TERRE VERGINI

Convien dissodare la terra vergine non già con aratro che ne sfiori la superficie, ma col vomero che affonda e squarcia”.

(Giornale d'un agronomo)

I.

Era la primavera dell'anno 1868 e batteva appena il mezzogiorno.

Nella via degli Ufficiali, a Pietroburgo, arrampicavasi su per una buia e sudicia scaletta d'una casa a cinque piani un uomo sui ventisette anni, sciattato e povero in arnese. Con uno strofinìo pesante delle ciabatte, dondolando sfiaccolato il corpo massiccio e goffo, arrivò questo uomo finalmente in cima alla scaletta, si fermò davanti a una porta sgangherata e socchiusa, e senza darsi il fastidio di suonare il campanello, andò oltre, sbuffando come un mantice, e si trovò in una piccola e scura anticamera.

— gridò con voce alta e baritonale.

— suonò dalla camera contigua una voce femminile, non però meno burbera.

— domandò il nuovo venuto.

, — rispose l'altro, mentre si andava cavando le caloscie. Poi, sospesa ad un chiodo la vecchia mantellina che aveva indosso, entrò nella camera donde la voce femminile era venuta.

Era una camera bassa, sudicia, dalle pareti tinte di verdognolo, rischiarata a mala pena da due finestrette polverose. Per tutta mobilia, non c'era che un lettuccio di ferro in un cantuccio, una tavola nel mezzo, poche seggiole spaiate e una scansia carica di libri.

Sedeva accanto alla tavola una donna sulla trentina, dai capelli arruffati, vestita di lana nera. Fumava tranquillamente una sigaretta.

Vedendo entrare Ostrodumow, non aprì bocca, contentandosi di porgergli una mano grossolana e rossa. Quegli, anche in silenzio, la strinse. Poi, lasciatosi cadere sopra una seggiola, cavò di tasca un mezzo sigaro, e lo accese al fuoco che Masciùrina gli offriva.

Nè una parola, nè uno sguardo. L'uno e l'altra si dettero a spingere nugoli di fumo azzurriccio nell'aria grigia e già abbastanza affumicata della camera.

Benchè al viso non si somigliassero, aveano i due fumatori non so che di comune. Figure ruvide e sciamannate; grosse labbra, grossi denti, grossi nasi: Ostrodumow, per giunta, era butterato: l'una e l'altro però portavano una loro impronta di onestà, di laboriosità, di proposito.

— domandò finalmente Ostrodumow.

Ostrodumow sputò in là prima di riattaccare il dialogo.

Masciùrina cavò un'altra sigaretta e l'accese al mozzicone della prima.

— disse poi.

— ripetette Ostrodumow in tono di rimprovero. —

— domandò Masciùrina dopo un momento di silenzio.

Ostrodumow accennò di sì col capo.

Masciùrina si tolse la sigaretta dalle labbra.

Masciùrina scrollò i folti capelli, che le cadevano in cerfugli disordinati sulla fronte e sulle ciglia, raccolti in groppo dietro la nuca.

— brontolò. —

Masciùrina stette alquanto pensosa.

, — disse poi a mezza voce, quasi parlando a sè stessa.

— notò Ostrodumow.

— domandò di botto Masciùrina.

— borbottò Ostrodumow; —

Si rifece il silenzio. I globi azzurrognoli del fumo seguitarono a sollevarsi in nube su quelle due teste capellute. Suonò nell'anticamera un calpestìo.

— esclamò Masciùrina.

L'uscio fu spinto con precauzione, e una testa nera si sporse dalla semiapertura.

Non era però quella di Nejdanow.

Era invece una testa piccina, nera, irsuta. Sotto una fronte rugosa e due folte sopracciglia luccicavano due occhietti bigi e vivacissimi. Un naso rincagnato, quasi impertinente, aggiungeva espressione alla bocca rosea e beffarda. Quella testa si volse curiosa in qua e in là, sorrise, mise in mostra due file di dentini bianchissimi, ed entrò nella camera insieme col suo busto scriato, con due braccini da fantoccio e con due gambette un po' torte.

Una specie di disprezzo pietoso si dipinse in viso a Masciùrina e Ostrodumow. parve che esclamassero internamente.

Nè una parola, nè un gesto. Se non che, la singolare accoglienza non turbò niente affatto il nuovo arrivato, anzi, a vedere, gli procurò una certa soddisfazione.

— diss'egli con voce stridula. —

— venne su in tono serio Ostrodumow.

L'omiciattolo dalle gambe torte si volse a Masciùrina, che se ne stava accigliata e tutta assorta a fumare la sua sigaretta.

