DUE DONNE
Un nitido mattino di sole ai primi di maggio sull’Aventino. Scorgevamo in lontananza i Colli Sabini. In realtà il contributo di quattro minuti per la trasmissione Kulturzeit avrebbe dovuto indagare la questione “se e in che modo la vita imiti la letteratura”. Poi però avevamo parlato quasi solo delle varie denominazioni esistenti in tedesco per l’8 maggio: giorno della Liberazione, fine della guerra, crollo, resa incondizionata. Le riprese si erano concluse all’improvviso, perché C., il regista, doveva andare all’aeroporto.
Noialtri – Alberto, il cameraman dell’Ard a Roma, Sergej, che si occupava del sonoro, e io – non volevamo separarci così in fretta. Alberto propose di mangiare insieme in un ristorante gestito da suoi amici di famiglia. Risalimmo il Lungotevere in macchina e presto ci ritrovammo in coda. Alberto, venni a sapere, era un figlio di Campo de’ Fiori, anzi, affermò persino di esserci nato, sulla piazza di Campo de’ Fiori. Sua madre ci aveva lavorato come erbivendola fino a tarda età, suo padre, di professione elettricista, all’inizio degli anni trenta era entrato nel Partito comunista. “Sono comunista,” mi gridò Alberto voltandosi all’indietro e ridendo, “ma non come quelli che avevate voi!” Disse che non conosceva i miei primi due libri, non poteva comunque conoscerli dal momento che per principio non comprava nulla che uscisse per una casa editrice di Berlusconi. Di certo in quel modo si perdeva qualcosa, disse, “ma bisogna prendere posizione!”.
Poco dopo aver passato Castel Sant’Angelo sull’altro lato del Tevere, Alberto trovò un parcheggio. Dal lungofiume scendemmo una scala e svoltammo a sinistra, dove via Tor di Nona si chiude in un vicolo cieco. Il nome del ristorante l’ho dimenticato. Era uno stanzone disadorno. Alberto ordinò per noi: spaghetti alla crema di scampi e poi coniglio. Non bevemmo vino, in compenso molta acqua, e parlammo di calcio. Sergej, il fonico, parlava ininterrottamente della Lazio, di come la Lazio non avesse proprio niente a che fare con il fascismo. Ci sono anche gli hooligan, mi disse, ma quelli li trovi anche nella Roma. Alberto lo canzonò e lo colpì più volte al braccio, come esortandolo a levarsi di torno. Poi però si strinsero di nuovo l’uno all’altro e Alberto gli cinse le spalle con un braccio.
“Ho una storia per te,” disse Alberto e provò a raccontare di come un tedesco che viveva a Roma, al quale il calcio non interessava minimamente, di recente fosse diventato un tifoso della Roma. Ma il racconto veniva continuamente interrotto. C’era sempre qualcuno che si avvicinava al nostro tavolo per salutare Alberto e poi stringere la mano anche a Sergej e a me.
La storia era questa: il tedesco si era rotto una gamba, era stato operato e si era ritrovato con un gesso alto fino al ginocchio. Non avendo pantaloni corti, sua moglie gli comprò dei pantaloncini sportivi e glieli portò in ospedale. Il tedesco notò che il giorno dopo l’operazione lo trattavano con molta più premura dei due giorni precedenti. Ne scoprì la ragione quando una donna delle pulizie esclamò “Bravo!” indicando i suoi pantaloncini neri appesi allo schienale della sedia. Sulla gamba sinistra trovò uno stemma: nella parte superiore, su sfondo arancione, la lupa capitolina; sotto, tre lettere arancioni intrecciate l’una nell’altra – ASR – su sfondo rosso scuro.
Mentre raccontava gesticolando, Alberto aveva anche saldato il conto. Ma mi concesse di offrir loro il caffè nel bar accanto.
Era un bar minuscolo. Alberto salutò tutti. Non sapevo distinguere chi fosse cliente e chi ci lavorasse. Le pareti erano nascoste dalle foto incorniciate, i più rappresentati erano Pasolini e Anna Magnani, gli altri volti non mi dicevano nulla. Dietro il bancone era appeso un gagliardetto nero, rosso e oro con martello, compasso e corona di spighe. Raccontai un episodio che mi aveva confidato il poeta e traduttore francese Alain Lance. All’inizio degli anni ottanta, a un poeta della Ddr fu permesso di andare a Parigi – più tardi ci scrisse perfino un libro in cui ne parlava come della cosa più normale del mondo. Questo poeta tedesco dell’Est invitò Alain in un ristorante. A un certo punto qualcuno accennò al fatto che il proprietario del locale fosse un noto membro del Partito comunista italiano. Quando furono sul punto di andarsene, il poeta si rivolse con fierezza al proprietario del locale: “Io vengo dalla Repubblica Democratica Tedesca!”. Al che l’uomo del partito: “Ma che bello, quindi adesso può godersi la libertà!”.
Alberto rise, mi puntò l’indice contro ed esclamò: “Bella storia! Bella storia!”.
