SIGNOR CANDY MAN
Le nostre figlie lo chiamavano così: signor Candy Man. Devo confessare che all’inizio trovavo l’appellativo Candy Man inadeguato all’uomo di cui ancora oggi non conosco il nome. La figura del signor Candy Man, che stimavo tra i settantacinque e gli ottant’anni, mi era nota fin dalla tarda primavera. Di pomeriggio sedeva su una panchina nel Piccolo parco, leggeva “la Repubblica” o vagava con lo sguardo nel vuoto, il giornale ripiegato in mano, come a caccia di zanzare. All’inizio mi insospettiva, si deliziava alla vista delle giovani coppie. Le tenerezze che si scambiavano, per le quali evidentemente non trovavano altri posti, talvolta mi apparivano audaci. Ma questo dipendeva certamente dal fatto che ci venivo sempre con Anna e Paula – la loro scuola materna si trovava a pochi passi, dall’altra parte della strada.
Il parco, che in realtà è intitolato a Marguerite Duras, è più che altro un parco giochi infoltito da qualche dozzina di pini domestici, che piegano a sud anche quando non c’è vento. Le loro ombre, che scorrono su panchine, sentieri di ghiaia e i radi tappeti erbosi, sono così piccole che non si può restare seduti nello stesso posto per più di venti minuti. Il signor Candy Man conosceva i movimenti di quelle ombre e cambiava panchina prima ancora che il sole lo raggiungesse.
Quando arrivavo tra le due e mezzo e le tre meno un quarto, sedeva con il suo giornale a metà del sentiero che saliva verso la giostra e l’annesso padiglione. Verso le tre, seguendo la propria coreografia, prendeva posto nelle nostre vicinanze, proprio accanto alle altalene, su una delle sedie di plastica verde scuro. Da lì, in cima a una collinetta, si vedevano gli ombrelloni del bar dall’altra parte.
Una volta, dev’essere stato all’inizio di giugno, le nostre sedie erano così vicine che lo salutai. Si chinò brevemente in avanti, come per alzarsi, e mise mano al cappello. Poiché non avevo a disposizione un gesto dalla forma altrettanto perfetta, lo salutai subito una seconda volta accennando un inchino.
Quel giorno – la pausa pranzo della giostra non finiva più e il bar aveva già chiuso per ferie – regalò per la prima volta alle bambine due di quei gettoni d’ottone. Non ci fu bisogno che indicasse gli apparecchi automatici accanto ai videogiochi di Formula uno e dicesse “Candy Man”, le bambine partirono subito di corsa. Le aiutò a inserire i gettoni, provvisti di una scanalatura, nella fessura della macchina.
Fu lui a manovrare la leva. E a quel punto mi avvicinai anch’io, perché volevo vedere come si muoveva l’artiglio nella cabina di vetro sopra i sacchettini con i lecca-lecca e le girelle di liquirizia. Benché sulla leva ci fosse un bottone per far abbassare l’artiglio, bisognava aspettare che questo scendesse da solo. Già la prima volta quello arraffò tre sacchettini, ma, mentre li portava via, il bastoncino del lecca-lecca urtò la parete oltre la quale si trovava il tubo che portava all’esterno e ricadde. Il signore serrò il pugno deluso, l’istante dopo si udì una voce nasale: “Candy Man!”, e le bambine si chinarono a raccogliere i pacchetti dall’apertura inferiore.
Tornando a casa, quando dissi alle bambine che non dovevano mai seguire un uomo o una donna sconosciuti, Paula replicò con aria di rimprovero: “Ma il signor Candy Man lo conosciamo!”.
Il pomeriggio successivo Anna e Paula si fermarono davanti al signore intento a leggere “la Repubblica”. Lui chiuse subito il giornale e fece tintinnare i gettoni nella tasca dei calzoni.
La cosa bella della macchina Candy Man era che ripeteva i suoi tentativi finché non cadeva almeno un pacchetto nel buco. Per due volte avevo tentato la fortuna alla macchina vicina, che richiedeva una giocata da un euro. Per due volte il braccio prensile si richiuse sul pallone, per due volte le sue forze vennero meno già l’attimo dopo e il braccio prensile risalì con un ronzio senza che la palla si fosse spostata di un solo millimetro.
Il signor Candy Man fece un cenno di diniego e mosse la mano di taglio davanti alla gola. Strozzini, voleva certo dire. “Il paesaggio dei palloni,” disse, “da settimane è rimasto invariato.” Come per consolarmi, estrasse dalla tasca della giacca una di quelle caramelle minuscole che ti danno in aereo prima di atterrare e me la donò. Non volevo rifiutare, ma non ebbi il coraggio di scartarla e infilarmela in bocca.
