AUGUSTO, IL GIUDICE
Non vi racconterò tutto, proprio come Augusto non mi ha raccontato tutto. È così, ci sono cose che uno preferisce tenersi per sé. Quanto al resto, cercherò di essere il più preciso possibile, tanto preciso quanto me lo consentirà la memoria. Ricordo persino la data in cui incontrai Augusto. Era il 10 agosto 2007. Il grande caldo si era placato da un giorno all’altro. Invece delle cicale si udivano di nuovo i piccioni. Per la prima volta in due mesi – mi ero rotto il tendine d’Achille giocando a calcio – mi avventurai da solo fuori da Villa Massimo. In realtà volevo solo andare un attimo alla posta, ma vuoi per la temperatura gradevole, vuoi perché godevo di poter mettere di nuovo una gamba davanti all’altra, da piazza Bologna proseguii lungo viale XXI Aprile. Zoppicavo ancora, ma la cicatrice non mi faceva più male. Invece di prendere la via più breve, girando intorno all’isolato della Villa e svoltando a sinistra all’altezza del monumento ai caduti avvolto da un’impalcatura, attraversai l’incrocio in direzione del GS, il supermercato più vicino. Qui si pronuncia gi-esse e non gi-ess, all’inglese, come dicevamo sempre noi. D’un tratto ebbi l’idea di acquistare del pesce, così avrei preparato una buona cena a sorpresa per Tanja e le bambine, al loro rientro serale dal mare.
Quando all’improvviso sentii il dolore all’anca, mi accorsi di aver esagerato. Mi sedetti sulla panchina vicino al chiosco dei giornali. Da lì si possono già vedere gli uomini dalla pelle scura davanti al GS. Si guadagnano il pane alla cassa, sistemando nelle buste bianche la spesa dei clienti. In febbraio, appena arrivati a Roma, ci aveva spaventato che degli estranei mettessero le mani sulle nostre cose. Non avevamo bisogno di galoppini o servi. Ma già la volta dopo avevamo accettato il loro aiuto – lo facevano tutti – ed eravamo rimasti a guardare gli uomini che infilavano nelle buste i nostri acquisti. In seguito suddividevano le buste in due carichi dello stesso peso. Questo poi tornava utile anche quando non le portavamo a mano, ma le appendevamo a destra e a sinistra del passeggino, senza il quale non andavamo quasi mai a fare la spesa.
Con nessuno di quegli uomini avevo mai scambiato più di qualche parola. Di alcuni sapevo da dove provenivano. A quello che ci aiutava davo un euro. Se eravamo lì in macchina, ne ricevevano due, perché in più ci portavano fuori le cose e le sistemavano nel bagagliaio e ci aiutavano a uscire dal parcheggio – un container da cantiere sbarrava la vista. Oggi mi è chiaro che due euro sono troppi, almeno in confronto a quel che sborsano altri, e che simili stravaganze non fanno altro che creare disordine, un vero e proprio pasticcio come l’ultima volta che ho fatto la spesa, a metà giugno. Quel giorno si erano subito buttati in tre sulla mia spesa, benché fosse stato il tamil, il più giovane degli impacchettatori, a tirar fuori il carrello e a portarmelo. Così in realtà ero diventato suo cliente. Poi però avevano allungato le mani anche il grigio, un maghrebino di una certa età, e il bell’egiziano il cui mento era attraversato da una cicatrice orizzontale. Facevano a gara per agguantare ogni scatola, ogni vasetto, ogni sacchetto, ogni bottiglia, tutto ciò che il cassiere faceva scivolare sul banco. Sgomitavano, fiatavano senza quasi far rumore, tenendo sempre d’occhio il cassiere. Volli aiutare il tamil a far valere il suo diritto. “Signori,” esclamai, “signori!”, lo indicai e dissi “Lui”. Altro non mi venne in mente. In quel momento il cassiere – lo stesso che qualche giorno prima aveva lanciato pezzetti di broccolo contro la sua collega ed era quasi crepato dal ridere, perché lei non aveva capito subito da dove arrivava quella roba –, questo signore con il camice rosso girò intorno al banco, con l’indice colpì al petto ognuno degli uomini, poi batté le mani e li cacciò fuori agitando le braccia come se scacciasse delle galline. Senza dire una parola ritornò al suo posto e riprese a passare un prodotto dopo l’altro sopra il raggio laser. Io me ne restai lì, in ascolto dei lievi bip dell’apparecchio, come se tenessi il conto anch’io.
Già ai miei maldestri tentativi di aprire le buste appiattite mi accorsi di quanto l’aiuto degli uomini fosse diventato per me una cosa naturale. Quello che per gli impacchettatori era un semplice fruscio tra le dita, seguito da un movimento minimo al quale le buste si aprivano come piccoli paracaduti, sulle prime non mi riuscì. Il tizio dopo di me aveva lo stesso problema.
Dopo diverse buste strappate avevo finalmente riempito la prima, quando il cassiere spostò la barra divisoria del banco come fosse uno scambio, sicché di lì a poco gli acquisti della cliente subito dietro il tizio sarebbero rotolati tra i miei. A quel punto era comparso l’albanese, il capo degli impacchettatori, il più anziano e quello con la pelle più chiara. Né le scrollate di capo né il silenzio o le imprecazioni provenienti dall’altro lato della cassa lo avevano fermato. Imperterrito, si era rivolto al camice rosso e, dopo che tutto doveva esser stato detto, gli aveva allungato la mano sinistra, il palmo calloso all’insù. Era rimasto così, perseverante, finché finalmente il cassiere ci aveva battuto sopra la destra in segno d’intesa. Un attimo dopo mi era ricomparso davanti il giovane tamil e si era ripreso il carrello vuoto, il suo carrello.
Quando mi alzai dalla panchina, l’anca mi faceva ancora male. Alcuni impacchettatori se ne stavano appollaiati sulla ringhiera biancorossa che separava lo stretto parcheggio dalla strada e fissavano il grigio del Maghreb, che era appoggiato con la schiena al palo di un lampione. Le braccia gli pendevano come tubi mosci. Dapprima pensai che gli uomini fossero stati di nuovo cacciati e che per quel motivo non mi portavano un carrello. Sarei stato loro grato per ogni passo che mi avessero risparmiato. Solo quando mi diressi con il carrello verso l’entrata, l’albanese mi chiamò con un cenno. Proseguii zoppicante. A quel punto si fecero notare anche gli altri. Saltarono giù dalla ringhiera e indicarono il grigio, che lentamente si girò verso di me senza staccare la schiena dal lampione, come se vi fosse incatenato. Quando fui più vicino, vidi i suoi occhi arrossati.
Da quel che capii, era stato investito da una macchina mentre voleva aiutarla a uscire dal parcheggio. L’albanese parlava con una tale rabbia, come se il colpevole fossi io. “Una Audi!” esclamò e si percosse il ginocchio con la mano di taglio. Poi il grigio si staccò dal lampione e si esibì in un tentativo di camminare, ma subito si piegò sul ginocchio sinistro, come se tutto il suo peso gravasse su quella gamba, storse il viso in una smorfia e tornò ad appoggiarsi gemente al palo del lampione.