Masciùrina scrollò le spalle.

— esclamò Paclin stringendo le sopracciglia e allargando le narici. —

Paclin ebbe un risolino nervoso e parve masticare un boccone acre.

Stendeva, così dicendo, la mano. Masciùrina lo guardò di sbieco, ma non ebbe coraggio di opporre una ripulsa.

— disse poi, sempre di mala grazia, —

— Ed io, Pimen, — soggiunse Ostrodumow con la sua voce da baritono.

— interruppe Ostrodumow, —

Paclin fece una giravolta sui talloni.

— esclamò. —

Ostrodumow bofonchiò qualche cosa fra i denti, e Paclin, crollando il capo, ripetette, senza ombra di sorriso questa volta:

Ostrodumow alzò gli occhi. Infatti, quando non atteggiava le labbra al sorriso, quando taceva, Paclin assumeva un'espressione triste, quasi spaurita. Gli bastava però aprir la bocca, perchè il viso gli diventasse comico e perfino maligno.... Ostrodumow non disse nulla.

Paclin si volse di nuovo a Masciùrina.

— ribattè Masciùrina, che testè avea passati gli esami di levatrice.

Un anno e mezzo avanti, abbandonata la civile e non agiata sua famiglia nella Russia meridionale, Masciùrina se n'era venuta a Pietroburgo con soli sei rubli d'argento in saccoccia. Ammessa ad una scuola di ostetricia ne avea seguiti i corsi, ed era riuscita alla fine a guadagnarsi l'ambito diploma. Era ragazza, ed anche molto pudica. Niente di strano! dirà forse qualche scettico, ricordando quel che s'è detto della figura di lei poco avvenente. Strano invece e anche raro! ci permettiamo di dir noi.

Alla pungente risposta Paclin diè in una risata.

— esclamò. —

Non senza un perchè mutava discorso. Per quanto facesse, non si dava pace di essere così minuscolo e così brutto. Tanto più la cosa gli coceva, in quanto che nudriva per le donne in genere una passione furiosa. Che cosa non avrebbe sacrificato per dar loro nel genio! La coscienza del miserevole aspetto molto più lo mortificava che non la bassa estrazione e la insignificante posizione sociale. Il padre, semplice borghese, s'era tirato su con tutte le male arti fino al grado di consiglier titolare, brigando, ingarbugliandosi in liti, maneggiandosi da affarista. A furia di amministrare per conto altrui case e poderi, era riuscito per conto proprio a mettere insieme una piccola sostanza; se non che, datosi al bere, se l'avea tutta ingollata. Il giovane Paclin, conosciuto anche sotto il nomignolo derisorio di Sansone, era stato educato in una scuola di commercio, dove aveva imparato il tedesco a perfezione. Dopo varie vicende più che fortunose, s'era acconciato finalmente in una casa privata di affari con 1500 rubli di onorario annuo. Questa somma gli serviva, alla meno peggio, al sostentamento proprio, di una zia inferma e della sorella gobba.

Poco meno che trentenne, avea fatto intima conoscenza con molti e molti studenti, giovanotti focosi, cui dava nel genio quella sua cinica improntitudine, quella sicurezza di sarcasmo, quella coltura superficiale e senza pedanteria. Tratto tratto però gli toccava d'ingoiar qualche pillola un po' ostica. Una volta, per un motivo o per l'altro, era arrivato in ritardo ad una riunione politica. A prima entrata, prese a profondersi in iscuse.... insinuò qualcuno dei convenuti; e tutti a sgangherarsi dalle risa. Paclin, facendosi animo, si unì al coro giocondo, benchè il cuore gli dolesse dentro pensò con dispetto.

Avea conosciuto Nejdanow in una osteria greca, dove andava a desinare, e dove a momenti non si peritava di esprimere opinioni molto libere e taglienti. Asseriva che le inclinazioni democratiche le doveva soprattutto alla detestabile cucina greca, che gli rovinava e gl'irritava il fegato.

— ripetette Paclin. —

Masciùrina aggrottò la fronte.

Poco mancò che Paclin non ribattesse: — — Si contenne però e disse forte:

— venne su Ostrodumow. —

Ostrodumow tossì in tono equivoco.

— pensò.

— esclamò ad un tratto Masciùrina.

Negli occhi piccini e non belli, fissi all'uscio dell'anticamera, si accese un momento come una scintilla di tenerezza, quasi riflesso fuggevole d'un bagliore dell'anima....

La porta si aprì, e questa volta l'aspettazione non fu delusa.

Col berretto in capo, con un fascio di libri sotto il braccio, entrò un giovane sui ventitrè anni, Nejdanow in persona.

