RANDAZZO

Randazzo, a nord-ovest dell’Etna. Una fresca giornata di metà aprile. Dopo due giorni la nostra macchina è ricoperta da un sottile strato di cenere vulcanica. Dalla casetta in mezzo agli ulivi vicino a Cesarò, dove alloggiamo da amici, è solo una breve escursione. Verso le due raggiungo il centro storico attraverso una porta ad arco e qui proseguo lungo stradine a senso unico. Trovo un parcheggio davanti a una grande chiesa nera. Scarichiamo i due passeggini e vi adagiamo le bambine, che si riaddormentano subito. A parte due artigiani che lavorano a una porta laterale della chiesa nera consacrata a san Martino, la città sembra deserta. Dietro l’ingresso principale della chiesa ci fermiamo davanti a un pannello al quale sono appesi foglietti in italiano, tedesco e inglese. Quello tedesco, il solo su cui possiamo pronunciarci, è incomprensibile.

Sfiliamo per le vie in cerca di un ristorante. Non si vede neppure un gatto o un cane. È aperta solo la ricevitoria del lotto. Si ferma una macchina, due uomini entrano. Di nuovo il deserto. Alla curva successiva ci viene incontro una coppia – in mano, rossoblu, il Baedeker. I ristoranti che hanno visto, dicono i due svizzeri, sono tutti chiusi. Se però cerchiamo la famosa pasticceria, stiamo andando nella direzione giusta. Speravo che entro breve ci saremmo potuti sedere a un tavolo e aprire un menu, ma arrivati nella piazza principale ci rinuncio. Adesso mi accontenterei anche di un bar, ma persino sotto le tende da sole rosso scuro con la scritta dorata “Bar” le inferriate alle porte sono chiuse. Nella corte interna del palazzo che ospita l’amministrazione comunale – si tratta, come scopriremo più tardi, del Palazzo Reale in cui già pernottò Carlo V – cerco inutilmente un gabinetto o qualcuno cui possa chiedere di indicarmi un ristorante. Incontriamo altre due coppie di turisti, riconoscibili già da lontano – per camminata, zaino e giacca impermeabile, ma soprattutto dagli sguardi: esaminano ogni edificio da cima a fondo. Di tanto in tanto ci sfreccia accanto una macchina diretta verso la ricevitoria. Davanti alla basilica di Santa Maria, all’altro capo della città, ci imbattiamo finalmente in un gruppo un po’ più nutrito – una troupe. Stanno smontando le attrezzature. Cinque o sei ragazze se ne stanno lì attorno, tutte con il cellulare all’orecchio. Lo spiazzo davanti al portale della chiesa è dominato da un uomo in un pullover verde chiaro intento a smontare il braccio girevole di una telecamera. Lo fa con una tale rapidità e sicurezza, addirittura con gusto, come se volesse dimostrare quanto è contento di andarsene da qui. Nella finestra alle mie spalle si muove qualcosa: tra vecchie ruote dentate e chiavi inglesi c’è un pupazzo con un cappello bianco da cuoco, il suo torace si alza e si abbassa, un pasticcere addormentato – le ruote dentate e le chiavi inglesi sono di marzapane. È la pasticceria Santo Musumeci citata nel Baedeker. Dovrebbe aprire alle 14.45. Sono le 14.45. Ora comincia a piovigginare. Ci ripariamo sotto la tenda e osserviamo l’uomo dal pullover verde chiaro che sotto la pioggerella traffica sempre più in fretta. I suoi lunghi capelli biondi, che fino a un attimo prima nascondevano la calvizie incipiente, sono agitati dal vento. Il braccio telescopico si richiude su se stesso emettendo un ronzio. Le ragazze con i cellulari sono salite nel furgone bianco e da lì continuano a parlare al telefono. Poco dopo le tre, due donne arrivano nello stesso momento e aprono la pasticceria; in quel mentre l’uomo dal pullover verde chiaro sta spingendo il braccio telescopico rimpicciolito verso il furgone, ride, adesso può anche piovere.

Subito dopo di noi entrano anche le altre coppie di turisti. Ordino subito per non dover aspettare ancora: due fette di torta al pistacchio, due di una specie di torta Esterházy alla ricotta, inoltre varie piccole tartelettes con crema, arance e fragole, e un rotolino ripieno di cui ho dimenticato il nome, una specialità siciliana. Tanja, che sta ancora studiando il menu, mi chiede con un certo disappunto chi mangerà tutta quella roba. Io allora divoro un dolce dopo l’altro, come se potessi seppellire sotto questo godimento la gita fallita, come se la mia abbuffata pasticcera potesse salvare questa giornata, come per vendicarmi di Randazzo e dei suoi ristoranti e bar serrati – come per prendermi ciò che mi si voleva negare.