“Ha bisogno di un dottore,” dissi. “Che cosa aspettate?!” Quando mi ero rotto il tendine d’Achille, l’infermiera al pronto soccorso non mi aveva neanche chiesto l’assicurazione. Qui aiutavano chiunque. Nessuno degli uomini rispose, come se la vista del grigio li avesse tutti ipnotizzati.
Chiesi se sapevano chi fosse l’autista o se si fossero segnati la targa. Di solito qui era difficile trovare un parcheggio. Quel giorno d’agosto non vi era una sola macchina. L’egiziano emise un fischio e sventolò la mano, il che doveva significare che l’autista se l’era svignata. Che chiamassero un taxi, dissi, o chiedessero al prossimo cliente in macchina di accompagnarlo.
Il grigio ripiegò la gamba ferita come imitando una cicogna o un airone. Quando i nostri sguardi si incontrarono, allungò una mano. La banconota più piccola che avevo nel portafogli era da dieci. Andai da lui. Non solo il suo volto, anche le scarpe, i pantaloni, la camicia, le mani – tutto era coperto di polvere, come se si fosse rotolato per terra. Fermò la banconota con il pollice sul palmo della mano, senza lasciar cadere il braccio. Voleva di più.
Girai i tacchi ed entrai nel GS. Avevo toppato, cercando poi di riscattarmi con dieci euro, o ero stato raffinatamente imbrogliato?
Nel GS mi venne subito la pelle d’oca. Come sempre, infatti, dentro era sensibilmente più fresco. Devo confessare che andavo spesso a fare la spesa, almeno in Italia. Anche in un supermercato come quello, piuttosto modesto per un posto come Roma, mi ci tuffavo letteralmente. Quel giorno però il banco del pesce, che come di consueto raggiunsi per primo, era vuoto – anzi, l’intero reparto era chiuso.
Non ricordo una sola volta in cui non avessi preso il numero e non mi fossi unito ai clienti in attesa. Ammiravo i commessi che solitamente lavoravano lì, che afferravano i pesci sempre con entrambe le mani e ne tenevano sollevati due o tre allo stesso tempo, in modo da permettere di scegliere, che staccavano le pinne, squamavano i pesci, li incidevano nel mezzo, li pulivano e li pesavano, su richiesta li sfilettavano anche, li incartavano, li infilavano in un sacchetto e lo posavano sul banco. E com’erano misere le mie conoscenze anche solo davanti all’assortimento di seppie, cozze e ostriche! Una simile offerta qui era naturale, tanto naturale quanto le due chiacchiere sulla preparazione. Di rado ho rimpianto il mio pessimo italiano più che a quel banco del pesce. I commessi impartivano consigli persino a me e li enfatizzavano unendo le punte di pollice e indice e apponendovi sopra un bacio. Probabilmente ci saremmo separati ogni volta con una stretta di mano se non avessero indossato i guanti. E non scordavano mai di informarsi sul risultato. Allora io giravo sempre l’indice contro la guancia e dicevo: “Buono, buono!”.
Anche al banco dei salumi e dei formaggi di solito bisognava prendere un numero e aspettare che l’altoparlante chiamasse. Quel giorno tuttavia la commessa era seduta su uno sgabello sotto i prosciutti appesi e sfogliava una rivista illustrata. Si alzò goffamente e infilò la mano destra in un guanto trasparente. Come sempre pronunciai la mia formuletta magica: “Due etti di questo” e premetti un dito contro la vetrina, per poi essere chiamato all’ordinazione successiva con un “poi?” più o meno aggraziato. Da lì andai alla verdura – mangiavamo molti finocchi, finocchi col pesce –, poi alla frutta – fichi in offerta speciale – e infine al reparto frigo con i vari tipi di pasta fresca.
Appoggiarmi al carrello procurava sollievo alla mia anca. Così proseguii lungo le file di scaffali. Dopo essermi rifornito anche d’acqua, latte e birra, imboccai la corsia del vino.
Non ho una spiegazione convincente per la mia svagatezza, per il mio blackout. Da un po’ ormai non facevo più la spesa senza avere con me una lista, perché sapevo come andava a finire se mi lasciavo trasportare. Perciò non fu tanto l’abitudine a privarmi di ogni misura, quanto piuttosto la felicità di potermi finalmente servire di nuovo, di poter mettere nel carrello con le mie stesse mani le squisitezze di questo mondo. Dopo il vino pigliai pure una confezione da sei di Bitter rosso.
“Hai bisogno d’aiuto?” mi chiese in italiano un giovane dall’aspetto indiano. Sopra la camicia chiara slavata portava un giubbotto catarifrangente verde. L’acconciatura stilosa – stranamente mi ricordava quella della Gioventù hitleriana – mi indusse in un primo momento a crederlo un cliente. Dovette accorgersi della mia sorpresa, perché il suo sorriso si allargò.
“Ti aiuto,” disse. “Cosa ti serve?”
“Niente,” dissi. Dovevo forse rimettere a posto le cose negli scaffali e nei freezer? I pacchetti presi al banco dei salumi e dei formaggi potevo portarli da solo. Esitai un istante di troppo, perché l’indiano mi imbarazzava. Ma a quel punto lui stava già spingendo il mio carrello verso la cassa. Aveva forse notato che, non avendo né passeggino né macchina, mi sarebbe stato impossibile portare tutto da solo? Cominciò a mettere i miei acquisti sul nastro.
“La tua carta?” chiese.
Poiché non avevo con me la nostra carta clienti, con la quale fin dall’inizio raccoglievamo i punti per sentirci più romani, l’indiano passò la sua al cassiere. Il quale però sfoderò a sua volta una carta e la passò sotto il lettore.
“Sei buste,” disse l’indiano e si rimise in tasca la carta.
Non solo padroneggiava il trucco per aprire le buste. Con la mossa successiva ne rivoltava il bordo e vi infilava gli acquisti appena le mani del cassiere li facevano scivolare lungo il piano inclinato. Mentre pagavo, portò fuori il carrello vuoto e quando fu di ritorno mi allungò l’euro che ne aveva estratto.
In realtà avrei voluto chiedere a quel principe azzurro dal giubbotto catarifrangente verde di sorvegliare i miei acquisti finché non avessi trovato qualcuno a Villa Massimo che con la sua macchina mi liberasse dall’imbarazzo. Pensai anche di mettermi sul bordo della strada e aspettare un taxi. A quel punto però non avrei potuto esimermi dal portare il grigio all’ospedale.
“Andiamo,” disse l’indiano e sollevò le buste – tre per mano. A me rimaneva soltanto la confezione da sei bottiglie di acqua minerale da un litro e mezzo, di quelle verdi.
Il grigio teneva ancora la gamba ripiegata. Gli uomini vicino a lui parlavano animatamente a due suore.