II.

Alla vista dei congregati in camera sua, si fermò sulla soglia, girò gli occhi intorno, gettò libri e berretto, e senza aprir bocca si accostò al letto e si pose a sedere sulla sponda.

Il bel suo viso pallido, che pareva ancor più pallido pel color fosco dei folti capelli rossigni, esprimeva il malumore e lo sconforto.

Masciùrina si volse un po' in là, mordendosi le labbra. Ostrodumow borbottò:

Paclin fu il primo ad avvicinarsi a Nejdanow.

— rispose irritato Nejdanow. —

Paclin sogghignò.

— osservò Ostrodumow, —

notò Masciùrina, seguitando a guardar di lato.

— domandò Nejdanow, voltandosi di botto verso di lei.

Masciùrina strinse le labbra.

Nejdanow si volse a Ostrodumow; ma questi si contentò di tossire borbottando a modo suo che non c'era furia, e che ogni cosa dovea venire a suo tempo.

— tornò in mezzo Paclin; —

Nejdanow balzò dal letto, come spinto in su da una molla.

— gridò con voce stridente. — — soggiunse abbassando la voce; —

Ostrodumow e Masciùrina alzarono insieme la testa.

— disse Paclin, —

— interruppe Nejdanow infastidito, e corrugando la fronte come per uno spasimo.

— tentò di rispondere l'omiciattolo, —

— arzigogolava Nejdanow, senza dar retta all'importuno. —

Ostrodumow e Masciùrina si scambiarono un'occhiata.

— intonò quegli con la sua voce baritonale, dando a veder chiaramente di voler troncar netto alle chiacchiere inutili, —

Nejdanow trasalì leggermente e abbassò la testa.

— domandò alla fine.

E con un moto delle ciglia accennava a Masciùrina.

Nejdanow si scostò dal letto e andò verso la finestra.

Nejdanow stava muto.

— bisbigliò finalmente, battendo con le dita il tamburo sui vetri della finestra; —

— esclamò Paclin. —

— brontolò Ostrodumow.

— protestò di mala grazia Masciùrina.

— proseguì Paclin, —

— insinuò, sempre acre, Masciùrina.

— riprese Paclin con più energia e senza raccogliere il guanto, —

Nejdanow si voltò frettoloso.

Ostrodumow, alla bella prima, non si mosse. Poi si guardò intorno, si piegò con tutto il corpo e, rimboccatisi i calzoni, tirò fuori dal gambale d'uno stivale un foglio grigiastro accuratamente piegato.

Prima di porgerlo a Nejdanow, non si sa perchè, vi soffiò sopra. Nejdanow prese il foglio, lo aprì, lo percorse attentamente con gli occhi e lo passò a Masciùrina.

Costei si alzò da sedere, lesse e rese il foglio a Nejdanow, benchè Paclin stendesse la mano.

Con una scrollata di spalle, che potea significare molte cose, Nejdanow diè la misteriosa lettera a Paclin, il quale, lettala a sua volta, strinse le labbra e solennemente la depose sulla tavola.

Allora accese un grosso fiammifero, che sparse intorno un gran puzzo di pece, e preso il foglio lo sollevò ben alto in modo che tutti vedessero e lo abbruciò fino all'ultimo, senza riguardo alle dita. Poi, gettò la cenere nel caminetto.

Nessuno aprì bocca, nessuno si mosse durante questa funzione. Tutti gli occhi erano inchiodati a terra. Ostrodumow, contegnoso e grave, Nejdanow stizzito, Paclin contegnoso e rigido, Masciùrina solenne come una sacerdotessa.

Passarono così due minuti.... Poi, tutti, dal più al meno, si sentirono impacciati. Paclin fu il primo a rompere l'increscioso silenzio.

— esclamò di botto. —

Nejdanow prese fuoco ad un tratto. La stizza che gli bolliva dentro non aspettava che un qualunque pretesto per traboccare.

— osservò Paclin, —

Nejdanow ebbe un sorriso sforzato.

Paclin battè palma a palma.

Nejdanow fece con la testa e le spalle un moto d'impazienza.

— notò severa Masciùrina. —

— tuonò a sua volta Ostrodumow. —

Paclin, punto sul vivo, fece atto di rimbeccare; ma Nejdanow lo trattenne.

— esclamò, —

Successe un silenzio.

— disse alla fine Paclin, —

Il paragone, benchè esatto e ingegnoso, non fece sorridere nessuno. Il solo Ostrodumow osservò che dei giovani capaci di pigliar passione per l'estetica non metteva conto darsi pena, quand'anche Scoropichin li facesse ammattire.

