XXXII.

Ecco ora la spiegazione del fenomeno.

Montando in vettura con Paolo, Nejdanow era stato preso da una febbrile eccitazione. Usciti appena dalla corte e preso a correre in direzione del distretto insorto, egli avea cominciato a chiamare, a fermare i contadini che passavano, a tener loro dei discorsi brevi, saltuari, incoerenti.

— gridava,

Alcuni contadini lo guardavano stupiti; altri passavano senza nemmeno badargli: forse, a sentirlo vociare a quel modo, lo prendevano per ubbriaco. Uno di essi, tornando a casa, raccontò di avere incontrato un tal Francese che andava strillando non si sa che.

Nejdanow era abbastanza intelligente da capire quanto fosse stupida e assurda la sua condotta: se non che, a poco a poco esaltandosi, arrivò a perdere ogni esatta nozione, ogni minima differenza tra il ragionevole e l'irragionevole.

Paolo si sforzava di calmarlo; gli andava dicendo non esser quello il modo; che tra poco sarebbero arrivati a un gran villaggio, il primo del distretto insorto; là si poteva informarsi.... Avesse pazienza.... Ma Nejdanow non gli dava retta, e seguitava a gridare, con in viso una espressione di tristezza quasi disperata.

Il cavallo che li tirava era un animale piccolo, vigoroso, dalla criniera tagliata a spazzola sul collo arcuato. Moveva agilmente le gambe robuste e scoteva con ardore la testa, quasi cosciente di portare delle persone che aveano gran fretta.

Prima di arrivare all'annunziato villaggio, Nejdanow vide non lontano dalla strada, davanti alla porta d'un granaio, otto contadini. Saltò immediatamente a terra, corse in mezzo a quel gruppo, e prese a improvvisare un discorso di occasione, misto di grida inarticolate e di gesti energici.

Le parole: Libertà! Avanti! Alto la bandiera! pronunciate con voce stridente, distinguevansi in mezzo ad un arruffio di altre frasi meno intelligibili.

I contadini che eransi riuniti davanti il granaio per trovar modo di mettervi un po' di grano, non fosse che per mostra (era un granaio del comune, e, per conseguenza, vuoto), fissavano gli occhi nell'oratore, mostrando di ascoltare con grande attenzione.

È però assai probabile che non capissero gran che. Infatti, quando egli si allontanò, gettando un ultimo grido di Libertà! uno degli otto, il più perspicace, crollò il capo gravemente e disse: E un altro soggiunse: Al che il contadino perspicace replicò: .

Rimontando in vettura, accanto a Paolo, Nejdanow pensava:

Entrarono nella via principale del villaggio. Nel bel mezzo, davanti la porta d'una bettola, era raccolto un certo numero di contadini. Paolo cercò di trattenere il suo compagno; ma questi era già saltato a terra e gridando: erasi cacciato in mezzo alla folla.

Gli si fece largo all'istante; ed egli attaccò un novello sermone, senza guardare in viso a nessuno, in tono violento e piagnucoloso.

Ma l'effetto fu questa volta assai diverso. Un pezzo di giovane, dalla faccia imberbe e feroce, vestito di una mezza pelliccia ingrassata, calzato di alti stivaloni e con in capo un berretto di pelle di montone, gli si accostò confidenzialmente e gli diè un colpo di mano sulla spalla.

— urlò con voce di tuono. —

E, unendo l'atto alla parola, trascinò l'oratore nella bettola. Tutta la banda tenne loro dietro.

— gridò il giovanotto. — — disse a Nejdanow porgendogli la brocca colma e stillante. —

— vociferò la folla.

Nejdanow, senza aver coscienza di quel che facesse, afferrò la brocca e gridò:

E la tracannò d'un fiato....

La tracannò con una risoluzione disperata, come avrebbe fatto per gettarsi contro una batteria o sopra una fila di baionette.... L'effetto fu potente, fulmineo.... Un colpo violento alla spina dorsale e alle gambe; un'arsura alla gola, al petto, allo stomaco; le lagrime gli vennero agli occhi.... Una convulsione di disgusto gli fece tremare tutte le membra. Gridò come un indemoniato per tentare, in qualunque modo, di soffocare quella sensazione orrenda. Tutto, nella oscura bettola, divenne caldo, attaccaticcio, soffocante. E quanta gente gli stava intorno! e come gli si stringevano addosso!...

Si diè a discorrere, a gesticolare, ad alzar la voce, a montare in furia. Stringeva intorno mani callose, abbracciava e baciava barbe viscose ed umide.... Il colosso dalla pelliccia gli fu sopra, lo prese fra le braccia, lo serrò così forte da sfondargli le costole. Poi si mise a gridare:

E così dicendo, mostrava il pugno enorme, velloso, chiazzato di rosso. E di botto, giusto cielo! una voce torna a ruggire: e Nejdanow è di nuovo obbligato a ingollare la nauseabonda bevanda.

Ma questa volta l'effetto fu terribile! Degli uncini gli entrarono nelle viscere, frugando, lacerando; un turbine nel cervello: tanti cerchi verdastri davanti agli occhi....

Uno strepito lo intronava, un rombo come di tuono. Orrore!... un terzo bicchiere.... Possibile che l'avesse tracannato?... Una folla lo assalì di nasi rossi, di capelli arruffati e polverosi, di facce abbronzate, di bocche sghignazzanti, di mani sudicie che lo agguantavano e lo tiravano in tutti i sensi.

La terra gli tremava sotto i piedi. La propria voce gli facea l'effetto di un'altra voce che giungesse di lontano, che lo chiamasse.... Era forse la morte?...

E di botto un'aria fresca lo colpisce in viso.... Si dileguano i ceffi, si allarga la folla.... Non più esalazioni di acquavite, di pelli caprine, di pece, di cuoio!... Di nuovo, eccolo in vettura accanto a Paolo. Il suo primo movimento è di slanciarsi, gridando:

Poi soggiunge, rivolto al suo compagno:

E Paolo gli risponde:

E così dicendo, volta adagio adagio la vettura, scote le redini, frusta il cavallo, e via di corsa pei campi in direzione della fabbrica....

Nejdanow è assopito a mezzo, e dondola di qua e di là. Il vento gli soffia sul viso e scaccia i brutti pensieri e le tristi visioni.

Una sola cosa lo indispettisce, ed è che non gli abbiano dato il tempo di enunciare tutte le sue idee.... Ma di nuovo il vento gli spira con una carezza sul viso infiammato.

Poi, l'apparizione di Marianna; un senso improvviso di vergogna; e poi.... un sonno di morte.

Paolo riferì ogni cosa a Solomine. Confessò anzi di non avere impedito a Nejdanow di bere, essendo questo l'unico mezzo di strapparlo da quella bettola. I contadini non volevano lasciarlo andare.

— gli disse Solomine.

Nejdanow dormiva, e Marianna, seduta davanti la finestra, guardava al muro del cortile. Strana cosa! Le idee dispettose, i sentimenti di sdegno, che l'aveano agitata prima dell'arrivo di Nejdanow, dileguavansi a poco a poco. Lo stesso Nejdanow non era per lei oggetto di repulsione e di disgusto; bensì di profonda pietà.

Non era un beone, nè un depravato.... Bisognava dunque cercare qualche buona parola, qualche frase amica, da dirgli al momento del risveglio, perchè non sentisse troppo il morso della vergogna o del dolore.

— pensava Marianna, —

Non era agitata, bensì oppressa da una profonda tristezza. Le pareva di respirare un soffio di quell'atmosfera che circondava l'ignoto mondo verso il quale anelava.... E quella rozzezza, quella barbarie, quelle tenebre fitte le davano un fremito.... A qual Moloch voleva ella dunque offrirsi in olocausto?... Ma no, non era possibile!... Quello lì doveva essere un caso isolato, un'eccezione.... L'impressione del momento l'avea colpita così forte, appunto perchè improvvisa ed inverisimile.

Si alzò, si accostò al divano, asciugò con un fazzoletto la pallida fronte di Nejdanow, dolorosamente contratta, e rigettò indietro i capelli che la coprivano.