“Dove si va?” chiese l’indiano.
“Largo di Villa Massimo,” dissi accennando con il capo in direzione dell’incrocio.
“Abiti qui?”
“Sì,” dissi, “fino a gennaio.”
“Cosa fai?”
“Sono scrittore,” dissi.
Rise come se avessi fatto una battuta.
“E cosa scrive lo scrittore?”
“Storie, romanzi.”
“Romanzi polizieschi?”
“No. E lei?”
“Sono scrittore,” rispose e rise di nuovo, così non capii se era la sua risposta o se mi stesse scimmiottando. “Sono scrittore e porto la spesa nelle case. A Pietralata. Non è così signorile come qui.”
“È signorile, qui?”
“Molto signorile. Qui puoi vivere davvero esperienze forti.”
“Per questo è qui?”
“Perché a Pietralata sono chiusi per ferie.”
Mancavano pochi passi all’incrocio, quando il semaforo per i pedoni diventò rosso. Posai a terra la confezione di bottiglie.
“E cosa scrive?” chiesi. Mi aspettavo che scoppiasse di nuovo a ridere.
“Vedremo,” disse deponendo anche lui le borse. “Ho un paio di idee.” Si picchiettò la tempia con i polpastrelli. “Un paio di idee.”
Dissi come mi chiamavo e che venivo dalla Germania, e gli chiesi di dove fosse.
“Mi chiamo Gustel,” rispose in tedesco. “Ma qui tutti mi chiamano Augusto.”
Augusto veniva dalla Romania, da Codlea, nel distretto di Braşov, e aveva imparato il tedesco, disse, dai vicini di casa. Scattò il verde.
Dall’altra parte della strada, accanto al monumento fascista ai caduti delle Fiamme gialle, aveva preso servizio l’eremita, come lo chiamavamo noi. Anche quando faceva molto caldo indossava un pesante cappotto e un alto berretto nero, che si strappava dalla testa appena si avvicinava a un’auto in coda. I capelli bianchi, un poco giallastri, gli cingevano il capo come una corona. Con l’ascella destra sorretta da una stampella, come ne avevo viste soltanto in certi dipinti russi, si trascinava barcollando di macchina in macchina. Mi aveva già fermato più volte indicando il passeggino stracarico con un sorriso che poteva quasi dirsi beffardo, additando una bottiglia d’acqua o di birra come se scoprisse una sua proprietà tra le mie cose, come se la spesa appartenesse veramente a lui. Quella volta non mi prestò la minima attenzione. E anche poco più oltre, davanti alla chiesa moderna alla quale è accorpata una scuola gestita dall’Opus Dei, quel giorno non mendicava nessuno. Qui non vi è incrocio o chiesa senza qualcuno che suoni il violino o faccia il giocoliere o semplicemente ti tenda la mano.
A volte Augusto si fermava ad aspettarmi senza posare le buste. Continuava a sbadigliare, come se con me si annoiasse a morte. Non sapevo bene quanto sarebbe dovuto spettargli per quel servizio di trasporto. Cinque euro? O di più? Dovevo commisurarlo alla quantità di denaro che avevo appena speso, calcolandolo come una mancia, o risarcirgli il dispendio di tempo, mezz’ora compreso il ritorno?
“Capita spesso che portiate a casa la spesa alla gente?”
“Altroché,” disse Augusto. Gli venne di nuovo da sbadigliare e scosse la testa come per soffocare l’impulso.
“Ha fatto le ore piccole?”
“Guarda!” Posò le buste e tirò su una braca dei calzoni. Aveva tutta la gamba piena di escoriazioni e graffi.
“Che cos’è?” chiesi.
Mi mostrò l’altra gamba, che era conciata allo stesso modo, sollevò giubbotto e camicia, si girò e mi presentò la schiena maltrattata.
“Ma questi sono morsi!” esclamai.
Augusto lasciò ricadere la camicia, sorrise e riafferrò i sacchetti.
“Aspetti,” dissi e deposi il mio carico. I nastri di plastica della confezione da sei mi tagliavano le dita. E poi il dolore all’anca, avrei voluto inginocchiarmi sul marciapiede.
“Cosa le è successo?”
“Se te lo dicessi non mi crederesti!”
“Perché non dovrei crederle?”
Augusto mi fissò. Poteva avere poco più di vent’anni, ma anche trenta o persino qualcuno in più. Aveva i capelli neri come il carbone, zigomi alti, una fronte liscia, e la bocca era fine come il volto nel suo insieme. Il marrone dei suoi occhi pareva quasi nero.
“Proseguiamo,” disse sollevando le cose.
“Deve dare qualcosa al cassiere – o all’albanese?” chiesi. “Chi è che decide chi può fare i sacchetti e chi no?”
Augusto aspettò con le buste in mano fingendo di non avermi sentito. Mi pentii della mia domanda.
“Sa che albero è questo?” chiesi e subito risposi io stesso: “Un albero del paradiso”.
Si vedevano i punti in cui erano stati tagliati dei rami. Raccontai che una nostra amica, giardiniera provetta, in luglio era venuta a trovarci e ci aveva regalato dei bachi da seta. E che da allora mia moglie era in cerca di alberi del paradiso. I bachi da seta, infatti, si nutrono solo di foglie di gelso e di albero del paradiso. Dissi che avevamo mangiato spesso in cucina davanti al terrario, guardando i bachi che strisciavano sui rami e rodevano le foglie. Circa due settimane prima si erano abbozzolati muovendo incessantemente le teste, come a voler tracciare nell’aria un otto rovesciato. In seguito avevamo relegato il terrario sopra il frigorifero e solo quella mattina, la mattina del 10 agosto, ci eravamo accorti della grande farfalla che, posata su un ramo, apriva e richiudeva le sue ali scure, le apriva e le richiudeva senza muoversi da lì.
Augusto non fece una piega. Riafferrai le bottiglie.
“Ieri è comparsa una signora in una grande Citroën,” iniziò Augusto, come se non avesse aspettato altro che poter finalmente prendere la parola. “La Citroën più grande che c’è. Lei scende. Una signora con cappello, non più giovane, ma slanciata e asciutta. Il capo le porta un carrello...”
“L’albanese?”
Augusto annuì. “Si gira verso di noi, ci guarda uno dopo l’altro, spinge per un momento gli occhiali da sole sopra gli occhi e alla fine indica me, sì, me, un semplice movimento della mano, così, con l’indice, nient’altro. Fa dietrofront ed entra. Ma come cammina, il suo sedere, il più bel culo della settimana, anzi, il più bello dell’estate, uno a cui potresti correre dietro per giorni senza stancarti. È già lì che aspetta davanti all’acqua minerale. Dice ‘dieci’ e indica i pacchi da sei. Compriamo latte, dodici litri, e cinque pacchi da sei di birra. Le porto tutto alla cassa e da lì nella Citroën. Non corro, ma neppure perdo tempo. Lei mi osserva, non mi toglie gli occhi di dosso. A un tratto non sai più come camminare, perché lei ti guarda. Sul serio! Non penso a cosa mi darà, sono solo felice, felice di starle vicino, di vederla, odorare il suo profumo, ah, il suo profumo!”