— esclamò Paclin, accalorandosi in ragione inversa dell'interesse destato in altri; —

Paclin tacque.... e nessuno disse verbo. Tutti pareano colpiti da mutismo, o anche da un senso di pietoso disprezzo per l'oratore. Il solo Ostrodumow disse poco dopo:

— pensò Paclin. —

Fece atto di andar verso Nejdanow e di prendere il cappello, quando ad un tratto, senza alcun rumore o picchio preventivo, suonò nell'anticamera una voce forte e squillante: una voce, per dir così, nobile, bene educata, poco meno che fragrante.

Tutti si guardarono stupiti.

— rispose alla fine lo stesso Nejdanow.

La porta si aprì con discreta lentezza, e un signore entrò, cavandosi il lucido cappello dalla testa rotonda e ben rasa. Era un uomo sui quaranta, alto della persona, diritto, dignitoso, con indosso un elegante soprabito dal bavero di castoro, benchè già si fosse sulla fine di aprile.

Nejdanow, Paclin, la stessa Masciùrina, lo stesso Ostrodumow furono colpiti da quella sicurezza di portamento, da quella tranquilla affabilità di saluto.

Tutti, senza volerlo, sorsero in piedi.

III.

Il signore elegante andò alla volta di Nejdanow e gli parlò amabilmente sorridendo.

Si arrestò, aspettando. Nejdanow fece un cenno del capo e arrossì.

S'inchinò, così dicendo a Masciùrina e accennò con la mano inguantata a Paclin e Ostrodumow.

— rispose un po' impacciato Nejdanow. —

Il visitatore amabilmente s'inchinò e, presa per la spalliera una seggiola, la trasse a sè, senza però mettersi a sedere, visto che tutti gli altri erano in piedi. Girò intorno soltanto gli occhi vivaci, benchè chiusi a mezzo.

— disse Masciùrina di botto, —

— soggiunse Ostrodumow, —

Passando davanti al visitatore e quasi per fargli dispetto, Masciùrina prese la mano di Nejdanow, la strinse con forza, e andò via senza salutar nessuno. Ostrodumow le tenne dietro, stropicciando senza una ragione al mondo i piedi per terra e borbottando fra i denti una frase incomprensibile, all'indirizzo dell'importuno bavero di castoro. Questi li seguì con uno sguardo amabile e leggermente curioso. Si volse poi a Paclin, come se aspettasse di vedergli imitar l'esempio di quei due. Ma Paclin, che fin dal primo apparire dello sconosciuto aveva atteggiato le labbra a un suo speciale sorrisetto, si era tirato da parte e rincantucciato, senza dar segno di volersi muovere. Allora il visitatore sedette, e Nejdanow fece lo stesso.

— incominciò con orgogliosa modestia.

Importa però, prima di andar oltre, narrare in qual modo Nejdanow lo avesse conosciuto a teatro.

Si dava la famosa commedia di Ostrovski: Ciascuno al posto suonota 1

Prima di desinare, Nejdanow era andato al botteghino e vi avea trovato gran gente. Volea prendere un biglietto di platea; ma nel punto stesso che si accostava allo sportello, un ufficiale che gli stava dietro, sporgendogli il braccio di sopra al capo e agitando un biglietto di tre rubli, gridò al bigliettinaio: con voce aspra gli si volse Nejdanow, , e così dicendo buttò nello sportellino una carta di tre rubli, che costituiva tutto quanto il suo capitale disponibile. Il bigliettinaio gli diè il domandato biglietto, e la sera stessa Nejdanow fece la sua comparsa nella fila aristocratica del teatro Alessandro.

Era male in arnese, senza guanti, con gli stivali non lustrati.... Sentivasi a disagio, e di ciò stesso s'indispettiva. A destra gli stava seduto un generale tutto luccicante di decorazioni; a sinistra, quel medesimo signore elegante, il cui apparire, due giorni dopo, avea tanto disturbato Ostrodumow e Masciùrina.

Il generale sogguardava tratto tratto a Nejdanow, come a una cosa sconveniente, inattesa e perfino offensiva. L'altro invece gli volgeva delle occhiate, oblique sì, ma non del tutto nemiche.

Tutti coloro che circondavano Nejdanow sembravano, prima di tutto, altrettante personalità. In secondo luogo, conoscevansi benissimo l'un l'altro, si scambiavano frasi, parole mozze, esclamazioni, saluti, di sopra alla testa dell'intruso.... E questi sedeva immobile e impacciato nella sua ampia e soffice poltrona, che gli pareva, a dir poco, uno strumento di tortura. La vergogna, l'ira, il dispetto lo tormentavano. Alla commedia non badava; agli attori meno che mai.... Quand'ecco — o maraviglia! — tra un atto e l'altro, il suo vicino di sinistra, non già il generale decorato, ma l'altro che di nessun ordine era insignito gli volse la parola affabilmente, con una sua insinuante e carezzevole degnazione. Parlò della commedia di Ostrowski, esprimendo il desiderio di saper da Nejdanow, come da uno dei rappresentanti della giovane generazione, che cosa egli ne pensasse.