Poi fu presa da un novello accesso di compassione, come quella di una madre pel suo bambino infermo. Un gran malessere le toglieva la forza di assistere più a lungo a quello spettacolo. Ritornò, camminando adagio, in camera sua, lasciando aperto l'uscio.

Non prese alcun lavoro. Cadde a sedere e si sprofondò nei suoi pensieri. Sentiva passare il tempo goccia a goccia, minuto a minuto, e questo sentimento le facea piacere, e il cuore le batteva forte, come in una lieta aspettazione.

Ma dove mai nascondevasi Solomine?

La porta cigolò pianamente e Tatiana apparve.

— esclamò Marianna con un movimento di contrarietà.

— rispose a mezza voce Tatiana, —

Marianna tenne dietro a Tatiana. Dovette ripassare davanti a Nejdanow, e di nuovo notò la contrazione spasmodica delle ciglia e gli asciugò col fazzoletto la fronte corrugata. Attraverso il vetro polveroso guardò al visitatore, cui Tatiana accennava. Le era affatto sconosciuto. Ma, nel punto stesso, di dietro all'angolo della casa, apparve Solomine.

L'ometto sciancato gli si accostò frettoloso, e gli prese la mano. Solomine gliela strinse. Evidentemente, si conoscevano. Tutti e due disparvero.

Ma ecco, dei passi suonano su per la scala....

Marianna scappò in camera sua, e si arrestò nel mezzo respirando a fatica. Avea paura.... di che?... Non avrebbe saputo dirlo.

La testa di Solomine si affacciò dall'uscio.

Marianna consentì con un semplice cenno del capo, e alle spalle di Solomine, vide apparire la piccola figura di Paclin.

XXXIII.

— disse Paclin facendo un profondo inchino e quasi studiandosi di nascondere alla sua interlocutrice il viso inquieto e spaventato; —

Parlava a sbalzi, con la voce roca di chi sia tormentato dalla sete.

Le notizie erano infatti assai brutte. Marchelow, preso dai contadini, era stato trascinato in città. Il commesso di Goluschine avea denunciato il padrone, e questi era stato arrestato. Lo stesso Goluschine, alla sua volta, denunciava tutto e tutti; diceva volersi convertire alla religione ortodossa; offriva in dono a un ginnasio il ritratto del metropolita Filarete; avea già mandato cinque mila rubli da ripartire fra i militari feriti. Nessun dubbio al mondo che avesse denunciato anche Nejdanow. Da un momento all'altro, la polizia potea piombare sulla fabbrica. Anche Solomine, naturalmente, era in pericolo.

— soggiungeva Paclin, —

Marianna stette ad ascoltarlo fino in fondo. Non avea paura: si mostrò anzi tranquillissima. Ma Paclin avea ragione, qualche cosa bisognava pur farla! Il suo primo movimento fu di volgersi a Solomine.

Anche questi pareva tranquillo, benchè i muscoli agli angoli della bocca gli tremassero un poco. Non avea più il sorriso abituale.

Intese il significato dello sguardo di Marianna. Ella aspettava da lui una parola, un consiglio, per conformarvisi.

— disse. —

— soggiunse volgendosi a Marianna; —

— disse Solomine. —

— con voce sorda ma ferma, rispose Marianna.

— riprese Solomine. —

— venne su Paclin. —

— disse Solomine.

— esclamò Marianna. —

— disse Marianna.

Paclin sussultò dalla sorpresa.

Marianna alzò la testa e si passò una mano sui capelli.

— rispose Paclin, mentre pensava fra sè:

— domandò Solomine.

Paclin si rimpettì.

— rispose con orgoglio, —

Il fatto è che per l'appunto ci pensava: e tutti i suoi progetti di amichevole intervento non erano che altrettanti pretesti per mettere, come si suol dire, le mani avanti. In cambio del reso servigio, Sipiaghin poteva, non si sa mai, dire una mezza parola in favor suo. Poichè, in sostanza, Paclin, checchè dicesse, si sentiva compromesso.... Aveva udito, ripetuto.... e anche parlato un po' soverchio!

— disse alla fine Solomine, —

— pensò Paclin.

Ma invece di Paolo, apparve sulla soglia Nejdanow. Barcollava, tenevasi con una mano allo stipite della porta, e con le labbra semiaperte fissava davanti a sè lo sguardo smarrito. Non capiva in che mondo si trovasse.

Paclin gli andò incontro pel primo.

— esclamò, —

Nejdanow lo guardò fiso battendo le palpebre.

Ma a questo punto, Marianna gli toccò il gomito. L'omiciattolo si voltò, si vide far dei segni, e subito si riprese.

— approvò Paclin. —

— rispose Solomine con un sorriso noncurante.

Nejdanow si tirò da parte per lasciarli passare, ma dallo sguardo mostrava chiaro di non aver capito nulla. Poi, fatti due passi, si abbandonò sopra una sedia dirimpetto a Marianna.

— ella gli disse, —

— mormorò Nejdanow con un fil di voce.

Nejdanow si raddrizzò.

— esclamò Nejdanow porgendole le mani, senza alzarsi dalla sedia. — — ripetette, e attiratala a sè, le appoggiò il viso al fianco e ruppe in un pianto dirotto.

— gridò Marianna.

Come l'altra volta, quando le era caduto alle ginocchia, annientato, soffocato da un impeto di passione, come allora ella gli posò le mani sul capo fremente. Ma quel che ora provava non somigliava punto ai sentimenti di quel giorno. Allora si sottometteva, davasi a lui, ne aspettava la decisione; ora ne aveva pietà, e pensava soltanto a calmarlo.

— ripetette. —

Nejdanow alzò bruscamente la testa.

— disse, trattenendo i singhiozzi, —

Nejdanow era sempre a sedere: Marianna gli stava ritta davanti. Egli le cingeva la vita con le braccia, mentre ella gli appoggiava sulle spalle le mani.

— pensò Nejdanow, —

Aprì le braccia.... E infatti Marianna fece un movimento quasi impercettibile indietro.

— diss'egli ad alta voce, —

— rispose Marianna.

Nejdanow la guardò con attenzione.

— balbettò con un ghigno amaro. —

Marianna alzò le spalle.

— disse.

— pensò Nejdanow, — — soggiunse poi dopo un lungo silenzio. —

Marianna lo guardò fiso.

— disse alla fine.

— ripetette Marianna.

Nejdanow abbassò il capo.

— disse con voce malsicura.

Poi d'improvviso si alzò ed uscì per rientrare nella sua stanza.

Quivi si gettò sul divano e nascose fra le mani la faccia. Avea paura dei propri pensieri, faceva ogni sforzo per non riflettere. Provava una strana sensazione, come se una mano sotterranea ed oscura si fosse impadronita della radice stessa del suo essere, per non più lasciarla. Sapea bene che quell'altra creatura a lui cara, che era là, nella camera contigua, non ne sarebbe uscita per venire a trovarlo, e che nemmeno egli sarebbe andato da lei. E a che scopo?... e che cosa le avrebbe detto?

Un rumor di passi rapidi e fermi gli fece alzar la testa. Solomine traversava la camera. Bussò alla porta di Marianna ed entrò.

— mormorò amaramente Nejdanow.

Senza volerlo, avea pensato alla parola di ordine d'una sentinella che ne smonti un'altra.

XXXIV.

Erano già le dieci di sera, e nel salotto della villa di Arjanoe, Sipiaghin, sua moglie e Colomeizew giocavano a carte, quando un domestico entrò, annunziando l'arrivo di uno sconosciuto, un certo signor Paclin, il quale chiedeva di vedere il signor Sipiaghin per un affare urgentissimo e della massima importanza.

— esclamò stupita la signora Valentina.

— domandò Sipiaghin arricciando il classico naso, —

— esclamò Colomeizew. —

— riprese Sipiaghin, volgendosi al domestico e sempre col naso arricciato, —

— Così assicura quel signore.

( insinuò Colomeizew)

rispose Colomeizew.

Entrando nel suo studio, Sipiaghin vide la figura mingherlina di Paclin, umilmente attaccata al muro tra la porta e la finestra; e subito provò quel sentimento davvero ministeriale di altera pietà e di condiscendenza schizzinosa, che è proprio dei grandi dignitari di Pietroburgo.