Mentre raschio il fondo dorato del vassoietto dove ho già spazzolato mezza fetta di torta Esterházy alla ricotta e poi lecco la crema dai rebbi, mi rendo conto di quanto sia ridicolo il mio sdegno. Nello stesso istante mi assale un terror panico della morte, quasi fosse imminente, come se comprendessi per la prima volta che la mia vita avrà una fine, che i miei, che i nostri giorni sono davvero contati, che presto o tardi dovremo accomiatarci gli uni dagli altri, che non c’è nessun dopo: come se a un tratto la sensazione di essere mortale mi fosse cresciuta dentro come un nuovo senso, come se oltre a vista, udito, tatto, odorato e gusto si fosse destato finalmente un sesto senso e solo adesso la mia percezione fosse completa. Ora capisco di essere condannato a morte, qualunque sia il momento in cui la sentenza sarà eseguita. Ma nello stesso momento so anche che questi paragoni non hanno senso, che non riuscirò a trasmettere nulla, non saprò spiegare nulla, che è impossibile raccontare o esprimere con chiarezza questo shock. E le due cose mi paiono egualmente terribili. L’unico indizio della mia disperazione è che ho leccato la forchetta due o tre volte più del necessario.

Poso la forchetta pulitissima sul vassoietto dorato accanto alla fetta di torta Esterházy alla ricotta. Tanja si è messa a leggere a voce alta il foglietto che ho rubato dal pannello di San Martino: “...È stata costruita nel Dodicesimo secolo, ma di tale costruzione la torre delle campane soltanto la sorveglianza, mentre l’intero resto è, ha riportato persino nei secoli addietro per verificarsi. Esso innalza ciò che viene servito come chiesa della madre alla popolazione primitiva di Randazzo, avrebbe nel distretto ‘lombardo’ e nel posto del bambino e che in ricavo della visita colloca piccole chiese di San Clemente...”. Prego Tanja di smettere. “Ancora una,” dice lei: “Infine i lavori sono questo susseguirsi ai danni della guerra, pubblicati attraverso il genio civile, che ha fatto per una cupola al di sopra...”.

Prendo la forchetta e la infilo nella fetta di Esterházy alla ricotta, a indicare che ho mangiato abbastanza. Poi con il cucchiaino ripulisco la tazza dalla schiuma rimanente e finisco di bere l’acqua.

A turno, poiché uno deve sempre rimanere con le bambine che dormono, Tanja e io usciamo sotto la pioggerella per osservare meglio il portale della chiesa. Sullo sfondo nero della pietra lavica, le colonne bianche e slanciate sembrano rilucere. Ma neanche i capitelli con le figure di animali possono calmarmi o consolarmi, neppure il pezzo forte, un cane dalle orecchie pendule che osserva con sguardo triste ogni persona che esce dalla chiesa. Dopo pochi minuti sono di nuovo seduto in pasticceria.

La coppia di turisti accanto a noi si è messa a giocare a scacchi. Gli altri scrivono cartoline o leggono il giornale. È come se, da primavera che era, si fosse fatto di colpo novembre.

Non capisco più perché oggi ho insistito per fare qualcosa, perché ho voluto assolutamente visitare queste zone invece di trascorrere anche questa giornata assieme agli altri sulla terrazza, giocare all’uomo nero o a non t’arrabbiare con le bambine, leggere Seume, ascoltare musica, mangiare e bere, prendere il sole o semplicemente stare a guardare l’Etna e osservare il suo pennacchio di fumo che al mattino, quando noi siamo ancora nell’ombra del monte, sale dritto verso l’alto per poi dissolversi tra le nuvole formando una T.

Sfoglio la guida storico-artistica DuMont. Apprendo che a Randazzo il 13 agosto 1943, con la vittoria degli Alleati, per la Sicilia finì la Seconda guerra mondiale. Un’illustrazione mostra la chiesa di fronte, edificata nel Dodicesimo secolo, in un giorno di sole sullo sfondo chiaro dell’Etna innevato. Il cratere principale, leggo, dista da qui solo quindici chilometri. Le bambine si svegliano. Mangiano gli spicchi di mela che tagliamo per loro.

Ha smesso di piovere. Lasciamo la pasticceria insieme agli altri turisti. Voglio andarmene da qui. Due macchine sfrecciano lungo la strada a senso unico, deserta, in direzione della ricevitoria. Solo adesso vedo che la facciata della chiesa è costellata di fori di proiettile. Non un blocco di pietra lavica che sia rimasto integro, un foro dopo l’altro, ora più grande, ora più piccolo. Questa scoperta mi coglie di sorpresa, mi mette addirittura di buonumore, all’improvviso, come se una visita a Randazzo, non importa in quale ora e stagione, fosse stata comunque imprescindibile, e come se tutti quanti noi fossimo stati baciati dalla fortuna, perché, insomma, siamo pur sempre vivi.