Stupito, poco meno che spaventato, Nejdanow rispose a bella prima con parole tronche e scucite.... Gli batteva forte il cuore. Ma poi si arrabbiò con se stesso. Perchè agitarsi?... non era forse un uomo come tutti gli altri?... E senza più, prese ad esprimere le sue opinioni, franco, disinvolto, e a poco a poco con tanto calore e a voce così alta da incomodare evidentemente il suo vicino dalle decorazioni.

Nejdanow era un ardente ammiratore di Ostrowski; ma con tutta la venerazione che dimostrava all'ingegno del gran commediografo, non poteva approvare in quella commedia Ciascuno al posto suo la palese intenzione di screditare la civiltà nel personaggio ridicolo di Vichorew, l'ufficiale dimissionario di cavalleria.

L'affabile vicino stette ad ascoltarlo con grande attenzione, con interesse; e nell'intervallo seguente, riappiccò la conversazione, non più a proposito della commedia, ma così, in genere, toccando vari argomenti di ordine sociale, scientifico e perfino politico. Gli andava a genio il giovane ed eloquente interlocutore.

Nejdanow, come già poco innanzi, non solo non si riguardò, ma, come suol dirsi rincarò la dose. pensava. Il generale, oramai più che disturbato, lo sbirciava irritato e sospettoso.

Finito lo spettacolo, il signore elegante si accomiatò gentilmente da Nejdanow, senza però domandargli del nome e senza dirgli il proprio. Fermatosi sullo scalone, per aspettar la carrozza, fu avvicinato dall'aiutante di campo, principe G., suo intrinseco amico.

— gli disse il principe sorridendo sotto i baffi profumati. —

Qui il principe gli si chinò all'orecchio e bisbigliò in francese:

Il principe si allontanò in fretta, e il giorno appresso il signore elegante lesse nel giornale l'annunzio fatto inserire da Nejdanow, e si presentò a casa di lui....

— incominciò lo sconosciuto sedendo e volgendo al suo interlocutore uno sguardo insinuante. — — soggiunse Sipiaghin con un leggero sorriso, —

Durante tutto questo discorso, Nejdanow stette a guardarlo fiso, osservando la piccola testa un po' piegata indietro, la fronte stretta e bassa ma intelligente, il delicato naso di tipo latino, gli occhi piacenti, le labbra ben disegnate, dalle quali scorreva un così dolce eloquio, le lunghe basette all'inglese....

— andava pensando. —

S'era così sprofondato in questi suoi dubbi, che non pensò ad aprir bocca, nemmeno quando Sipiaghin, terminato il discorso, tacque aspettando una risposta.

Sipiaghin gettò un'occhiata nel cantuccio, dove Paclin s'era ficcato, anch'egli tutt'occhi e tutt'orecchi.

Alzò le ciglia, quasi accettando in muta rassegnazione la stranezza del posto e delle condizioni in cui spontaneamente erasi cacciato.... Poi, alzando anche la voce, ripetette la prima domanda.

Nejdanow si riscosse.

— pronunciò frettoloso e quasi impacciato, —

— interruppe, sorridendo Sipiaghin. —

Sipiaghin parlava senza il minimo stento: la frase leccata, limpida, gli scorreva dalle labbra come onda di miele.

— proseguì. —

— rispose Nejdanow, —

Sipiaghin agitò leggermente in aria la mano, come se scacciasse una mosca.

Nejdanow non seppe, lì per lì, che cosa rispondere.

— disse Sipiaghin, chinandosi col busto e sfiorando amabilmente con la punta delle dita il ginocchio del suo interlocutore; —

Nejdanow tornò ad arrossire.

— interruppe Sipiaghin —

Si alzò da sedere, lieto e soddisfatto, come se avesse ricevuto un regalo. Ogni suo movimento spirava una gioconda famigliarità, un buon umore scherzoso.

— soggiunse in tono disinvolto. —

Sipiaghin ebbe una sua risatina furbesca e nasale.

Dalla tasca del soprabito cavò un taccuino di argento niellato e vi prese con due dita un biglietto di visita.