— pensò; —

— disse poi forte, servendosi delle sue più amabili note baritonali, scotendo in atto benevolo la testa un po' alzata e prendendo posto davanti al visitatore. —

— cominciò Paclin, adagiandosi con riguardo in una poltrona, —

— interruppe Sipiaghin. —

Sipiaghin si alzò di scatto.

Sipiaghin tornò a sedere.

(Sipiaghin ripeteva questa frase almeno per la trentesima volta, dopo la fuga di Marianna),

Pronunciando l'ultima parola, fece un gesto con la mano dal basso in alto, come se allontanasse qualche cosa.

— ripetette.

(, pensò, ).

Sipiaghin girò la nuca di qua e di là sulla spalliera della poltrona.

— pensò Paclin. —

Poi a voce alta:

Sipiaghin diè un balzo.

— balbettò, non più in tono ministeriale, ma con un miserabile falsetto.

— disse Sipiaghin sempre in falsetto; e, battendo vivamente col palmo della mano sopra un campanello a foggia di fungo, empì tutta la casa del suo tintinnio metallico. — — ripetette in tono più fermo; —

Un domestico entrò frettoloso.

Il domestico disparve.

— proseguì Sipiaghin; —

Andava su e giù a passo concitato. Paclin lo guardava, sbarrando gli occhi.

— pensava; —

La porta si spalancò, e Valentina arrivò ansiosa, seguita da Colomeizew.

Sipiaghin si accostò alla moglie e le prese il braccio tra il gomito e il polso.

(Colomeizew mandò un gemito).

Valentina si volse a Paclin, il quale fece un profondo inchino.

— pensò, anche in quel momento critico, Paclin.

— esclamò Colomeizew, —

— riprese Valentina, —

— continuò Colomeizew, —

Sipiaghin tornò a fare un gesto di allontanamento.

— soggiunse volgendosi alla moglie, —

E Valentina fissò di nuovo Paclin, stringendo gli occhi.

— esclamò Colomeizew, —

Così parlando, si dondolava davanti a Paclin, come per sbarrargli la via, benchè questi non accennasse punto a voler fuggire.

Paclin si sentì salir la mosca al naso.

— rispose, —

— gridò Colomeizew, —

— annunziò un domestico.

Sipiaghin, con un gesto energico ed elegante, prese il cappello.... Ma Valentina tanto lo pregò perchè rimandasse il viaggio al giorno appresso, tante buone ragioni gli disse, l'ora tarda, il pericolo d'un raffreddore, la certezza di trovar tutti a letto, l'inutilità di procurarsi un'irritazione nervosa, che alla fine, lasciandosi convincere, egli esclamò:

E con un gesto non meno elegante, ma punto energico, posò il cappello sulla tavola.

— ordinò: —

Paclin perdette le staffe.

— urlò. —

Paclin fu condotto nella camera verde....

Mentre si metteva a letto, sentì girar la chiave nella serratura inglese. Lo chiudevano. Se ne disse di tutti i colori sulla sua geniale inspirazione, e dormì malissimo.

Il giorno appresso, alle cinque e mezzo, lo si venne a svegliare. Gli fu portato il caffè. Mentre lo sorbiva, un lacchè, con la coccarda sulla spalla, se ne stava col vassoio in mano, dondolandosi, come per dire: Poi lo si accompagnò fino abbasso. La carrozza era davanti alla porta, come pure la calèche di Colomeizew.

Sipiaghin apparve sulle scale, avvolto in un mantello di camellino dal bavero largo e rotondo. Nessuno portava più di cotesti mantelli, ad eccezione di un gran personaggio cui Sipiaghin faceva la corte e che studiavasi di scimmiottare. Nelle occasioni officiali e importanti, non trascurava mai d'indossare quella specie di cappa magna.

Salutò amabilmente Paclin e, mostrandogli con un gesto energico i cuscini della carrozza, lo pregò di prender posto.

L'aria del mattino era così frizzante, che Colomeizew uscito dopo di Sipiaghin, si andava soffiando nelle mani, ed esclamando: si avviluppò ben bene nel suo mantello e si rincantucciò nella sua elegante calèche scoperta. (Il suo povero amico, il principe Michele Obrenovic di Serbia vedendo quella calèche, ne aveva comprata una perfettamente simile da Binder... vous savez, Binder, le grand carrossier des Champs Elysées)!

La signora Valentina, intanto, in cuffia e fazzoletto da notte, guardava attraverso le imposte socchiuse.

Sipiaghin montò in carrozza, e le mandò con la mano un saluto.

— gli gridò la signora Valentina.

— rispose Colomeizew, gettandole uno sguardo di sotto alla visiera d'un berretto da viaggio ornato d'una coccarda, berretto quasi ufficiale, ch'egli stesso aveva immaginato. —

— ripetette Sipiaghin. —

I due equipaggi si mossero.

Durante i primi dieci minuti, Sipiaghin e Paclin non aprirono bocca.

Il disgraziato zoppetto, col suo soprabito meschino e il berretto assai mal ridotto, pareva ancor più miserabile sul fondo azzurro-cupo della ricca stoffa di seta della carrozza.

Andava osservando in silenzio le delicate tendine cilestri che si arrotolavano in un attimo quando si premeva una molla, e la predellina di pelle bianca e lanosa sulla quale appoggiava i piedi, e il cassetto di mogano infisso nella parete anteriore, dal quale emergeva una tavoletta per scrivere ed anche un piccolo leggio. (Sipiaghin volea dare ad intendere che gli piaceva di lavorare in carrozza come il signor Thiers durante i suoi viaggi).

Paclin si sentiva intimidito. Due volte Sipiaghin lo sbirciò con la coda dell'occhio di sopra alla gota ben rasa; poi, cavando da una tasca laterale, con maestosa lentezza, un portasigari d'argento riccamente ornato di un monogramma in caratteri slavi, gli offrì.... sì, proprio, gli offrì un sigaro, tenendolo con negligenza tra l'indice e il medio della mano destra, protetta da un guanto gialletto, di fabbrica inglese, in pelle di cane.

— balbettò Paclin.

— fece Sipiaghin, e accese il proprio sigaro, uno squisito regalia.

— cominciò poi in tono insinuante spingendo a piccoli sbuffi delle spirali sottilissime di fumo fragrante, — (Parlava adagio, a frasi staccate, e non senza ragione). (Così dicendo fece passare il sigaro all'altro angolo della bocca).

— approvò Paclin, che si sentiva scorrere come un serpentello tepido e sottile lungo la spina dorsale. — (Paclin gettò una mezza occhiata a Sipiaghin il quale s'era leggermente voltato dalla sua parte, e lo avvolgeva con uno sguardo freddo, penetrante, ma non però ostile).

— interruppe Sipiaghin col tono di chi dicesse: e tornando a ripetere: si sprofondò nella contemplazione della spirale di fumo, che saliva rapidamente dalla punta del sigaro.

! — disse Paclin facendosi coraggio. —

— fece Sipiaghin, quasi destandosi da un profondo sonno; e senza dare a Paclin il tempo di ripetere quel che aveva detto (prova che avea perfettamente inteso le sue parole e che ripeteva le domande per solo gusto di posare), gli presentò il portasigari aperto.

Paclin, in atto riconoscente, ne prese un sigaro e l'accese.

— pensò.

Ma Sipiaghin lo prevenne.

— disse con negligenza, interrompendosi tratto tratto, esaminando il sigaro, gonfiando le gote, facendo viaggiare il cappello dalla nuca sulla fronte, e viceversa, —

(Attento, Paclin, amico mio!)...

— riprese a dire Sipiaghin senza smettere le sue manovre, — ripetette alzando le spalle),

— insinuò Paclin, —

— interruppe Sipiaghin; —

Paclin si strinse le due mani al petto.

— fece Sipiaghin, —

(Dio mio! Dio mio! quante ne sballo).

Sipiaghin strinse gli occhi.

Paclin si morse la lingua.

Il fatto è che non ne sapeva niente; ma, ricordandosi della visita di Solomine e dei colloqui notturni, avea gettato l'amo.... E Paclin vi abboccò senza sospetto.