Il mio italiano da principiante non consentì un vero dialogo. Capii qualcosa, ma più di due chiacchiere sul tempo che faceva, e che ero lì come “scrittore” e risiedevo per un anno a Villa Massimo, non mi riuscì. Lui sorrise. Villa Massimo, disse, era lì dov’eravamo.
“Qui? No, lassù,” dissi e indicai il viale di Villa Massimo. Lui insisté, Villa Massimo era lì dov’eravamo seduti. Un tempo, disse, qui era tutto Villa Massimo. Ora era rimasto soltanto quel parco, e tutti i romani lo chiamavano Villa Massimo. Questa fu la nostra più lunga conversazione in italiano.
Spesso sedevamo semplicemente l’uno accanto all’altro e guardavamo le bambine e le coppiette. Sembrava che lui fosse il responsabile dei gettoni d’ottone, io invece dei grossi gettoni di plastica rosa che servivano per la giostra.
Il signor Candy Man indossava quasi sempre lo stesso abito chiaro, solo la cravatta la cambiava ogni giorno. E quest’ultima faceva sempre pendant con il verde dei suoi occhi, il che suscitava un’impressione di accuratezza. A volte si schiariva la voce a lungo, poi tirava fuori un fazzoletto piegato e si nettava le labbra con brevi colpetti. Aveva mani di una bellezza evidente. Sarebbero potute essere le mani di una donna. Quest’impressione derivava certo anche dall’anello che portava alla destra. La pietra era di un bianco diafano e lattescente, incastonata su argento.
Poi, quando mi ruppi il tendine di Achille, non vidi il signor Candy Man per due mesi. Ma in un certo qual modo fu lui stesso a far sì che non lo dimenticassi. L’ultimo giorno prima delle ferie estive, le bambine ricevettero nella scuola materna un cappello da laureato di carta e al Piccolo parco due palloncini volanti, uno a forma di dalmata, l’altro di delfino – i palloncini furono un suo regalo. Mentre il delfino sparì quello stesso pomeriggio nel cielo sopra Roma – “è volato al mare, non devi essere triste, Paula” –, poco più tardi ritrovai il dalmata di Anna contro il soffitto dell’atelier. Sulle prime mi scocciava avere ogni giorno quel palloncino sopra di me; Tanja non riusciva a raggiungere lo spago pendente neppure con una scala. Dopo pochi giorni, però, mi ero abituato a quello strano ospite che non mi abbandonava mai mentre tutti gli altri andavano al mare o a una qualche festa. Tuttavia non durò a lungo, a poco a poco iniziò a scendere, le quattro zampe sempre ben orientate verso il basso. In quel periodo a volte gli parlavo come a un animale domestico. È che sembrava osservare fuori dall’ampio lucernario come un cane da guardia. Finché, una mattina, il dalmata scese dolcemente sopra la mia scrivania, così vicino che potei tirarlo giù. Legai lo spago al termosifone. Ma, a parte me, nessuno si interessava più a lui. Come facendosi via via più docile, scese sempre più giù e una mattina me lo trovai davanti sulle piastrelle lucide.
In un primo momento avevo pensato di descrivere al signor Candy Man, quando ci fossimo rivisti, la vita propria che aveva vissuto il suo dono. Ma dopo avermi osservato fissamente per alcuni giorni, il dalmata si appoggiò al termosifone. A quel punto mi fu chiaro che quanto stava per accadere era ben poco adatto a essere raccontato. Il decadimento del suo corpo cominciò dalle zampe e presto raggiunse anche il petto e i fianchi, la gola si inflaccidì e alla fine apparvero persino ammaccature in testa che lo sfiguravano in una smorfia, deturpandolo. Il suo corpo s’involò, per così dire, davanti ai miei occhi. Slegai lo spago dal termosifone, perché dava l’impressione che ce lo avessi legato ben saldo e lo avessi dimenticato lì. Quando fu completamente piatto, ero già alle prese con i miei primi tentativi di camminare. Ripiegai la pellicola di gomma, la infilai in un sacchetto pulito, zoppicai con il pacchettino sotto il braccio fino all’ingresso e, dopo una breve sosta, proseguii fino al cassonetto sulla strada.
Solo dopo Ferragosto – in città era ripresa la vita e nel frattempo avevo ricominciato a muovermi abbastanza normalmente –, tornai per la prima volta con Anna e Paula al Piccolo parco. Anche i giostrai erano rientrati dalle vacanze. Il signor Candy Man sedeva all’ombra. Le bambine si fecero riconoscere già da lontano e corsero verso di lui. Lui ripiegò il giornale, lo infilò nella tasca della giacca e si alzò. Ancora prima che potessi salutarlo, si diresse con le bambine agli apparecchi automatici.