(e così dicendo lo prendeva per mano, abbassando la voce e piegando un po' il capo a destra),

Nejdanow non sapea davvero che cosa rispondere, e guardava sempre incerto, confuso, a quel viso affabile, sorridente, e nel tempo stesso estraneo, che gli si accostava con tanta benevolenza e con così affettuosa premura.

— bisbigliò Sipiaghin.

— rispose finalmente Nejdanow, —

Gli lasciò la mano che avea stretta, e fece atto di uscire.

Nejdanow arrossì, molto più di prima, e aprì la bocca.... Ma nulla disse. Sipiaghin tornò a stringergli la mano, in silenzio questa volta, e inchinatosi prima a lui, poi a Paclin, uscì, mettendosi il cappello e sorridendo soddisfatto. Era cosciente, si vedeva, della profonda impressione che la sua visita avea dovuto produrre.

IV.

Non appena avea Sipiaghin varcato la soglia, Paclin balzò dal suo cantuccio e prese a congratularsi con Nejdanow.

— gridava ridendo e battendo dei piedi in terra. —

— rispose accigliato Nejdanow.

Paclin allargò le braccia in atto disperato.

— interruppe Nejdanow, —

— a sua volta gli diè Paclin sulla voce. —

Fuggire i nemici, ignorarne le abitudini e le azioni, è balordaggine! Ba...lor...dag...gi...ne! Quando mi salta il grillo di andar nel bosco a caccia del lupo, bisogna bene che ne conosca il covo.... In secondo luogo, tu stesso hai parlato or ora di rapporti col popolo... Eh, anima mia!... nel 1862 anche i Polacchi andarono al bosco; e noi oggi ci cacciamo nel medesimo bosco, cioè a dire in mezzo al popolo, il quale è per noi non meno buio e silenzioso d'una foresta vergine!

— Gl'Indiani si gettano sotto il carro di Giagrenat, — rispose Paclin con voce cupa, —

— gridò stizzito Nejdanow. —

Paclin chinò il capo sulla spalla sinistra e aprì le braccia.

— lo ammonì Nejdanow. —

Paclin fece boccacce e accennò alle sue gambette da storpio.

— ribattè Nejdanow, — — soggiunse mentalmente.

— soggiunse fiutando in aria. —

— disse Nejdanow con voce sorda, tornando ad appoggiarsi alla finestra. —

Andò verso la porta, si fermò in tronco e tornò indietro.

— disse in tono insinuante; —

Nejdanow non rispose verbo e non si scrollò.

— esclamò allegramente Paclin, e disparve.

Nejdanow restò solo....

Seguitava a guardare attraverso i vetri della finestra all'angusto e buio cortile, dove non arrivavano nemmeno i raggi del sole estivo, e lo stesso buio gli si rifletteva in volto.

Nejdanow era figlio, come già sappiamo, del principe G.***, un ricco sfondolato, aiutante generale, e della governante delle sue figlie, avvenente istitutrice, morta il giorno stesso del parto. Avea ricevuto la prima educazione nel pensionato d'uno svizzero, pedagogo rigido e intelligente, e a suo tempo era entrato all'Università. Avrebbe voluto seguire i corsi di legge e avviarsi per la carriera giuridica; ma il babbo generale, che non potea soffrire i nichilisti (in quella facoltà ce n'eran di molti), lo incamminò invece per l'estetica, come lo stesso Nejdanow eprimevasi con sarcasmo, cioè per la facoltà di filosofia della storia. Il padre non lo vedeva che tre o quattro volte all'anno; mostravasi però sollecito della sorte di lui, e, venuto a morte, gli legò in memoria della povera Anastasia (così chiamavasi la madre), un capitale di seimila rubli, i cui interessi gli venivan passati, a titolo di pensione, dai principi G.***, fratelli suoi naturali. Non aveva torto Paclin, dandogli dell'aristocratico. Tutto in lui tradiva la nobiltà di razza: piccolezza delle orecchie, delle mani, dei piedi; lineamenti delicati, carnagione quasi muliebre, capelli folti e morbidi, voce un po' roca ma piacente. Era terribilmente nervoso, impressionabile, capriccioso anche e pieno d'amor proprio. La falsa posizione, nella quale fin dai primi anni era stato messo, lo avea reso puntiglioso e irritabile; ma la connaturata nobiltà dell'animo gl'impediva di diventar sospettoso e diffidente.

La stessa falsa posizione spiegava a sufficienza le contraddizioni singolari della sua natura. Amante della nettezza fino alla meticolosità, schizzinoso all'estremo, faceva di tutto per sembrar burbero e cinico a parole. Idealista per indole, ardente e casto, audace e timido nel tempo stesso, vergognavasi, come di vizi imperdonabili, di cotesta timidezza e di cotesta castità, facendosi un dovere di mettere in ridicolo i così detti ideali. Avea gentilezza di cuore e nondimeno fuggiva la gente; si ombrava per un nonnulla; dimenticava le offese.