Augusto sollevò il capo e inspirò l’aria come se potesse odorare ancora la sua signora.
“Quando tutto è dentro, dice ‘chiudi’ e io chiudo il bagagliaio. Ma lei non sale, invece si sente un ‘clac’, le portiere sono serrate, e lei se ne va. Riporto indietro il carrello e poi la seguo, sempre dietro al suo culo. Va dal panettiere, subito dietro l’angolo. Non si gira, sa che la seguo. Dal panettiere m’infilo sotto le braccia due sacchettoni di carta pieni di pane, e quelli vanno sui sedili posteriori. Li metto giù e lei indica la portiera del passeggero, si siede al volante e fa un cenno impaziente, devo salire. Lo faccio. Sedili in pelle chiara. Tiro la portiera – e ho già le cinture allacciate, come fosse una maga, e si parte. Gli altri mi fissano come se andassi in paradiso.”
Anche quando mi fermavo e posavo le bottiglie, Augusto continuava a parlare con le buste in mano. Non ho tenuto a mente tutte le loro tappe, solo quelle che conoscevo, il mercato di piazza Vittorio e Limata, dove, con mia soddisfazione, anche la signora di Augusto aveva lasciato un paio di biglietti da cento. Il macellaio era lo stesso che avevamo scoperto per caso durante la nostra prima passeggiata non lontano dal Pantheon, in via della Maddalena. Ci lavorano quasi soltanto asiatici, che con quei fazzoletti avvolti come larghi nastri per capelli e i lunghi coltelli sembrano pirati.
Augusto e io eravamo giunti all’ingresso di Villa Massimo mentre la signora del suo racconto, sbrigate le commissioni, aveva guidato la Citroën completamente carica verso i Parioli, passando davanti all’ospedale giallo (dov’ero stato operato dalle mani miracolose del professor Thomas) e proseguendo la strada in salita. Si fermarono davanti a una grande casa malridotta, un piccolo palazzo, il più antico nei dintorni. Secondo Augusto pareva che una pianta rampicante si fosse impossessata del palazzo, anzi che gli fosse proprio saltata addosso. Una buona metà ne era già completamente ricoperta. Reti verdi, come quelle in cui si avvolgono gli alberi da frutto per proteggerli dagli uccelli, erano tese intorno ai ricchi ornamenti sopra le finestre e sui balconi.
“Le reti servono a impedire che cada giù qualcosa,” disse Augusto. “Ma è tutta scena, capisci?”
“Intende dire che i balconi non sono per nulla fatiscenti?”
“Esatto! Non vogliono che si noti quanto sono ricchi. Niente deve alludere all’interno, poiché dentro tutto è sontuoso, di pregio e per niente in rovina. Persino il portone da dentro ha un altro aspetto rispetto all’esterno. Dentro c’è spazio, tanto spazio, un cortile interno con tanto di fontana e opere d’arte, siepi e palme, un parco con ghiaia bianca, tanta ghiaia. E due Citroën, identiche a quella in cui ero seduto e dalla quale non potevo scendere, perché avevo la cintura allacciata e non sapevo come funzionasse, come slacciarla, la cintura. Guardo fuori, busso contro il finestrino, perché la signora è scesa e io sono lì dentro da solo e non riesco ad aprire la porta. E cosa vedo? Una signorina, il suo ritratto vivente, un po’ come la signora vent’anni prima. E viene avanti, è vicinissima, si china, il suo naso tocca quasi il finestrino, e sorride. Apre la portiera. ‘Benvenuto!’ dice e mi porge la mano come se avessi bisogno di aiuto. ‘Ci hai portato proprio un bell’ospite,’ dice la signorina. ‘Come ti chiami?’ mi domanda. ‘Augusto mi ha aiutato,’ dice la signora.”
“E la cintura?” chiesi.
“Era sparita, da sola, come niente,” disse Augusto, stupito come se fosse appena successo.
“E poi?” chiesi.
“‘Benvenuto Augusto,’ dice la signorina. ‘Ci aiuti ancora un po’?’ ‘Sì,’ dico, ‘se lo desidera.’ Ho portato di sopra l’acqua, la birra, le cose pesanti. E loro sempre tre, quattro scalini davanti a me, a passo cadenzato, un, due, un, due. Se avessi avuto le mani libere, quei loro polpacci...”
Il cancello di Villa Massimo si aprì. Dovemmo togliere di mezzo le buste e le bottiglie per far uscire un furgone. Volevo approfittare dell’occasione per entrare e avevo anche sollevato le bottiglie, ma Augusto era talmente immerso nel suo racconto che non reagì.
Descrisse la cucina come un salone con una grande isola di cottura al centro e un caminetto nell’angolo. “E per i piatti,” disse, “hanno una macchina. Non devono neanche lavarli, fa tutto la macchina.”
“Una lavastoviglie.”
“Una macchina che lava i piatti e le pentole e le posate,” mi istruì Augusto. “E all’improvviso c’è una terza donna, la sorella mediana. Potrebbero essere tre gemelle, tutte ugualmente belle, solo di età diverse. La signora mediana si scusa, dice che nessuno l’ha avvisata del mio arrivo. ‘Ma adesso,’ dice, ‘mi occuperò di lei.’ Dico che devo tornare alla macchina, ma non me lo permette. Mi prende per il braccio e mi conduce in una sala, una sala con un parquet di assi larghe e scure che luccicano. Tira su le tapparelle. Sotto il vestito sottile si delinea il profilo del suo corpo. Aspetto ancora un momento prima di andare alla finestra. A sinistra il Pincio, addirittura il Gianicolo, più a destra San Pietro, subito sotto di me una terrazza con una piccola fontana, sul bordo pappagalli, pappagalli vivi. Quando il vento piega lo zampillo di lato e spruzza acqua sulle lastre di pietra, saltano su svolazzando, strillano e subito tornano a posarsi nello stesso punto. Lì oscillano da una gamba all’altra – si dice gamba? – e aspettano la prossima raffica di vento. Io non oso sedermi. Solo quando lei ritorna con un caffè e mi domanda cosa aspetto a mettermi comodo, mi lascio cadere in una poltrona. Quasi sprofondo tra i braccioli. Mi offre sigarette, mi dà d’accendere, mi spinge vicino il portacenere e mi posa accanto un piatto con dei frutti.”
Avevo aperto la porta accanto alla guardiola ed esitavo, non sapevo se a quel punto fosse il caso di congedarmi da Augusto.
“Sai dove mi sono risvegliato?” proseguì. “In una grande vasca! Sono disteso in una vasca da bagno con un cuscino dietro la testa. ‘Stai bene?’ domanda la signorina, che se ne sta in vestaglia da camera davanti a uno specchio e si mette il mascara.”
“Come ci è arrivato nella vasca da bagno?”