Mi sedetti al suo posto. Se la presero con calma, più del solito. La musica della giostra era cambiata; inoltre sentivo la mancanza dei rumori dei singoli veicoli – la sirena dell’autopompa o lo stridore di gomme dell’automobile rossa da Formula uno. Solo la risata “Candy Man!” era rimasta la stessa. Avevo l’impressione che le bambine raccogliessero in continuazione sacchettini dall’apertura in basso. Presto mi trasferii vicino alle altalene. Quel giorno il vento era caldo come non mi era mai capitato – sembrava di avere un fon davanti alla faccia.
Quando le bambine e il signor Candy Man finalmente ne ebbero abbastanza, salirono verso le altalene. Chiacchieravano. La prima cosa che mi colpì fu il suono diverso della sua voce, ma tutto il suo modo di muoversi mi appariva cambiato. All’improvviso lo capivo.
“Parla tedesco?” chiesi sbalordito.
Lui mi guardò quasi spaventato e annuì.
“Ah, non lo sapevo mica,” dissi.
“Mi scusi,” disse con il tono di chi vuol proseguire il discorso.
Dovetti aiutare Anna a salire sull’altalena per i piccoli e darle una spinta. Poi mi sedetti accanto a lui sulle sedie di plastica verde che aveva avvicinato, dissi “caldo, caldo” e finsi di farmi vento.
Mi porse di nuovo una di quelle caramelle, piccola e bianca. Ringraziai e la infilai nella tasca dei calzoni.
Si schiarì la voce più volte prima di riprendere a parlare. “Ho vissuto a lungo in Germania,” disse, “a Rostock.”
“Come? Nell’Est?” esclamai.
“Ero sposato,” disse.
Poi ci fu una breve pausa.
“L’avevo conosciuta a Weimar. Era una slavista, ma parlava un italiano perfetto. Riteneva che il russo e l’italiano si assomiglino. Le chiesi dove avesse studiato, in Italia. ‘In Italia?’ disse lei. ‘Sarebbe il mio sogno!’ Quella frase non riuscii più a togliermela dalla testa.”
Il signore fece una pausa. Stavo per dire che anche secondo la mia sensibilità l’italiano e il russo si assomigliano, e che le pubblicità russe suonano simili a quelle italiane e viceversa. Ma a quel punto lui aveva già ripreso il racconto.
“Ci scrivevamo, e ogni volta che il mio lavoro me lo consentiva – sono un chimico – volavo da Renate nella Rdt, nella Repubblica Democratica Tedesca,” precisò senza alcuna ironia. “Probabilmente le avrei chiesto di sposarmi anche molto prima. È solo che ho temuto troppo a lungo che amasse non me, ma l’italiano in me, capisce?”
Annuii.
“Neanche quando dovetti prometterle di trasferirmi, a Rostock, neanche allora mi fidavo di lei.”
“Dovette prometterglielo?”
“Nel 1976 finalmente ci sposammo,” disse, “lo stesso giorno in cui furono inaugurati i Giochi olimpici a Montréal. E ovviamente in autunno andammo a Roma. I miei genitori avevano paura di Renate. Credevano che fosse una spia, un’agente del Cremlino. Hanno avuto paura di lei fino alla fine.” Scosse il capo. “Vede, Renate sapeva tutto, conosceva la mappa della città da cima a fondo, sapeva perfino disegnare la pianta del Foro romano. Solo che ogni volta si stupiva, ovviamente tutto aveva un aspetto diverso dalle foto o da come lo immaginava. A Firenze scoppiò in lacrime per quanto era piccolo il rilievo di Donatello, per poco non lo notava neppure.”
Dovetti alzarmi un attimo per spingere di nuovo Anna sull’altalena.
“Trovai lavoro a Stralsund, nel cantiere navale, lavoravamo alle vernici per le navi, era un lavoro grandioso.”
“Si è davvero trasferito a Stralsund?”
“Glielo avevo promesso. Abitavamo a Rostock, a Stralsund avevo soltanto una camera in subaffitto. Cercavo di non fare pressioni su Renate. Ma pensavo sempre che presto saremmo andati in Italia. Voglio dire, potevamo viaggiare dove volevamo, tuttavia dovevo farmi dare ogni volta i soldi dai miei genitori o prenderli dai miei risparmi. Due volte all’anno andavamo a Roma. In Italia avrei guadagnato di più, molto di più. Ma appena cominciavo a parlarne, Renate mi ricordava la mia promessa, faceva sul serio. Potevo anche andare, diceva, ma non dovevo pretendere che lei mi accompagnasse. Qualsiasi cosa le dicessi, ogni volta lei ribatteva con la storia della promessa.”