— cominciò, dopo di che tacque di botto e tornò a mordersi la lingua. Ma era tardi oramai. Una semplice occhiata gli fece intendere che durante tutta la conversazione Sipiaghin avea giocato con lui come il gatto col topo.

— balbettò il disgraziato, —

— esclamò altero Sipiaghin, riassumendo di colpo tutta la sua sicumera ministeriale.

E Paclin si sentì di nuovo piccolo, meschino, ingarbugliato, preso al laccio.... Fino allora, avea fumato tenendo il sigaro nell'angolo della bocca opposto a Sipiaghin, e aspirandone adagio adagio il fumo, quasi di nascosto. Ora, se lo tolse adirittura dalle labbra e non fumò più.

— esclamò dentro di sè, mentre un gelido sudore gli scorreva per tutte le membra, —

Ma di rimediare non c'era più tempo. Sipiaghin si addormentò grave e dignitoso, da vero ministro, avvolto nel suo mantello ufficiale....

Del resto, un quarto d'ora dopo, le due carrozze facevano alto davanti alla casa del governatore.

XXXV.

Il governatore di S.*** apparteneva alla razza di quei generali bonaccioni, spensierati, mondani, che hanno la pelle bianca, liscia, pulita, e l'anima quasi linda quanto il corpo, i quali, nati bene, bene educati, impastati come un pan di zucchero, non mai tormentati dall'ambizione di diventare elementi dirigenti, son però discreti amministratori; e che, poco lavorando, sospirando sempre di tornare a Pietroburgo, e facendo una corte assidua alle belle signore della provincia, riescono di una incontestabile utilità per la regione amministrata e si lascian dietro una memoria eccellente.

S'era in quel punto levato di letto; e con indosso una veste da camera di seta, con la camicia da notte sbottonata, se ne stava seduto davanti allo specchio, lavandosi con acqua di Colonia allungata la faccia ed il collo, dintorno al quale avea tolto una intera collezione d'immagini e di scapolari.

Un domestico venne ad annunziargli che i signori Sipiaghin e Colomeizew domandavano di esser ricevuti per un affare grave ed urgente.

Conosceva intimamente Sipiaghin; gli avea dato del tu fino dai primi anni; lo incontrava sempre nei salotti della capitale, e, da un pezzo in qua, ogni volta che quel nome di Sipiaghin gli veniva in testa, vi aggiungeva invariabilmente un Ah! rispettoso come a quello di un futuro dignitario.

Conosceva un po' meno e stimava anche molto meno Colomeizew, sul conto del quale riceveva spesso dei reclami poco favorevoli; ma lo riguardava come un individuo che, in un modo o nell'altro, avrebbe fatto molto cammino.

Fece pregare i due visitatori di passare nel suo gabinetto, e di lì a poco li raggiunse, sempre in veste da camera. Non si scusò nemmeno di riceverli in una veste così poco ufficiale e strinse loro amichevolmente la mano.

Paclin non avea seguito i due personaggi nel gabinetto del governatore; rimasto di fuori, aspettava in salotto. Smontando dalla carrozza, avea tentato di svignarsela col pretesto di certi suoi affari; ma Sipiaghin lo avea trattenuto con cortese fermezza, mentre Colomeizew, accorrendo spaventato, bisbigliava all'orecchio dell'amico Boris: Ne le lâchez pas! Tonnerre de tonnerres! e l'avea fatto salire con lui. Non però l'aveva introdotto nel gabinetto, e sempre con la stessa fermezza cortese lo avea pregato di aspettare che lo si chiamasse.

Paclin, rimasto solo, ebbe di nuovo l'idea di scappar via, ma un robusto gendarme, prevenuto da Colomeizew, comparve sulla soglia....

— domandò Sipiaghin al governatore.

— rispose l'amabile epicureo, mentre un sorriso gli arrotondava le guancie rosate e scopriva due file di denti bianchissimi, a mezzo nascosti da un par di morbidi baffi.

— ripetette il governatore senza mutar di espressione.

Si ricordava molto vagamente che l'individuo arrestato il giorno avanti chiamavasi Marchelow; ed avea del tutto dimenticato che la signora Sipiaghin avea un fratello di quel nome.

— riprese. —

Sipiaghin avea ben altro pel capo!

Quando alla fine ebbe narrato ogni cosa e spiegato il motivo della visita, il governatore mandò una esclamazione dolorosa, si battè la fronte e prese un’espressione di sincero rammarico.

— ripetette. —

Suonò in un modo speciale. Un aiutante di campo comparve.

(Gli disse quel che bisognava fare. Il barone disparve). —

— sentenziò Colomeizew.

Il governatore lo guardò di sottecchi.

Colomeizew alzò le spalle e si allontanò, dondolandosi, verso la finestra.

L'aiutante di campo ricomparve, accompagnato da Marchelow.

Il governatore avea detto il vero: Marchelow era calmissimo. Il solito cipiglio era perfino dileguato, cedendo il posto a una specie di stanchezza indifferente.

Scorgendo il cognato, non mutò di espressione. Ma quando ebbe volta un'occhiata all'aiutante tedesco che lo avea condotto, gli scintillarono gli occhi dell'odio antico che quella classe di gente gl'inspirava.

Aveva il soprabito strappato in due posti e ricucito alla meglio con grossi punti; sulla fronte, sulle sopracciglia e alla radice del naso, varie scorticature e macchie di sangue coagulato. Non s'era lavato il viso; bensì si era pettinato. Nascoste le due mani nelle maniche, si fermò poco discosto dalla porta. Respirava regolarmente.

— gli si volse Sipiaghin con voce commossa, facendo due passi verso di lui e stendendo la mano destra tanto da toccarlo.... o anche da fermarlo nel caso che avesse fatto un movimento in avanti, —

Qui Sipiaghin alzò di un tono la voce:

— disse ad un tratto Marchelow, volgendosi al governatore con voce calma benchè alquanto rauca, —

— venne su Colomeizew con voce stridente. —

— disse Marchelow, mentre un debole sorriso gli sfiorava le pallide labbra.

Colomeizew digrignò i denti, pestò i piedi.... Ma il governatore lo arrestò.

Marchelow avvolse Colomeizew d'un'occhiata lenta e glaciale, e si volse poi a Sipiaghin.

Sipiaghin alzò le mani verso il soffitto.

(Sipiaghin si decise a toccar le corde del cuore)

Marchelow corrugò le folte sopracciglia.

Marchelow scoppiò ad un tratto.

Sipiaghin alzò le spalle.

— ripetette Marchelow con voce cupa. —

— disse Sipiaghin, —

E Marchelow abbassò la testa.

A dispetto della calma apparente, si sentiva sconvolto.

Quel che lo torturava, quel che lo rodeva più di tutto, era il pensiero di essere stato consegnato.... da chi? Da Geremia.... da quel medesimo Geremia, nel quale riponeva tanta fiducia!

Che Dutik non lo avesse seguito, più o meno si capiva. Dutik era un beone, e quindi un vigliacco.... Ma Geremia!... Geremia, che era per Marchelow la personificazione del popolo russo!... Proprio quello lì lo avea tradito e consegnato!

Tutti i suoi sforzi dunque erano andati a vuoto! E il famoso Chisliacow non avea che spacciato fandonie! E Basilio Nicolaevic aveva solo ordinato delle assurdità!

Ma dunque tutti quegli articoli, quegli opuscoli, quelle opere di socialisti, di pensatori, quelle parole così evidenti, così salde, così sicure, non erano che inganno? Ed era ciò possibile?... E quel bellissimo paragone del tumore già maturo, che solo attende il colpo della lancetta, non era che una frase vuota di senso?

— mormorava dentro di sè, mentre un lieve rossore gli si diffondeva sulla faccia abbronzata. —

Riandava con la mente i particolari dell'arresto.... Sulle prime, un gran silenzio nella folla dei contadini; poi dei cenni, delle occhiate, qualche grido nelle ultime file.... Poi un contadino che gli si accosta di lato, come per salutarlo.... Poi un tumulto improvviso.... E lui, Marchelow, sollevato a braccia, gettato per terra.... Ed essi: Poi lo scricchiolìo delle ossa, la rabbia impotente, la polvere fetida in bocca e nelle nari.... Una risata fragorosa, un urlo.... Ah! quale orrore!