Finii di bere il mio caffè e stavo già per pagare, quando fece il suo ingresso una donna grassoccia e in là con gli anni, con un décolleté impressionante, che si avvinghiò al collo di Alberto. Il vestito sbracciato le stava ormai troppo stretto e terminava sopra le ginocchia. Si mise a parlare ad Alberto passandosi in continuazione e a grandi gesti le mani tra i capelli neri tinti, così che mi ritrovavo ogni volta, senza volerlo, a fissare le sue ascelle depilate.
Qualche minuto dopo, nel bar si accese la luce. Fino a un attimo prima splendeva ancora il sole. Quando mi affacciai oltre la soglia, sulla città incombevano nubi cariche di pioggia. A un tratto udii un piagnucolio. Qualche metro più in là c’era un uomo seduto in carrozzina, le gambe allungate. Grembo e ginocchia erano coperti da un plaid verdeblu dell’Ikea, identico a quello che abbiamo noi. Aveva una grossa protesi acustica fissata dietro un orecchio, i lineamenti fini, la pelle pallida e delicata. A brevi intervalli sollevava il capo e piagnucolava: “Cinzia, Cinzia”.
Appena gli rivolsi la parola ammutolì, ma subito ricominciò con il suo “Cinzia, Cinzia”. La camicia e la cravatta non doveva essersele cambiate da parecchio tempo.
Nel bar chiesi di Cinzia all’uomo che stava alla macchina del caffè. Quello si limitò ad accennare col capo alla donna dal vestito stretto.
Uscii di nuovo e chiesi all’uomo in carrozzina se potevo portargli qualcosa. Ammutolì, ripetei la domanda.
“Ah, tedesco!” disse con la sua voce esile, senza guardarmi. Sì, dissi. A quel punto iniziò a parlare.
Capii solo qualcosa di tanto in tanto. Parlava a voce troppo bassa ed era faticoso restare tutto il tempo chino su di lui. Pareva una rotella che ronzasse lievemente. Le sue mani erano scosse da un tremito crescente, come se parlare gli costasse fatica.
Se compresi bene, raccontò di Monaco, del fatto che in passato ci aveva lavorato o almeno ci aveva vissuto per un po’. Mentre mi stavo accucciando vicino alle sue ginocchia, si udì un fruscio tra i pioppi sul lungofiume e scoppiò un acquazzone. Cercai di spingere la carrozzina nel bar, ma invece di togliere i freni allentai il blocco dei poggiapiedi, così che le sue gambe, prima sollevate a formare un angolo di trenta grandi, caddero perpendicolari. Quando finalmente trovai la leva giusta e spinsi con tutte le mie forze la carrozzina verso il bar, le rotelle anteriori rimasero incastrate in una fessura o uno spigolo, così che per poco l’uomo non cadde in avanti precipitando sull’asfalto. Fortunatamente si era aggrappato ai braccioli, come se simili situazioni gli fossero note. Pareva non accorgersi né della pioggia né dei miei sforzi maldestri e riprese subito a parlare. Alberto accorse in mio aiuto, girò la carrozzina ed entrò nel bar tirandola all’indietro. La piantò davanti al bancone e tornò a dedicarsi a Cinzia, che non si era neppure girata verso l’anziano.
Mezz’ora dopo, quando Sergej e Alberto mi riportarono a Villa Massimo, li rimproverai. L’anziano aveva ricevuto il suo caffè e un bicchier d’acqua, è vero, ma nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi, nessuno gli aveva prestato la minima attenzione.
“Quello è un criminale,” disse Alberto e Sergej annuì. “Un vero criminale.”
“Un fascista?” chiesi.
“Pure,” rise Alberto, “pure quello!” Si spinse gli occhiali da sole tra i capelli. Prima della galleria che passa sotto Villa Borghese lampeggiava una luce blu. Il traffico proseguiva lento su un’unica corsia.
“È uno stupratore.” E mentre pian piano entravamo in galleria, Alberto mi raccontò quel che sapeva di lui.
Molto tempo prima l’uomo aveva violentato due donne, e una di queste era Cinzia. Lei aveva sporto denuncia. Ma l’uomo non fu condannato, perché l’altra si era rimangiata tutto accondiscendendo alla sua proposta di sposarlo. Questo vanificò l’imputazione. Cinzia fu accusata di gelosia, di brama di vendetta, persino di calunnia. L’uomo, si diceva, era molto benestante, per non dire ricco. Quando alla fine degli anni ottanta l’altra donna morì, lui fece la stessa proposta a Cinzia. Le promise di nominarla unica erede. Cinzia, senza figli e abbandonata da due mariti, acconsentì. Il patrimonio, tuttavia, da un pezzo non era più così favoloso come lei aveva creduto. Eppure era ancora abbastanza cospicuo perché Cinzia non dovesse lesinare sugli amanti – benché al riguardo Alberto non sapesse esattamente cosa ci fosse di vero e cosa no.
Passammo oltre due macchine messe di traverso sulla corsia di sinistra, proseguimmo spediti e uscimmo sulla via Nomentana. Alberto disse che avrei potuto scrivere qualcosa su quell’uomo, il quale in ogni caso con i tedeschi conversava particolarmente volentieri. Scoppiò in una breve risata. Poi fece cadere gli occhiali da sole come una saracinesca sugli occhi e si portò sulla corsia dei taxi.