“Se lo sapessi!” disse Augusto.
“Vuole dire che le signore l’hanno addormentata, spogliata, portata in bagno e messa nella vasca?”
“Sì, dev’essere andata così!” disse Augusto. “Ero stordito, il mio corpo era stordito, gambe, braccia, mani, la mia testa – mi risveglio a poco a poco. La signorina se ne accorge ancor prima di me, sorride. Vedo il suo sorriso nello specchio.”
“Si accorge che lei si è svegliato?”
“Una parte del mio uccello spuntava dall’acqua. Mi giro sul fianco, non ho idea di cosa sia successo. Non c’è traccia delle mie cose. La signorina se la prende con calma. Riavvita il mascara nel flaconcino, mi osserva nello specchio. Infine si volta, si avvicina e si siede sul bordo della vasca. Con una mano tiene chiusa la vestaglia in alto, ma sotto la stoffa si piega in fuori, così posso vedere il suo seno, il suo seno destro. Sento i suoi polpastrelli sulle mie spalle, mi spinge indietro. ‘Rilassati,’ dice, ‘non avere paura’.”
Pregai Augusto di deporre finalmente le buste.
“Cosa devo fare?” chiese, mentre le posava a terra. “Seguo l’ordine della sua mano, mi appoggio all’indietro, allungo le gambe. ‘Bene così,’ dice la signorina, si rimbocca la manica sinistra e infila la mano nell’acqua in cerca del mio uccello. Ma io...” Augusto si premette per un attimo le tempie tra le mani. “Tutt’a un tratto sono seduto diritto, le ginocchia strette al busto – un riflesso! L’acqua trabocca oltre il bordo, perfino la signorina è bagnata. ‘Stupido,’ dice, ‘la pagherai.’ Lo dice bonaria e tranquilla, sorride perfino. Davanti allo specchio si asciuga il viso. ‘Torna qui,’ dico e mi spavento, perché ho dato del tu alla signorina. ‘Stop,’ grida lei quando voglio uscire dalla vasca. ‘Venga, la prego!’ imploro con un piede già sulle piastrelle. ‘Ritirata o attacco?’ chiede lei sottovoce guardandomi l’uccello, che sporge ricurvo come una banana. Cosa devo rispondere? ‘Asciugati, stupido!’ sussurra dolcemente – ed esce.”
Per un momento Augusto parve ancora intento ad ascoltare la voce della donna.
“Desidera un caffè?”chiesi mentre gli porgevo una banconota da dieci euro. “Siamo quasi arrivati.” Augusto mi guardò, si scostò i capelli dalla fronte e riprese in mano le buste.
“E quando se n’è andato?” chiesi dopo che ci eravamo lasciati alle spalle la guardiola vuota.
“Andato? La serata non era neanche cominciata!”
Ma anziché proseguire il racconto, Augusto mi tenne sulle spine. Camminò in silenzio al mio fianco lungo la strada di ghiaia che passa davanti agli atelier. Dal rumore dei ciottoli sotto le nostre scarpe notai che avanzavamo di pari passo.
Non rispose neppure quando gli chiesi se le tre sorelle fossero responsabili delle sue ferite. Forse Augusto stesso non sapeva come continuare la sua storia? Io in ogni caso non sapevo, ieri come oggi, cosa pensare di quel racconto. Ma lui, come si suol dire, mi aveva in pugno.
Ogni volta che passavamo davanti a un atelier con la porta aperta, si arrestava per un attimo e spiava dentro. Alcuni dei bambini più grandi ci passarono accanto in bicicletta suonando i campanelli.
“Hai Nescafé?” chiese Augusto quando aprii la nostra porta.
“Ho caffè vero,” dissi.
“Meglio il Nescafé, ce l’hai?”
“Credo di sì,” dissi. Anche mio suocero, che ci aveva fatto visita, preferiva il caffè solubile.
Salimmo le scale ed entrammo in cucina. Il terrario occupava mezzo tavolo. Presi una sedia e mi ci lasciai cadere. La cicatrice sul piede non la sentivo proprio, solo il maledetto fianco faceva male. Il lepidottero, due o tre volte più grande delle comuni farfalle, era ancora sullo stesso ramo e muoveva le ali scure. Benché fosse andato tutto come l’aveva descritto la nostra amica – del resto s’impara già a scuola che dai bruchi nascono le farfalle –, quella metamorfosi mi appariva come un miracolo. La cosa tremenda era che adesso la farfalla non avrebbe più mangiato. Avrebbe vissuto ancora qualche giorno, interamente consacrata alla bellezza e alla riproduzione, per poi morire.
“Mi hanno chiamato a fare il giudice,” disse Augusto senza distogliere lo sguardo dalla farfalla. “Mi hanno nominato giudice per una notte.”
Era ancora vicino alle buste che aveva posato davanti al frigorifero. Mi scusai e scostai una sedia dal tavolo per lui. Riempii il bollitore e trovai anche il vasetto con il resto di Nescafé. Prima di andare al gabinetto volevo mettere in tasca il portafogli, che era posato sul tavolo. Ma quel gesto, pensai, sarebbe apparso come un segno di diffidenza. Lo misi nella credenza davanti alle tazze.
Quando fui di ritorno, tutto era come prima. Evidentemente Augusto non si era mosso dal suo posto. Con il suo giubbotto verde, lì in casa sembrava un infermiere d’urgenza.
Solo quando sollevai le buste su una sedia per svuotarle, mi accorsi di quanto fossero pesanti. Non che in una situazione normale non sarei riuscito a portarle a casa anch’io. Ma Augusto, nonostante l’aspetto minuto, pareva non aver fatto nessuna fatica.
Aprii la porta che dava sul giardino e pregai Augusto di portare fuori il vassoio con il Nescafé, l’acqua minerale, i bicchieri e le tazze. Il portafogli era ancora nella credenza, nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato. Seguii Augusto portando il bollitore.
Ci sedemmo al tavolo vicino ai grandi cactus. Le zanzare erano meno moleste dei giorni precedenti. Augusto estrasse un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e cominciò a fumare avidamente. Bevve tre sorsi di caffè con il cucchiaino.
“In che senso, giudice?” chiesi, mentre versavo dell’acqua a entrambi.
“Vuoi dire la notte scorsa? Dovevano ballare, ballare finché piaceva a me! Ero il loro giudice.”
“Il giudice delle donne?”
“Non il loro.” Augusto sorrise sprezzante e svuotò il bicchiere d’acqua in un sorso.
“Mi hanno invitato a festeggiare con loro. E io ho detto di sì. Una volta al mese danno una festa con tanti ospiti. Cosa dovevo fare? Non avevo neanche più i pantaloni! Hai dello zucchero?”
Lo pregai di prendersi da solo la zuccheriera in cucina. Da seduto il dolore era più sopportabile. A parte qualche bambino, fuori non vidi nessuno. Mi premeva che restassimo soli.
Augusto rovesciò vari cucchiaini di zucchero nella tazza, mescolò a lungo e con forza con il manico e lo pulì passandolo sul bordo della tazza.
