, lo trovai. Era mezzo gelato e mezzo no, ecco com’era. Ma non vidi nemmeno un’anitra. Feci tutto il giro di quel maledetto lago - a un certo punto per poco non ci cascavo dentro, anzi - ma non vidi un’anitra neanche a pagarla. Pensai che forse non ce n’erano, come niente dormivano o che so io vicino all’orlo dell’acqua, vicino all’erba e compagnia bella. Fu così che per poco non ci cascavo dentro. Ma non ne trovai neanche una.

Alla fine mi sedetti su quella panchina, e là non c’era quel buio d’inferno. Ragazzi, stavo ancora tremando come un idiota, e con tutto che avevo in testa il mio berretto da cacciatore i capelli, dietro, mi si erano come riempiti di piccoli pezzetti di ghiaccio. Questo mi preoccupava. Come niente mi prendevo la polmonite e morivo, pensai. Allora mi misi a figurarmi i milioni di balordi che sarebbero venuti al mio funerale eccetera eccetera. Mio nonno di Detroit, quello che quando andate in autobus con lui dice forte i numeri delle strade, e le mie zie - ho una cinquantina di zie - e tutti quei pidocchiosi dei miei cugini. Che ciurma ci sarebbe stata! Vennero tutti quando mori Allie, tutta quella dannata banda di cretini. Ho quella zia cretina con l’alito cattivo che non la finiva più di dire che Allie aveva un’aria così serena, lì disteso. Me l’ha raccontato D. B. Io non c’ero. Stavo ancora in ospedale. Ero dovuto andare in ospedale e tutto quanto, dopo essermi fatto male alla mano. Ad ogni modo continuavo a preoccuparmi che stavo buscandomi una polmonite, ma tutti quei pezzetti di ghiaccio nei capelli, e che sarei morto. Mi dispiaceva enormemente per mia madre e mio padre. Soprattutto per mia madre, perché non si era ancora ripresa dopo mio fratello Allie. Continuavo a raffigurarmela che non sapeva cosa fare di tutti i miei vestiti e l’attrezzatura sportiva e compagnia bella. Una sola cosa andava bene: sapevo che non avrebbe permesso alla vecchia Phoebe di andare al mio maledetto funerale, perché era soltanto una ragazzina. Questa era l’unica cosa che andasse bene. Poi pensai a tutti loro in gruppo che mi ficcavano in un dannato cimitero e via discorrendo, col mio nome sulla lapide e via discorrendo. In mezzo a tutti quei morti. Ragazzi, quando morite vi servono di tutto punto. Spero con tutta l’anima che quando morirò qualcuno avrà tanto buonsenso di scaraventarmi nel fiume o qualcosa del genere. Qualunque cosa, piuttosto che ficcarmi in un dannato cimitero. La gente che la domenica viene a mettervi un mazzo di fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate. Chi li vuole i fiori, quando sei morto? Nessuno.

Quando fa bel tempo, i miei genitori vanno spessissimo a mettere un mazzo di fiori sulla tomba del vecchio Allie. Sono andato con loro un paio di volte, poi ho smesso. Tanto per cominciare, non mi diverte proprio vederlo in quel cimitero pazzesco. In mezzo ai morti e alle tombe e compagnia bella. Ancora ancora quando c’era il sole, ma ben due volte - due volte - eravamo là quando cominciò a piovere. Era spaventoso. Pioveva sulla sua lapide schifa, e pioveva sull’erba sulla sua pancia. Dappertutto, pioveva. Tutti quelli che erano andati a visitare il cimitero si misero a correre a gambe levate verso le loro automobili. Fu questo a farmi quasi impazzire. Tutti quanti potevano correre nelle loro automobili e aprire la radio e tutto quanto e poi andare a cena in qualche posto gradevole - tutti, fuorché Allie. Non potevo sopportarlo. Lo so che al cimitero c’è soltanto il suo corpo eccetera eccetera e che la sua anima è in cielo e tutte quelle cretinate, ma non potevo sopportarlo lo stesso. Vorrei soltanto che non fosse là. Voi non lo conoscevate. Se l’aveste conosciuto, capireste cosa voglio dire. Ancora ancora quando c’è il sole, ma il sole viene fuori quando gli gira.

Dopo un po’, tanto per togliermi dalla testa quell’idea che mi buscavo la polmonite e via discorrendo, tirai fuori i miei soldi e mi misi a contarli alla luce schifa del lampione. Tutto quello che mi restava erano tre colpi da uno, cinque da un quarto e un nichel - ragazzi, avevo speso un patrimonio da quando ero partito da Pencey. Allora andò a finire che mi avvicinai al lago e feci a rimbalzello con le monete da un quarto e il nichel, là dove non c’era il ghiaccio. Perché lo feci non lo so, ma so che lo feci. Forse pensavo che mi avrebbe tolto dalla testa quell’idea di buscarmi la polmonite e di morire, immagino. Però non me la tolse.

Cominciai a pensare che effetto avrebbe fatto alla vecchia Phoebe se mi fossi buscato la polmonite e fossi morto. Erano idee da asilo infantile, ma non riuscivo a smetterla. Sarebbe stata molto male se fosse successa una cosa simile. Le vado proprio a genio. Voglio dire, mi vuole molto bene. Sul serio. Ad ogni modo, non riuscivo a togliermi dalla testa quell’idea sicché alla fine mi venne in mente quello che avrei fatto, mi venne in mente che era meglio se andavo a casa di nascosto e vedevo Phoebe, nell’ipotesi che fossi morto e via discorrendo. Avevo la mia chiave e tutto quanto, sarei entrato di nascosto nell’appartamento, piano piano e tutto quanto, e mi sarei fermato il tempo di far quattro chiacchiere con lei. L’unica cosa che mi preoccupava era la porta d’ingresso. Cigola come una dannata. È una casa piuttosto vecchia, la nostra, e l’amministratore è un bastardo sfaticato, e tutto cigola e scricchiola. Avevo paura che i miei genitori mi sentissero entrare. Ma decisi che avrei tentato lo stesso.

Così me ne uscii subito dal parco e andai a casa. Feci tutta la strada a piedi. Non era tanto lontano, e io non ero stanco e nemmeno più sbronzo. C’era solo un freddo terribile, e nemmeno un cane in giro.