Ecco quello che lo rodeva dentro. Se fosse caduto sotto una ruota, poco male; nessun danno alla causa comune!... Ma Geremia! Geremia!

Mentre Marchelow meditava col capo piegato sul petto, Sipiaghin trasse in disparte il governatore, e prese a parlargli sottovoce, con piccoli gesti discreti, battendosi due dita sulla fronte, come per dire:

Sforzavasi insomma di svegliare nel governatore un senso, se non di simpatia, almeno di pietà per quel mentecatto. E il governatore si stringeva nelle spalle, alzava gli occhi, li chiudeva, dolevasi di non poter niente di niente, prometteva qualche cosa....

balbettava attraverso i baffi profumati, —

— ripeteva Sipiaghin con rigida sommessione.

Mentre così discorrevano in un angolo, Colomeizew non riusciva a star fermo; si agitava, tossiva, facea schioccar la lingua, dava tutti i segni più manifesti di impazienza. Alla fine, non potendone più, si accostò a Sipiaghin e gli bisbigliò in fretta:

— rispose forte Sipiaghin. — — disse volgendosi al governatore (dava dell'Eccellenza all'amico Voldemar per non compromettere il prestigio dell'autorità in presenza di un insorto), — — soggiunse a mezza voce; —

Il governatore guardò a lungo Sipiaghin, pensò con ammirazione: — — e diè un ordine.

Un minuto dopo, Paclin appariva alla sua presenza.

Il povero zoppo stava per fare un profondo inchino: ma, visto che ebbe Marchelow, restò curvo a mezzo, sgualcendo con le mani il berretto.

Marchelow lo guardò appena e forse non lo riconobbe, perchè tornò a sprofondarsi nei suoi pensieri.

— domandò il governatore, drizzando verso Paclin un dito fino e bianco, ornato di una turchina.

— rispose Sipiaghin ridendo. — — soggiunse dopo un momento di riflessione. — — lo dico col rossore sulla fronte —

borbottò il governatore, crollando il capo. —

Sipiaghin alzò la voce.

— soggiunse Colomeizew.

— ripetette Sipiaghin con più forza. —

Alle parole “m'ha detto il signor Paclin” , Marchelow volse un'occhiata all'omiciattolo e si limitò a sbozzare un sorriso noncurante.

— esclamò Paclin, —

— disse il governatore a Sipiaghin agitando leggermente la mano nella direzione di Paclin, come per dirgli:

— disse Sipiaghin; —

— urlò di nuovo Paclin; —

— ribattè Sipiaghin con la stessa inesorabile precisione di tono, —

— tradusse Colomeizew.

Marchelow abbracciò con una occhiata i due oratori.

— disse, —

Ma qui il governatore perdette un po' la pazienza.

— esclamò, —

Sipiaghin corrugò la fronte.

Sipiaghin gustava una voluttà speciale a tormentare il disgraziato: si vendicava così non solo del sigaro offertogli, ma anche della familiarità di cui lo aveva onorato lungo il viaggio.

— soggiunse Colomeizew, —

— domandò il governatore a Marchelow in tono nasale e semi-ufficiale.

Marchelow, eccitato da una gioia astiosa, domandò a sua volta:

Il governatore gli volse la schiena.

— disse, alzando le spalle. —

L'aiutante di campo si avanzò, e Paclin colse quel momento per sgusciare, zoppicando, accanto a Sipiaghin.

— balbettò; —

— rispose forte Sipiaghin; —

— conchiuse Marchelow.

Sipiaghin non battè palpebra.... Tutto ciò era tanto al disotto di lui!

— insistette Paclin con voce rotta, soffocata. Gli tremava il cuore di emozione e forse di paura, gli brillavano di sdegno gli occhi, gli si stringeva la gola dalle lagrime: lagrime di pietà per essi, di dispetto per sè. —

— interruppe Sipiaghin con tono più forte, —

— interruppe di nuovo Marchelow. —

Il governatore reputò conveniente di por termine a quella scena.

— disse, —

Sipiaghin allargò le braccia.

L'aiutante si accostò a Marchelow, fece suonare gli sproni, e descrisse con la mano destra una linea orizzontale che volea dire: Marchelow fece un mezzo giro e si allontanò. Paclin, mentalmente, per dir vero, gli strinse la mano con un senso di pietà e di amara simpatia.

— riprese il governatore, — (e accennava a Paclin con un'alzata di mento)

— rispose Sipiaghin gravemente. —

— esclamò dolorosamente Colomeizew, il quale aveva teso l'orecchio durante il breve colloquio per afferrarne qualche frase. —

— rispose sorridendo il governatore. — (il governatore imitò il rantolo d'un appiccato), — riprese volgendosi di nuovo a Sipiaghin. — (e indicava col mento Paclin)

— suggerì piano Sipiaghin; ed aggiunse in tedesco: — (lascia correre il gaglioffo), figurandosi, chi sa perchè, di fare una citazione del Goetz di Berlichingen di Goethe.

— disse forte il governatore. —

Paclin fece un inchino complessivo e uscì all'aperto, rotto, avvilito, annichilito. Dio! Dio! quel disprezzo era il colpo di grazia.

— pensava con una disperazione ineffabile, —

Ma chi è quella nota figura, che se ne sta ritta davanti la casa del governatore, e che gli rivolge un'occhiata triste e piena di rimprovero?

Ma sì.... è il vecchio servitore di Marchelow. Si vede che ha voluto seguire il padrone e non si stacca dalla soglia della prigione.... Ma perchè guarda Paclin a quel modo? Non è stato Paclin, in fin dei conti, che ha denunciato Marchelow!

— pensava Paclin, ricadendo nella sua desolata meditazione. — Si ricordò allora dell'occhiata di Marchelow e di quelle terribili parole: .... e poi quegli occhi tristi del vecchio servo, così pieni di rimprovero.... E come è detto nelle Sacre Carte, egli “pianse amaramente” e si avviò un passo dopo l'altro verso l'oasi, a casa dei due vecchietti e di Snandulia....

XXXVI.

Quella stessa mattina, uscendo dalla sua camera, Marianna vide Nejdanow tutto vestito e seduto al divano. Avea la testa appoggiata alla mano destra; l'altra mano, inerte, abbandonata sulle ginocchia.

Ella gli si accostò.

Le palpebre grevi degli occhi di lui lentamente si sollevarono.

Nejdanow scosse il capo. —

?

Nejdanow stette muto.

— disse alla fine.

Nejdanow le prese dolcemente la mano.

La voce avea calma; lo sguardo pieno di tenerezza e di preghiera.

Marianna gli sedette accanto e gli strinse con affetto la mano.

— riprese a dire Nejdanow, aprendo gli occhi, ma questa volta senza guardare a lei, —

Marianna si raddrizzò e alzò la testa.

— disse, —

Nejdanow le volse uno sguardo di tenerezza e d'invidia.

Marianna taceva.

— riprese Nejdanow, —

— disse Marianna in tono esitante, —

Egli trasse un profondo sospiro.

Nejdanow trattenne un che gli sfuggiva dalle labbra, e rispose lentamente:

Nejdanow strinse forte la mano ch'ella gli aveva abbandonata.

Ella gli si chinò sopra, lo guardò fiso con ansietà, con trepidazione, studiandosi di leggergli negli occhi, in fondo all'anima.

Dolcemente egli la respinse e le baciò la mano: questa volta ella non resistette, non rise, e continuò a guardarlo ansiosa.

— diss'ella lentamente, —

Egli si torse le dita con forza.

Marianna ebbe voglia di domandargli la spiegazione di queste parole, ma non lo fece.... tanto più che in quel punto entrava Solomine.

I movimenti di lui erano più rapidi e bruschi del solito. Avea le labbra contratte, le palpebre tormentate da un lieve tremolio: la faccia smagrita, austera, quasi imperiosa.

— disse, —

— gli domandò Nejdanow. — — soggiunse indicando con gli occhi gli stivaloni che Solomine avea calzati.