“È entrata una ragazza,” riprese. “Mi ha lavato i capelli, me li ha pettinati e asciugati col fon, mi ha tagliato le unghie delle mani e dei piedi, mi ha frizionato con dell’olio e massaggiato. Di tanto in tanto compare una delle sorelle, mi infila in bocca bocconi sfiziosi ed elogia la ragazza per le sue arti. Alla fine le signore entrano insieme portando una veste di seta gialla. Mi sta larga, ma la ragazza la fissa con spilli e fermagli e la sistema con piccoli gesti finché mi sta comoda ed elegante intorno alle spalle.” Dopo un tiro profondo, soffiò fuori il fumo sopra la mia testa e spense la sigaretta sul piattino della tazza.
“È già buio quando ricevo un paio di scarpe, un paio di pantofole con ricami di pregio – anche queste qualche numero di troppo –, e vengo condotto davanti alle tre sorelle. Stavolta però non mi badano quasi, occupate come sono con il loro guardaroba, con i loro abiti da ballo – come se dovessero recitare in una pièce storica, in un’opera. La signorina in verdolino, la signora mediana in seta avorio e la più anziana, quella che mi ha guidato lì, in un abito rosso che pare già un po’ slavato. Lei ha la scollatura più profonda. Tutte e tre hanno raccolto i capelli in uno chignon che conferisce loro un aspetto severo. Ogni tanto una di loro va alla finestra e guarda fuori, sulla terrazza. Nel chiarore di ghirlande di luce variopinte scorgo alcune figure appoggiate al parapetto. Ma già pochi minuti dopo là sotto si affollano settanta, ottanta o ancor più donne e uomini di ogni età e di ogni colore. Vengo condotto sulla terrazza, che è a forma di ferro di cavallo. L’aria fresca mi fa bene. A destra e a sinistra hanno allestito dei buffet, uno per lato, buffet principeschi, il gruppo musicale è sistemato di fronte alla fontana su una piccola pedana, sopra di loro le finestre della sala da dove mi ero affacciato a guardare la città.”
Augusto sorseggiò il caffè.
“Gli ospiti ci hanno accolto in silenzio,” disse a voce più bassa. “Non sembravano affatto ospiti, non erano amici o conoscenti. Somigliavano piuttosto a domestici in ghingheri, inservienti perfino, tanto si abbassava l’inchino delle donne, tanto era riverente quello degli uomini. Gli abiti degli uomini sono presi in prestito, si vede, alcuni avevano persino rimboccato le gambe dei pantaloni, in altri si scorge una striscia di pelle, alcuni non portano neppure i calzini. Vengo condotto all’angolo destro della terrazza, dove si trova una pedana su due livelli. Le sorelle prendono posto sulle sedie del gradino inferiore. Sulla parte superiore troneggia una poltrona – è destinata a me. Quando mi siedo, mi sembra di essere una scimmia.”
Adesso Augusto parlava anche più lentamente, come se la sua storia riemergesse solo un po’ alla volta, un’immagine dopo l’altra.
“Le sorelle,” disse, “mi sussurrano che devo dare il segnale per far iniziare la musica. Allora alzo il braccio, faccio un cenno con la testa ai musicisti e quelli iniziano a suonare, musica da ballo. All’istante gli ospiti si combinano in coppie. È un buon gruppo, non avevano mai suonato insieme prima – terribile però, uno strazio di musica! E i ballerini! La maggior parte si limita a dondolarsi qua e là, si girano un po’ a destra, un po’ a sinistra.”
“E qual era il suo compito?” chiesi. “Faceva da giuria?”
Augusto si accese un’altra sigaretta e soffiò di nuovo il fumo sopra la mia testa.
“Carmen, la sorella più anziana, ha detto che ero il giudice, quello che dopo ogni danza elimina una coppia. Stava a me scegliere, era una decisione solo mia. Potevo lasciarli ballare quanto volevo.”
“Ma lei se ne intende di ballo?”
“Di ballo no, ma di musica sì. Chi non mi andava era fuori e doveva sparire. Non riceveva nulla, niente da bere, niente da mangiare. Il buffet era destinato soltanto alle ultime quindici coppie.”
Bevve il caffè in un sorso.
“Devo andare,” disse e picchiettò sull’orologio che aveva al polso.
Quando però gli offrii un’altra tazza, disse: “D’accordo!”. Entrai in casa con il bollitore. Vidi Augusto dalla finestra della cucina. Si era alzato in piedi. Il suo giubbotto verde acido era appeso allo schienale della sedia. In cucina faceva più caldo che fuori. La farfalla continuava ad aprire e chiudere le ali – movimenti che nella loro goffaggine mi ricordavano i primi apparecchi volanti.
Augusto gettò il mozzicone tra i cactus, si servì nuovamente una generosa quantità di zucchero, mescolò con il manico del cucchiaino. Poi si versò altra acqua minerale.
“Ancora una sigaretta,” disse, si sporse in avanti e sorbì dalla tazza piena fino all’orlo. “Non ricordo più tanto bene.”
“Pensavo fosse successo ieri,” dissi.
“Ho bevuto troppo. Non finiva mai. Avevo solo finito di scartare i più scarsi che era già l’una!”
Augusto batté un tempo con il piede destro e schioccò le dita un paio di volte. “Senza ritmo, senza sentimento! La signorina continuava a gridare: ‘Ma questo non è mica un fox-trot!’, ‘Ma questo non è mica un valzer!’ e ‘Questi via!’.”
“Quindi non era lei a decidere?”
“Le signore parlavano sempre tra di loro con grande cortesia, ma in modo che non era difficile indovinare i loro desideri.”
“Ma perché gli ospiti si lasciavano trattare così?” chiesi. “Cos’è che volevano, se non sapevano ballare?”
“Metà di loro aveva un passaporto, l’altra...” Augusto fece spallucce.
“E l’altra metà? Che cosa voleva? Qual era la posta?”
“‘Una festa! È una festa,’ dicevano le sorelle, ‘una festa, nient’altro.’ E la signorina gridava: ‘Questo non è un cha-cha-cha!’, ‘Quello il tango non lo sa ballare!’.”
“E lei ha vissuto davvero tutto questo?”
“Sì, certamente,” disse. “Ma adesso devo andare.”
“E le sue ferite?”
Augusto mi guardò seccato e gettò nuovamente il mozzicone tra i cactus.
“La cosa peggiore era la sensazione di essere solo, di non appartenere alle sorelle, né ai ballerini, né a nessuno. A ogni mia decisione cresceva il numero di quelli che mi maledivano. E gli altri, quelli che tenevo in corsa, erano in balìa delle sorelle. Scommettevano in continuazione.”
“Scommettevano?”
“Le signore scommettevano sul prossimo che avrei eliminato. Puntavano su singole coppie o gruppi, sulla metà destra della terrazza o su quella sinistra, su uomini con le cravatte blu o donne con le gonne bianche. Hanno iniziato con pezzi da cinquanta e da cento, ma presto erano in gioco solo quelli rosa.”