Non sapea perdonare al padre di averlo messo per la carriera dell'estetica. Apertamente, al cospetto di tutti, occupavasi solo di quistioni politiche e sociali. Predicava all'occasione i più radicali principii, per convincimento acquisito non già per amor di rettorica.... E in segreto intanto beavasi dell'arte, della poesia, della bellezza in tutte le sue manifestazioni.... Arrivava perfino a scriver versi.... Nascondeva con la massima gelosia il quaderno in cui li scriveva; e di tutti gli amici il solo Paclin, per finezza di fiuto, ne avea subodorato l'esistenza. Niente lo offendeva, niente lo feriva tanto, quanto la minima allusione a cotesta sua imperdonabile debolezza del versificare.

Grazie al severo pedagogo svizzero, possedeva una conoscenza abbastanza estesa di fatti, e non rifuggiva dalla fatica. Lavorava anzi volentieri, benchè, a dire il vero, un po' febbrilmente e senza nesso.

Gli amici gli volean bene, attirati com'erano dall'intima rettitudine di lui, dalla bontà costante, dal carattere leale.

Se non che, non era nato Nejdanow sotto buona stella nè la vita gli sorrideva: tutt'altro. Egli stesso profondamente lo sentiva; e a malgrado della devozione degli amici, si vedeva intorno lo squallore della solitudine.

Seguitava a starsene davanti alla finestra, pensando con malinconico fastidio al viaggio imminente, a quel nuovo e improvviso mutamento della sorte. Non si rammaricava già di lasciar Pietroburgo; non vi lasciava niente che gli stesse proprio a cuore; e poi ben sapeva di dovervi tornare in autunno. E nondimeno una vaga trepidazione l'opprimeva, un involontario sconforto gli fiaccava ogni energia.

— andava pensando. —

Si rimproverava quasi di aver così presto accettato l'offerta e la conseguente responsabilità. Il rimprovero nondimeno era ingiusto. Nejdanow era fornito di cognizioni sufficienti e, a dispetto del mutabile umore, i giovanotti andavano a lui senza esservi sforzati ed egli stesso prendeva agevolmente a volerli bene.

La tristezza che ora lo invadeva era quel senso inerente ad ogni mutamento di posto e di abitudini, senso cui van soggetti tutti i malinconici, tutte le persone meditabonde. I caratteri vivaci, sanguigni lo ignorano; si rallegrano anzi a qualunque interruzione di vita quotidiana, alla più piccola novità nel mondo che sta loro intorno.

A poco a poco, tanto era sprofondato nei suoi pensieri, Nejdanow incominciò, senza pur saperlo, a tradurli in parole. I sentimenti varii e cozzanti trovavano, spontaneamente, una forma sonante, poco meno che metrica.

— esclamò con rabbia, —

Si riscosse, lasciò la finestra, vide il biglietto di dieci rubli lasciato da Paclin sulla tavola e, cacciatoselo in tasca, prese a camminar su e giù per la camera.

— andava ragionando fra sè; —

Mentre così andava calcolando, gli si ridestarono dentro le vibrazioni poetiche di poco innanzi. Si fermò, stette pensoso un poco, e volti gli occhi in là, cercò quasi a tentoni, ed aprì un cassetto della tavola.

Vi cacciò proprio in fondo le mani, e ne trasse fuori un quaderno tutto scribacchiato.

Cadde a sedere e, sempre con gli occhi rivolti in là, prese la penna e, brontolando sotto il naso, scotendo tratto tratto i capelli, cancellando, rifacendo, si diè a buttar giù un verso dopo l'altro....

La porta dell'anticamera si aprì a mezzo, e la testa di Masciùrina apparve. Nejdanow non se n'accorse e seguitò il suo lavoro.

Masciùrina stette immota a guardarlo. Poi, crollando di qua e di là il capo, fece per allontanarsi.

Ma Nejdanow alzò ad un tratto la testa, si volse ed esclamò con dispetto:

Il quaderno, nel punto stesso, spariva in fondo al cassetto.

Allora Masciùrina con passo sicuro e virile venne avanti.

— disse staccando bene le parole, —

— rispose Nejdanow, aggrottando le sopracciglia. —

Masciùrina stette muta un poco, e poi stese la mano a Nejdanow.

Nejdanow le strinse le dita fredde e arrossite.

Il viso di Masciùrina s'illuminò di un lieto sorriso.