Marianna si avviò alla porta.

Sul viso di Nejdanow apparve ad un tratto una strana espressione, mista di terrore e di angoscia.

— esclamò egli con voce spenta.

Ella si arrestò.

Marianna uscì. Solomine fece atto di seguirla; ma Nejdanow lo trattenne.

Solomine sorrise appena.

Nondimeno gli diè la mano.

, — continuò Nejdanow, —

Solomine uscì e raggiunse Marianna sulle scale. Aveva in mente di dirle qualche cosa a proposito di Nejdanow, ma niente le disse; e Marianna capì per l'appunto quel suo pensiero e quel suo silenzio. Nè osò interrogarlo, e tacque anch'ella.

XXXVII.

Non sì tosto uscito Solomine, Nejdanow balzò dal divano; fece due volte il giro della camera, poi si fermò nel mezzo, e stette un minuto come impietrito; poi si riscosse ad un tratto, si spogliò in fretta del suo costume da maschera, che spinse col piede in un angolo, cercò i suoi abiti di prima e se ne vestì.

Accostatosi alla tavola a tre piedi, ne prese dal cassetto due buste sigillate e un piccolo oggetto che si mise in tasca. Le buste le lasciò sulla tavola.

Si abbassò poi fino all'apertura del caminetto e ne tirò su lo sportellino.... Nel caminetto era un mucchio di cenere; ultimo avanzo delle sue carte e del famoso quaderno delle poesie.... Avea bruciato tutto durante la notte.

Ma nel medesimo caminetto, appoggiato ad una parete, trovavasi il ritratto di Marianna dono di Marchelow. Si vede che gli era mancato il coraggio di bruciare anche quello.

Lo prese con cura, e lo mise sulla tavola accanto alle due buste.

Poi con un atto energico, afferrò il berretto e andò verso la porta.... Ma si fermò, tornò indietro ed entrò nella camera di Marianna.

Dopo essere stato un momento ritto, immobile, girò gli occhi intorno, e accostatosi al letticciuolo della fanciulla, posò le labbra, con un singhiozzo unico e muto, non già sul guanciale, ma a' piedi del letto....

Si raddrizzò, si calcò il berretto sulla fronte e si precipitò fuori. Senza incontrar nessuno, nè lungo il corridoio, nè sulle scale, nè da basso, sgusciò nel piccolo steccato.

Il cielo era grigio e basso; un vento umido agitava i fili d'erba e facea dondolare le foglie degli alberi; la filanda era meno rumorosa che non solesse a quell'ora; un odore di carbon fossile, di catrame e di fuliggine veniva dal cortile.

Nejdanow volse intorno uno sguardo scrutatore e diffidente.... Poi andò diritto a un vecchio pomo che avea attirato la sua attenzione il giorno stesso del suo arrivo, quando per la prima volta avea guardato fuori della finestra.

Il tronco dell'albero era coperto di musco secco; i rami, nudi e rugosi, qua e là ornati di foglioline verdi e rossigne, levavansi al cielo come braccia di vecchio supplicante.

Nejdanow si fermò saldo sulla terra nera che circondava il piede del pomo, e cavò di tasca il piccolo oggetto che avea preso nel cassetto della tavola. Poi guardò con attenzione alle finestre della casetta.

— pensò, —

Ma in nessun posto si mostrò un sol viso umano. Tutto pareva morto, tutto voltavasi in là, si allontanava per sempre, lo lasciava solo, in balìa del destino. Soltanto la fabbrica gli mandava il suo strepito e le sue esalazioni. Una pioggerella fredda cominciava a cadere in gocciole minuscole ed acute.

Attraverso i rami tortuosi dell'albero, guardò al cielo grigio, basso, umido, indifferente, cieco.... Sbadigliò, si stirò nelle braccia, disse fra sè:

Scagliò lontano il berretto.... Sentì per tutto il corpo una tensione forte, angosciosa, quasi uno schianto.... Appoggiò la canna della rivoltella al petto e calcò sul grilletto....

Ebbe un urto, non molto forte.... ed ecco che si trova per terra supino.... Tenta di comprendere quel che gli è accaduto, e come si spiega la presenza di Tatiana.... Vuole anche chiamarla per dirle: Ma è già rigido e muto. Un turbine di fumo verdastro gli passa davanti agli occhi, sul viso, sulla fronte, nel cervello, e un peso enorme, schiacciante, lo preme e lo inchioda per sempre al suolo.

L'apparizione improvvisa di Tatiana non era stata una allucinazione. Nel punto stesso ch'egli calcava il grilletto dell'arma, la buona donna era venuta ad una finestra e lo avea visto sotto il pomo.

Non appena avea pensato: che già lo vedea stramazzare d'un sol colpo.

Benchè non avesse udito il debole scoppio della rivoltella, subito capì che una disgrazia era accaduta. Si precipitò verso lo steccato e corse al giacente.

Ma la tenebra lo involgeva già tutto. Ella gli si chinò sopra e vide del sangue.

— gridò con voce atterrita. —

Di lì a pochi momenti, Marianna, Solomine, Paolo e due operai trovavansi già nello steccato. Nejdanow fu sollevato, portato in camera sua, adagiato su quel medesimo divano dove avea passato la notte.

Giaceva supino, gli occhi semiaperti e impietriti, il viso livido; rantolava lento e con uno sforzo, tratto tratto soffocandosi come in un singhiozzo. La vita non avealo ancora abbandonato.

Marianna e Solomine, ritti di qua e di là, erano quasi pallidi quanto lui, percossi, annientati tutti e due, specialmente Marianna, ma niente affatto sorpresi.

— pensavano; e, nel punto stesso, pareva loro, sì.... pareva loro infatti di averlo preveduto.

Quando egli avea detto a Marianna: – ed anche quando aveva accennato ai due uomini che aveva in sè e che insieme non poteano vivere – non si era forse svegliato in lei un vago presentimento?... E perchè non aveva ella riflettuto a quelle parole e a quel presentimento?... E perchè ora non osava guardare a Solomine, quasi paurosa di vedere in lui un complice e quasi anch'egli dovesse provare gli stessi rimorsi di coscienza?... E perchè al sentimento d'ineffabile pietà, al dolore disperato che Nejdanow le inspirava mescolavasi una specie di terrore e di vergogna? Chi sa! forse stava in lei salvarlo.... Perchè nè l'uno nè l'altro hanno il coraggio di articolare una parola?... Respirano a fatica, aspettano.... Che cosa aspettano?... Dio! Dio!

Solomine mandò subito pel dottore, benchè non fosse possibile nutrire alcuna speranza. Tatiana aveva applicato una grossa spugna inzuppata d'acqua fresca sulla ferita, piccola, esangue e già nera.... Aveva anche bagnato i capelli di Nejdanow con acqua e aceto....

Di botto, il ferito non rantolò più e fece un leggiero movimento.

— balbettò Solomine.

Marianna cadde in ginocchio presso il divano.... Nejdanow la guardò.... Fino a quel momento aveva avuto gli occhi immoti dell'agonia.

— sussurrò con un fil di voce. —

— gemette Marianna.

Un brivido lo scosse da capo a piedi.

Solomine prese la mano di Marianna. La testa di lei era appoggiata al divano, con la faccia in giù, presso la ferita. Egli invece, Solomine, stava ritto, austero, cupo come la notte.

Ricominciò il rantolo, ma più greve e rotto. Il petto del morente si gonfiò, i fianchi rientrarono....

Sforzavasi, si vedeva, di mettere la propria mano su quelle due mani congiunte, ma la sua mano era già morta.

— balbettò Tatiana di sotto la porta, facendosi il segno della croce.

Ancora un rantolo breve, un singhiozzo.... Ancora uno sguardo a Marianna.... Ma già una terribile bianchezza lattiginosa, venendo dall'interno, gli invadeva le pupille....

— disse, e fu questa l'ultima sua parola.

Era finito; e le mani di Solomine e di Marianna erano ancora unite sul petto del disgraziato.

Ecco quel che contenevano le due lettere lasciate.