“Da cinquecento?” chiesi.
Augusto annuì senza guardarmi.
“Parlavano così apertamente che sapevo chi di loro puntava su chi, decidevo chi doveva vincere e chi perdere. Le signore cercavano di corrompermi, mi infilavano in bocca dolciumi, i bocconi migliori, come dicevano loro.”
Augusto finì di bere il Nescafé e si terse la bocca con il dorso della mano.
“Una volta facevo vincere l’una, una volta l’altra, ma ne avevo sempre due contro di me. E me ne sono accorto! Imprecano, mi pizzicano e mi graffiano, picchiano! Avresti dovuto sentirle!”
“Ma non ha detto che erano cortesi?”
“Parlavano in modo cortese, assai distinto. Anche quando volevano sapere perché non mi decidessi a buttar fuori quel tale coglione o quell’altra troia, le loro parole erano molto compite e selezionate, come se usassero un linguaggio speciale. Si sa, c’è modo e modo di dire le cose.”
“E perché ha sopportato tutto questo?”
“Vorrei vedere te se una ti tiene l’uccello, l’altra ti strizza le palle e in più hai un braccio attorcigliato intorno a ogni gamba. Ne ho fatte, di esperienze, ma come quelle signore...” Augusto scosse il capo. “Non era l’alcol. Era la voglia di lasciarsi andare, non volevano nient’altro! Facevano a gara a chi di loro fosse la più spudorata, la più triviale, la più brutale. Ma ogni parola era dolce come il miele.”
Augusto tacque. Le mani sui femori, lo sguardo imbambolato. Mi stupii di come le unghie delle sue dita fossero curate, della perfezione con cui vi spiccavano le mezzelune bianche.
“Quando sono rimaste quindici coppie, è arrivato il bello,” disse e guardò di nuovo l’orologio. “Ho pensato, ora il peggio è passato, ora inizia la festa, ora si mangia e si beve. Per un paio di danze non ho dovuto cacciare nessuno. Le signore si sono servite al buffet. All’inizio pensavo che i ballerini fossero accaldati, si tolgono giacche e giacchette, si sbottonano le camicie, si slacciano le cravatte. Una mano maschile sfiora un paio di seni, una mano di donna scivola sotto una camicia. E all’improvviso capisco cosa sta succedendo: si scoprono.”
“Si scoprono?”
“Sì, si scoprono, non è così che si dice? Un indumento dopo l’altro. Le quindici coppie rimaste, tutti quanti bravi ballerini, snodati. Ma quello che fanno non è più una danza. Girano in cerchio, serrano le file, lottano, si saltano addosso.”
“Che fosse tango?” lo interruppi.
“È tango, questo?” esclamò Augusto scoprendosi l’avambraccio sinistro. “È tango?”
“Che cos’è?” chiesi.
“Ah, non hai mai visto una cosa del genere?”
Fissai le bruciature sul suo avambraccio.
“Sigarette! ‘È solo un gioco,’ dicono, ‘solo un gioco.’ Vogliono vedere quanto in fretta reagisco.”
“Ma è spaventoso,” dissi. Volevo aggiungere qualcosa, sentivo che era ridicolo dire soltanto “Ma è spaventoso”.
Augusto ricadde all’indietro e volse il capo altrove, come se cercasse qualcosa nell’erba. “A ogni danza, a ogni coppia che spedivo al buffet, le cose si mettevano peggio. E all’improvviso ho capito: non ce la faccio, non resisto altre dieci danze. Una volta dal male ho dato un calcio a Carmen. Lei cade a terra – e ride. ‘Finalmente,’ esclama sorridendo e applaudendo, ‘adesso il nostro piccolo va su di giri!’ Poi si vendica. Brucia a tal punto che perdo i sensi. Quando ritorno in me, la signorina sta raccontando del mio pasticcio nella vasca da bagno. Dice che è stato un affronto non solo per lei, ma per l’intero sesso femminile. Credimi, sono disperato, terribilmente disperato. E le sorelle giocano con mazzi di banconote senza sapere neanche loro se sono diecimila o cinquantamila. Affondano le mani tra le banconote, una volta, due volte, tre volte, un mucchio di soldi, un vero mucchio di soldi.”
“Non ci capisco niente,” dissi. Non mi era chiaro neppure dove Augusto volesse andare a parare.
“Ognuno si aspetta qualcosa,” disse. “Un passaporto, dei soldi, un impiego. Le signore non sono soltanto estremamente facoltose, sono anche molto influenti.”
“E chi ha vinto?”
“Le sorelle mi sono piombate addosso. Non ricordo altro.” Augusto si alzò.
“E cosa le hanno dato?”
“Questi pantaloni,” disse pizzicando la stoffa sopra le ginocchia. “Questi me li sono presi, i pantaloni e la camicia. Erano sulla terrazza quando mi sono svegliato, stamattina presto. Adesso devo andare.”
Lo pregai di pazientare un attimo. Andai in cucina. Volevo dargli ancora del denaro. Volevo darglielo e dirgli: per la sua storia! Il portafogli era davanti alle tazze. Ma le banconote mancavano. Sapevo con certezza che erano due biglietti da cinquanta – almeno due da cinquanta.
E ora? Dovevo costringerlo a darmi una spiegazione? Appoggiato al lavello, aspettai un po’.
Vidi che si era dischiusa un’altra crisalide. La farfalla era immobile sul fondo del terrario. A poco a poco compresi quanto fosse stato fuori luogo offrirgli altri dieci o venti euro. Alla fine presi una bottiglia di Sambuca ancora sigillata e uscii. Augusto aveva indossato il giubbotto. Gli allungai la bottiglia.
“Tante grazie per la sua storia,” dissi.
Accettò la bottiglia senza dire una parola. Gli chiesi se avrebbe saputo trovare da solo l’uscita della villa. Annuì. Lo condussi fuori, di nuovo sul sentiero di ghiaia. Ci salutammo. La sua stretta di mano fu fiacca.
Mi coricai, chiusi gli occhi e cercai di pensare a qualcos’altro. Il dolore al fianco non voleva proprio diminuire. Quanto desiderai, quella sera, non avere mai fatto quella passeggiata! Quando mi trovò a letto, Tanja si spaventò. E non seppe nemmeno cosa dire quando aprì il frigorifero e scoprì tutte le bottiglie. Sulla via del ritorno avevano fatto tappa in un supermercato e riempito la macchina. Paula e Anna, le nostre figlie, la aiutarono a portare su le cose.
Finora avevo tenuto tutto questo per me. Anche perché non è tanto semplice spiegare il mio comportamento: i miei acquisti smodati, la mia inermità che Augusto aveva riconosciuto e di cui si era approfittato, la mia curiosità infantile per una storia, la mia ingenuità e l’essermi sopravvalutato rapportandomi a lui. E infine la mia capitolazione. Ma cosa avrei dovuto fare? Costringere Augusto a una spiegazione, chiedergli di rovesciare le tasche? O fu comodo, forse persino vile, consolarsi all’idea che cento o centocinquanta euro per una storia incompiuta più dieci per una spesa portata a casa siano un compenso adeguato?