“Era una convinta?”
“Una convinta?”
“Voglio dire, era a favore della Rdt, una compagna?”
“No, affatto. Politicamente andavamo d’accordo, ma non voleva andarsene.”
Guardò le bambine, che adesso erano intente a scartare le girelle di liquirizia e i lecca-lecca.
“La prima volta che non venne a Roma con me fu nell’autunno dell’86,” proseguì asciugandosi il sudore dal labbro superiore. “Aveva da fare, diceva, una volta all’anno le sarebbe bastato. L’ultima volta che ci andammo insieme fu nella primavera del ’91. La implorai di venire con me in Italia, non avevo più un lavoro. E qui di offerte ce n’erano, offerte buone, perfino a Roma. Alla fine trovai qualcosa a Kiel, in fondo mi mancavano sette anni alla pensione. Quando Renate compì sessant’anni e lasciò l’università, si trasferì dalla madre a Usedom, in una casa a picco sul mare. A volte non ci vedevamo per due settimane, da Kiel a Wolgast e da lì fino all’isola era un tragitto infinito. Ma ci amavamo, eravamo molto legati.”
Fece una pausa. Il sole ardeva come a mezzogiorno.
“Poi Renate si ammalò,” riprese. “Tutt’a un tratto mi accusò di averle sottratto l’orologio. Quando le feci notare che ce l’aveva al polso, mi aggredì: no, non questo, quello vero, quello che mi hai comprato a Roma! Quando le dissi che quell’orologio l’aveva perso quando eravamo ancora a Roma, mi rise in faccia. A metà settimana Renate mi telefonò a Kiel e mi chiese dove me ne andassi in giro, il pranzo era pronto in tavola. Il venerdì, quando tornavo a casa, mi rimproverava di volerla controllare.”
Tacque. Porsi dell’acqua alle bambine, perché con quel caldo dovevano bere molto, e diedi loro un’altra spinta.
Quando mi sedetti, notai sul suo labbro superiore, vicino all’angolo della bocca, due o tre peli della barba. Stavo quasi per indicarglieli, come se pulendosi avesse potuto togliere anche quelli. Forse, pensai, si rade dopo la doccia, quando lo specchio è appannato e, appena lo si pulisce, si riappanna subito.
“Una volta mi rimproverò di essere andato in Italia di nascosto, benché fossi uscito soltanto a fare la spesa. E quando le mostrai la borsa, mi urlò addosso: ecco, ecco, tutta roba dell’Ovest! La pregai di guardare meglio e dirmi se per caso riconosceva qualcosa scritto in italiano. A quel punto lei si accorse che qualcosa non andava. In seguito sperai sempre che si ridestasse, che la sonnambula si svegliasse. Ma no, non si svegliò. In realtà,” disse e si schiarì la voce, “in realtà il peggio era proprio quando si accorgeva di essersi sbagliata. In uno di quei momenti mi venne l’idea degli anelli.”
Piegò il braccio sinistro in modo che potessi osservare il suo anello da vicino. “Ne ho fatti fare due, due uguali, è pietra di luna, di una qualità molto rara.”
“Bellissima,” dissi. “Davvero bellissima.”
“Penserà che io abbia lasciato mia moglie, e in un certo senso non posso negarlo. Ma vede, in realtà fu lei a lasciarmi per prima.”
Dopo una pausa nella quale non osai alzare lo sguardo, disse: “Non so cosa le ricordi l’anello, non so neppure se ce l’abbia ancora, un ricordo, o se ogni giorno cambia. A me in ogni caso ricorda lei, continuamente”.
Si tolse il cappello e se lo portò al petto. Qualche ciocca di capelli si agitava nel vento.
“Caldo,” dissi.
“Un respiro caldo del deserto,” rispose sottovoce.
Dopo quella volta non parlammo più in tedesco. Anzi, nei miei confronti sembrava persino un po’ scontroso. Con le bambine rimase gentile e generoso. Lo osservai mentre, a partire da metà settembre, cercava i suoi posti al sole e fuggiva dall’ombra. In ottobre fui in viaggio per quasi tre settimane. Quando rividi il Piccolo parco, mi apparve più piccolo di prima, ridicolmente piccolo persino. Il signor Candy Man non lo trovai da nessuna parte.
Andammo al parco ancora qualche volta, ma il signore non lo incontrammo più. All’inizio di gennaio tornammo a Berlino portando con noi – in varie tasche di calzoni e giacche – cinque di quei grossi gettoni rosa per la giostra e le due piccole caramelle che hanno la stessa colorazione, quasi la trasparenza della pietra di luna sulla sua mano.