Una, indirizzata a Siline, era di poche righe:

Addio, fratello, amico, addio! Quando riceverai questo pezzetto di carta, io non ci sarò più. Non domandare il come e il perchè; non ti affliggere. Sappi che ora io sto meglio. Prendi il nostro immortale Puschkine e rileggi in Eugenio Oneghine la descrizione della morte di Lenski. Ti ricordi?... “I vetri sono imbiancati di gesso; la padrona non c'è”, ecc. Ecco tutto.
Non ho nulla da dirti.... Perchè molte cose avrei da dire, e il tempo mi manca. Ma non ho voluto andar via, senza avvertirti; altrimenti mi avresti creduto vivo, ed io avrei così peccato contro la nostra amicizia. Addio. E vivi
Il tuo amico
A.N.

L'altra lettera era un po' più lunga, e portava sopra i nomi di Solomine e di Marianna. Ecco quel che conteneva:

Figliuoli miei!”

(Seguiva una lacuna: c'era una raschiatura o piuttosto una cancellatura, come per lagrime cadute).

Vi sembrerà strano forse che io vi chiami così; io son quasi un ragazzo, e tu, Solomine, lo so, sei più vecchio di me. Ma io morirò fra poco, e, sul limite della vita, mi pare di essere un vecchio. Sono molto colpevole verso di voi due, specialmente verso di te, Marianna, perchè vi do un gran dolore (e tu lo sentirai, Marianna, ne son certo!), ed anche molto fastidio. Ma che altro avrei potuto fare? Non ho saputo trovare una soluzione migliore. Non essendo riuscito a semplificarmi, non mi restava che cancellarmi addirittura. Sarei stato un fardello, Marianna, per te e per me stesso. Tu, generosa, avresti forse accettato con gioia quel fardello come un altro sacrificio; ma io non avevo il diritto d'importelo. Tu hai meglio e più da fare.
Miei cari figliuoli, lasciate che io vi unisca l'uno all'altro, con una mano che viene, per dir così, di là dal sepolcro.
Insieme vi troverete bene. Tu, Marianna, finirai con amare veramente Solomine, ed egli.... egli t'ha amata dal giorno in cui ti vide in casa di Sipiaghin. Questo non è stato mai un segreto per me, benchè fossimo fuggiti insieme alcuni giorni dopo.
Ah! quel mattino! che bellezza, che frescura, che giovinezza! Mi torna ora in mente come il simbolo della vostra vita, della tua e della sua.... Ed è solo per caso che, quel mattino, io mi trovai al suo posto.
Ma bisogna finire. Non ho l'intenzione di destare la tua pietà: voglio solo discolparmi. Domani, dovrai passare dei momenti assai tristi. Ma che fare, visto che non c'è altra uscita? Addio, Marianna, cara e onesta fanciulla. Addio, Solomine! Io l'affido a te. Vivete felici, vivete a vantaggio degli altri.... E tu, Marianna, ricordati di me, solo quando sarai felice. Pensa a me come ad un uomo onesto, e buono anche, ma al quale conveniva meglio morire che vivere.
T'ho io veramente amata?... Non lo so, amica mia; questo so, che non ho mai provato un più forte sentimento, e che la morte mi sembrerebbe ancor più spaventosa se quel sentimento non portassi meco nella tomba.
Marianna!... se per caso t'imbatti in una donna per nome Masciùrina, – Solomine la conosce, e del resto, mi pare che anche tu l'abbi vista – dille che ho pensato a lei con riconoscenza pochi momenti prima di morire.... Ella capirà quel che voglio dire.
Bisogna pur troppo troncar questi commiati. Ho guardato or ora fuori la finestra, una bella stella brillava immobile in mezzo alle nubi che correvano rapidamente. Ma, per rapide che corressero, non riuscivano a nasconderla. Quella stella mi ha fatto pensare a te, Marianna.
In questo momento, tu dormi nella camera contigua, e di nulla sospetti. Mi sono accostato alla tua porta, ho origliato e mi è sembrato udire il tuo respiro tranquillo. Addio! Addio!... Addio, figliuoli miei, amici miei!

Il vostro A.

Vedi un po'!... In questa lettera, scritta in punto di morte, non ho detto una sola parola della nostra grande opera! Gli è che in punto di morte, non si vuol mentire.... Marianna, perdonami questo poscritto.... La menzogna era in me, non già nella causa, alla quale tu credi.

Ah! ancora una parola. Tu penserai forse, Marianna, ch'io abbia avuto paura della prigione, e che ho scelto questo mezzo estremo per evitarla. No! la prigione non è poi gran cosa; ma stare in prigione per una causa, in cui non si ha fede, sarebbe troppo assurdo. Se mi tolgo la vita, non è già per paura della prigione.

Addio, Marianna, addio!

Marianna e Solomine uno dopo l'altro, lessero questa lettera. Ella poi si pose in tasca le due lettere e il ritratto, e rimase immobile.

Allora Solomine le disse:

Marianna si accostò a Nejdanow, posò le labbra su quella gelida fronte, e, volgendosi a Solomine, rispose:

Egli la prese per mano, ed insieme uscirono dalla camera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Di lì a poche ore, quando la polizia penetrò nella filanda, trovò bensì Nejdanow, ma già cadavere. Tatiana lo avea composto sul suo letto, mettendogli sotto il capo un guanciale bianco, incrociandogli le mani, collocando anche un mazzolino di fiori sopra una mensoletta accanto al capezzale.

Paolo, che avea ricevuto tutte le necessarie istruzioni, fece agli agenti l'accoglienza più rispettosa e canzonatoria nel tempo stesso, tanto da lasciarli in dubbio se dovessero ringraziarlo o arrestarlo.

Egli narrò tutti i particolari del suicidio: offrì loro del buon formaggio di Gruyère e del Madera eccellente; ma interrogato sul conto di Solomine e della fanciulla che era ricoverata alla filanda, dichiarò di essere nella più completa ignoranza. Si limitò a dire che Solomine non rimaneva mai fuori a lungo, perchè c'era molto da fare; che il giorno stesso o al più tardi la dimane sarebbe di ritorno; e che subito, senza perdere un minuto, ne avrebbe avvertita l'autorità. Stessero pur tranquilli, perchè era uomo di parola!

Per tal modo, i signori agenti se ne tornarono con le pive nel sacco, dopo aver lasciato dei guardiani presso il corpo, con la promessa di mandare il giudice istruttore.

XXXVIII.

Due giorni dopo questi avvenimenti, un uomo e una fanciulla a noi ben noti entravano in vettura nella corte di quel brav'uomo del padre Zosimo; e la mattina appresso erano marito e moglie.

Disparvero di lì a poco, e il padre Zosimo non ebbe a pentirsi di quanto avea fatto.

Lasciando la filanda, Solomine avea dato a Paolo una lettera da recapitare al principale. La lettera conteneva un prospetto completo e preciso della situazione dell'azienda, che era brillantissima, e una domanda di tre mesi di congedo. Era stata scritta due giorni prima della morte di Nejdanow; dal che si potea dedurre che, in quel momento, egli credea necessario partire con lui e con Marianna e scomparire per qualche tempo.

L'inchiesta aperta a proposito del suicidio non approdò a nulla.

Il corpo fu sotterrato. Sipiaghin non si ostinò nelle ricerche per trovar la nipote.

Marchelow fu giudicato nove mesi dopo. Il suo contegno davanti al tribunale fu lo stesso di quello serbato davanti al governatore; calmo, dignitoso, malinconico.

La sua rigidezza abituale s'era ammollita; non già per debolezza, ma per un sentimento più nobile. Di nulla si discolpava, di nulla si pentiva, nessuno accusava o nominava. Il viso scarno, gli occhi spenti, non aveano che una sola espressione di rassegnazione e di fermezza. Le sue risposte brevi, ma chiare e franche, destavano negli stessi giudici un sentimento che somigliava alla pietà.

I contadini che l'aveano consegnato e che faceano da testimoni a carico, partecipavano a cotesto sentimento e parlavano di lui come di un signore semplice e buono.

Se non che la colpa era evidente; sfuggire alla pena non era possibile; ed egli stesso l'accettò come una cosa naturale.