Qualche giorno più tardi, quando non avevo più dolori, l’aria sui sentieri di ghiaia era di nuovo rovente e profumava di pino e le cicale segavano o raspavano (non mi è mai venuta in mente una parola adatta) il loro ritmo da foresta vergine, presi la macchina e andai ai Parioli, ma non trovai nessuna casa che somigliasse anche lontanamente a quella descritta da Augusto.
Andavo al GS quasi ogni giorno. A fine settembre riapparve il grigio. Zoppicava molto e si limitava a mendicare. Di Augusto nessuno sapeva nulla. Una volta andai in macchina fino a Pietralata e lì passai in tutti i supermercati, ma nessuno lo conosceva. Più volte credetti invece di vederlo io stesso: davanti all’ingresso laterale della basilica di Santa Prassede, non lontano da Santa Maria Maggiore, poi tra i lavavetri all’incrocio vicino all’ippodromo, o in piazza Navona, dove osservai a lungo uno degli uomini che facevano decollare piccole eliche nel cielo serale e poi le riafferravano al volo.
Poi all’inizio di dicembre me lo ritrovai davanti per davvero. Accadde a Pietralata, davanti alla pizzeria Laboratorio 3, dove andavamo spesso, per lo più con altre famiglie. In nessun altro luogo pizza e birra o vino sono così a buon mercato. Come antipasto si mangiano piccoli spiedini di carne. Quella volta arrivammo tardi, quattro macchine, i pochi parcheggi sulla strada erano già tutti occupati. Augusto ci apparve direttamente dal buio davanti al radiatore. Lo riconobbi all’istante. Stava nella luce dei fari come su un palcoscenico e mi fece cenno di seguirlo. Ci fece strada trottando alla svelta e girò a destra in una via laterale. A tratti vedevo soltanto il suo giubbotto catarifrangente verde.
Quella parte di Pietralata è come ci s’immagina una periferia: molti maggesi e giardini, e tra di essi tutti gli edifici possibili, negozi, benzinai, aziende e un fiumiciattolo, l’Aniene, che si nasconde dietro recinzioni di rete metallica immerse nella sterpaglia. Giunti presso una stazione di trasformazione elettrica, Augusto mi fece cenno di fermarmi. Davanti a me c’era il portone aperto di un’officina nel cui cortile erano parcheggiate già diverse macchine.
Gesticolò nella luce dei fari e io seguii le sue indicazioni – dovevo girarmi ed entrare nel cortile in retromarcia. Probabilmente non riusciva neppure a distinguere se al volante ci fosse un uomo o una donna. Mi affidai interamente ai comandi della sua mano destra. La teneva diritta, la inclinava a destra o a sinistra a seconda di come dovevo sterzare, nell’altra mano una torcia elettrica che illuminava la distanza dall’auto accanto a me. Augusto mi fece fermare, si mise di traverso dietro la macchina e prese la torcia in bocca, il cono di luce diretto sulle sue mani che si muovevano l’una verso l’altra, così che sapevo quanto potevo ancora arretrare. Quando i palmi delle mani si toccarono, mi fermai. Augusto fece cadere la torcia dalla bocca, la prese al volo e se ne andò verso la macchina che mi aveva seguito.
Mentre indirizzava un’auto dopo l’altra, passai dietro di lui con Tanja e le bambine, diretti in pizzeria – qui il parcheggio si pagava al momento di andarsene. La strada era buia, i lampioni radi. Ci mettemmo in fila all’ingresso. Non eravamo mai arrivati così tardi. Sopraggiunti gli altri, dopo dieci o quindici minuti non ci eravamo ancora mossi da lì, al che finsi di aver dimenticato il cellulare in macchina.
Mi diressi verso l’officina, ma lì era tutto buio e silenzioso. Tornai indietro ed ero già quasi alla pizzeria, quando Augusto mi venne incontro. Correva di nuovo davanti a una macchina. Aspettai finché mi fu vicino. In realtà nella luce dei fari avrebbe dovuto riconoscermi, ma non lo diede a vedere. Quando lo chiamai, alzò gli occhi per un attimo – e andò oltre. Lo seguii, cioè mi tenni alla sua stessa altezza. Gli dissi che ero contento di rivederlo, che quel che aveva raccontato mi interessava, che mi sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più su di lui e che avevo l’impressione di avergli posto le domande sbagliate, che anche a me costa un po’ di fatica porre domande, domande vere, di cui non è possibile prevedere dove porteranno, e che anche per questo mi era parso più opportuno non dire nulla.
Mentre Augusto dirigeva la macchina nel cortile dell’officina inclinando la mano alzata a destra o a sinistra come l’ago di una bilancia, dissi che avremmo dovuto parlare anche della sua storia, di come sia facile iniziare una storia, ma di come solo pochi riescano anche a concluderla. Gli chiesi se aveva già trovato un nuovo finale. Dissi che trovavo intollerabile il modo in cui viveva qui, dopotutto lui, Augusto, era un collega, persino un collega di lingua tedesca. O no?
Dissi che mia nonna era una sassone di Transilvania, che ero stato a Braşov da bambino e l’ultima volta a diciott’anni, dopo che i nostri parenti erano emigrati tutti nell’Ovest.
Augusto diresse la luce della torcia elettrica sulla portiera del guidatore. Vidi le scarpe di un uomo sull’asfalto – scarpe buone, costose, negli ultimi tempi ci avevo fatto l’occhio. Dissi ad Augusto che se voleva davvero essere un giudice doveva fare domande, che il compito di un giudice è quello di fare domande. Perché se un giudice non fa domande, bisogna supporre che egli abbia già maturato un giudizio certo.
La luce della torcia di Augusto accompagnò, anticipandole di poco, le scarpe dell’uomo, che passò davanti ad Augusto e me senza accennare una parola di ringraziamento o un saluto. Poi la luce balzò sulla donna che era scesa dall’auto poco dopo di lui e le fece strada mentre avanzava sulle punte, a passettini, per evitare i buchi nell’asfalto. Lentamente la coppia si avvicinò al cono di luce di un lampione.
Augusto spense la torcia. Quando mi voltai verso di lui, sulle prime scorsi a malapena la sua silhouette. Non ricordo più cos’altro raccontai quando fui lì davanti a lui. Non smettevo di parlare e, man mano che mi abituavo all’oscurità, distinguevo meglio i tratti del suo volto. Devo avergli raccontato proprio tante cose, ad Augusto, il giudice. Perché quando udii la voce di Tanja gridare il mio nome – la giudicai coraggiosa per essere venuta da sola a controllare se fosse tutto a posto – e finalmente girai i tacchi e tornai con lei in pizzeria, gli altri avevano già cominciato a mangiare e stavano ordinando il secondo giro di birra.