In quanto ai suoi complici, poco numerosi del resto, Masciùrina si nascondeva; Ostrodumow fu ucciso da un borghese al quale predicava l'insurrezione e che gli diè un colpo di mala grazia; Goluschine ebbe solo una leggera punizione, grazie al suo sincero pentimento (era quasi ammattito dal terrore); Chisliacow fu trattenuto un mese in prigione poi rilasciato, e non gli s'impedì nemmeno di ricominciar le sue corse attraverso tutti i dipartimenti della Russia; Nejdanow s'era salvato, uccidendosi; Solomine, per mancanza di prove, fu bensì sospettato, ma lasciato in pace.

Del resto, egli non cercò di sottrarsi alla giustizia e si presentò all'epoca stabilita. A Marianna non si fece nessuna allusione. Paclin era riuscito a cavarsela; ma del pover'uomo nessuno si diè un pensiero al mondo.

*

* *

Diciotto mesi eran passati. Correva l'inverno del 1870. A Pietroburgo, in quella stessa città dove il consigliere privato e ciambellano Sipiaghin preparavasi a rappresentare una parte importante, dove sua moglie proteggeva le arti, dava serate musicali e metteva su cucine economiche, dove il signor Colomeizew era considerato una delle colonne del ministero, un omiciattolo, avvolto in un mantello col bavero di pelle di gatto, camminava zoppicando lungo uno dei viali del Vassili-Ostrow.

Era Paclin. Molto era mutato. Qualche filo bianco brillava nelle ciocche di capelli che sfuggivano di sotto al berretto di pelo.

Una donna alta e robusta, strettamente avviluppata in un mantello di panno scuro, gli veniva incontro.

Egli le volse un'occhiata distratta, le passò accanto; poi, fermatosi di botto, riflettè un poco, stese il braccio e voltandosi vivamente, la raggiunse e la guardò di sotto il cappello.

— disse a mezza voce.

La donna lo squadrò dall'alto in basso e proseguì per la sua via.

— continuò Paclin zoppicando a fianco, —

— rispose la donna con voce grave, ma con un accento russo spiccatissimo.

— gli domandò di botto la contessa italiana.... —

Masciùrina non avea sposato nessun conte. All'estero, dov'era stata, le avean dato il passaporto di una certa contessa Rocca di Santo Fiume, morta poco tempo innanzi; e, così provvista, era tranquillamente partita per la Russia, benchè d'italiano non capisse una parola e avesse un tipo russo molto spiccato.

Paclin la condusse nel suo modesto quartierino. La sorella gobba, Snandulia, con la quale abitava, venne fuori per riceverli di dietro a un tramezzo che separava la cucinetta dalla piccola anticamera.

— diss'egli, —

Masciùrina, che non avrebbe mai accettato l'invito di Paclin se questi non le avesse parlato di Nejdanow, si tolse il cappellino, si aggiustò con la mano virile i capelli tagliati corti, fece un'inclinazione con la testa e si mise a sedere senza aprir bocca.

Non era punto mutata. Anche il vestito era lo stesso di due anni prima. Ma una tristezza immobile le lampeggiava dagli occhi, dando un certo carattere dolce all'espressione burbera del viso.

Snandulia andò per il tè. Paclin sedette dirimpetto a Masciùrina, le battè amichevolmente sul ginocchio, piegò il capo da una parte e tentò di parlare; ma non potè sulle prime che tossire; perchè la voce gli si ruppe in gola, e qualche lagrima gli spuntò negli occhi.

Masciùrina stava immobile, diritta, senza appoggiarsi alla spalliera della seggiola, e guardava di sbieco.

— disse finalmente Paclin, —

— rispose Masciùrina sempre guardando di sbieco.

Masciùrina fece un cenno col capo. Avrebbe voluto ch'egli seguitasse a parlare di Nejdanow, ma non domandarglielo. Egli però la comprese.

Masciùrina stette un momento senza rispondere.

— disse alla fine.

Masciùrina gli volse una rapida occhiata. Non l'avea capito nè si volea dar la pena di capire. Trovava strano e sconveniente che osasse paragonarsi a Nejdanow; ma pensò:

Il fatto è che egli non si vantava; credeva anzi di umiliarsi con quel confronto.

— proseguì Paclin; —

Stette muto un momento, poi riprese:

Masciùrina non si ricordava punto di cotesti Sipiaghin; ma Paclin li detestava tutti e due così cordialmente, in ispecie il marito, che non potea rinunziare alla voluttà di tartassarli.

— domandò Masciùrina seccata ad un tratto che quell'ometto lì le parlasse di quell'altro.

Masciùrina fece un gesto come per dire:

— domandò, —

Masciùrina tornò a fare il suo gesto.

Un tempo, era stata gelosa di Marianna perchè questa amava Nejdanow; ora s'indignava perchè non aveva esitato a tradirne la memoria....

— disse in tono sprezzante.

Quel che Paclin desiderava non era tanto di trattenere Masciùrina quanto di metter fuori, di sfogare tutto ciò che sordamente gli fermentava dentro. Dopo tornato a Pietroburgo, vedeva pochissima gente, pochissimi giovani soprattutto. La sua storia con Nejdanow l'avea spaventato. Era diventato la prudenza incarnata. Fuggiva la società; e i giovani, dal canto loro, lo guardavano con occhio sospettoso.

Qualcuno gli avea anche gettato in viso la parola: spia! In quanto ai vecchi, non trovava gusto a vederli. Sicchè passavano intere settimane senza che gli si offrisse il destro di dire una parola.

Con la sorella non si apriva, non già che la stimasse poco intelligente, tutt'altro!... Ma con lei era obbligato a parlare seriamente e con perfetta veracità; e non appena lasciavasi andare ai suoi paradossi e ai sarcasmi, ella si metteva a guardarlo intenta, con una certa compassione, che lo mortificava.

La vita di Pietroburgo gli era dunque divenuta poco meno che insopportabile, e già gli balenava l'idea di trasportare altrove i suoi penati.... a Mosca magari.

E intanto una farragine di riflessioni, di pensieri, di motti arguti, di malignità, gli si accumulava dentro come l'acqua nel serbatoio di un mulino chiuso.... Alzar la saracinesca non si poteva. L'acqua stagnava e corrompevasi. In buon punto Masciùrina era arrivata, la saracinesca s'era aperta, e il flusso delle parole correva, correva.... Ce ne fu per tutto e per tutti: per Pietroburgo, per la vita pubblica e privata, per la intiera Russia. Nessuno e niente fu risparmiato. Tutto ciò mediocremente premeva a Masciùrina; ma ella non gli rispondeva, non lo interrompeva.... E Paclin non domandava altro.

— diceva, —

Ma qui Masciùrina sbadigliò, e Paclin capì di dover mutare argomento.

— lo interruppe Masciùrina. —

Paclin ebbe un colpo; e, per nascondere l'ingrato turbamento, fece udire una risatina sforzata.

— disse. —

Non compì la frase.

Masciùrina prese la tazza con una mano, un pezzetto di zucchero con l'altra, e si mise a bere alla russa, cioè sgranocchiando lo zucchero e sorbendo.

Paclin diè in uno scroscio di risa.

— rispose Masciùrina imperturbabile.

Si scaldava via via, senza accorgersi che Masciùrina già da un pezzo non l'ascoltava più e guardava da un'altra parte.

— continuò —

— disse ad un tratto alle spalle di lui la voce di Snandulia, —

— esclamò confuso Paclin, —

Masciùrina alzò lentamente gli occhi foschi e gli disse pensosa:

Si alzò e si diè a frugare nel cassetto. Snandulia si accostò a Masciùrina, la guardò a lungo e le strinse forte la mano come ad una compagna.

— esclamò Paclin, presentando la fotografia a Masciùrina.

Ella, quasi senza guardare al ritratto, senza dir grazie, ma tutta accesa in viso, se lo cacciò in tasca, si mise il cappellino e si avviò per uscire.

— le disse Paclin. —

Masciùrina non rispose.

Masciùrina varcò la soglia.

— disse, tirandosi dietro la porta.

Paclin rimase a lungo davanti a quella porta chiusa.

— disse finalmente.

FINE