Masciùrina trasse un sospiro.

Masciùrina si chiuse di botto in un contegno riservato.

E di nuovo strettagli la mano, si allontanò.

— pensò Nejdanow, —

La mattina del giorno appresso, Nejdanow si presentò a casa del signor Sipiaghin, e fu ricevuto in uno splendido gabinetto, ornato di mobili di stile severo, quali si convenivano alla dignità di un gentiluomo, di un liberale e di un personaggio ufficiale.

Sedeva questi ad una enorme scrivania, sulla quale in bell'ordine eran disposte molto carte che non servivano a niente e a nessuno, non che un gigantesco coltello di avorio, che non avea mai tagliato o sfogliato niente.

Per tutta un'ora, Nejdanow prestò ascolto all'elegante libero pensatore, si deliziò del suo eloquio melato, tutto saggezza e condiscendenza, e ricevette alla fine i desiderati cento rubli di anticipazione.

Dieci giorni dopo, quel medesimo Nejdanow, sdraiato sul divano di velluto di un compartimento riservato, a fianco del nobile personaggio non che liberale gentiluomo, correva alla volta di Mosca sulle malferme rotaie della ferrovia Niccolò.

V.

Nel salotto d'una grande casa con frontone greco e relativo colonnato, costruita nel 1825 dal famoso agronomo e dentista nota 2 Sipiaghin, padre del nostro personaggio, la moglie di costui, Valentina Michailowna, signora molto avvenente, aspettava da un momento all'altro l'arrivo del marito, annunziatole da un telegramma.

L'addobbatura del salotto avea l'impronta del gusto più recente e più delicato. Tutto spirava grazia, agiatezza, ospitalità cortese; tutto, dai vaghi rabeschi dei parati e delle tende di cretonne alle forme svariate dei gingilli di maiolica, di bronzo, di cristallo, sparsi sulle tavole e sulle mensolette; tutto armonicamente, soavemente fondevasi nei raggi limpidi di un giorno di maggio, che entravano liberi e giocondi per le alte finestre spalancate. L'aria del salotto, impregnata di fragranza di mughetti (grossi mazzi di questi incantevoli fiori primaverili biancheggiavano qua e là), agitavasi a momenti al soffio d'una brezza che aleggiava pianamente fra le piante del rigoglioso giardino.

Che quadro incantevole! E la stessa padrona di casa, Valentina Michailowna Sipiaghin, ne completava l'effetto, vi dava significato e movimento.

Era una donna alta della persona, sulla trentina, dai capelli fulvi, dall'incarnato fresco e bruno, che ricordava la Madonna della cappella Sistina, dagli occhi profondi, vellutati, meravigliosi.

Le labbra aveva un po' larghe e pallide, le spalle un poco sollevate, le mani un po' grandi.... Ma, a malgrado di ciò, chiunque avesse visto con che grazia disinvolta ella aggiravasi pel salotto, ora chinando sui fiori la svelta persona e aspirandone con un sorriso il profumo, ora rimettendo a posto una porcellana giapponese, ora con rapido atto aggiustandosi davanti allo specchio i lucidi capelli e appena appena stringendo i bellissimi occhi, chiunque, diciamo, avrebbe esclamato dentro di sè o anche ad alta voce, di non aver mai prima incontrato una creatura più seducente!

Un bel ragazzo sui nove anni, ricciuto, in costume scozzese, con le gambette nude, pettinato e lisciato con la massima cura, arrivò di corsa nel salotto e si arrestò in tronco alla vista di Valentina Sipiaghin.

— domandò ella.

Avea la voce, non meno degli occhi, carezzevole e vellutata.

— rispose impacciato il ragazzo, —

Valentina Michailowna prese pel mento il figliuoletto e gli fece alzare la testolina lucida e ricciuta.

— balbettò il ragazzo.

Valentina Michailowna diè in una sua risatina tutta dolcezza.

Il ragazzo baciò in fretta la mano della madre, scintillante di anelli, e scappò via di corsa.

Valentina Michailowna gli tenne dietro con gli occhi, trasse un sospiro, e si avvicinò ad una gabbia dorata, ai ferri della quale col becco e con le zampe s'arrampicava un piccolo pappagallo verde. Minacciatolo scherzosamente con la punta del dito, Valentina si lasciò andare sopra un divanetto basso, e preso da un tavolino intarsiato l'ultimo numero della Revue des Deux Mondes, si diè a voltarne le pagine.

Un rispettoso colpo di tosse le fece alzar gli occhi.

Sulla soglia stava ritto un cameriere di bell'aspetto, in livrea e cravatta bianca.

— domandò Valentina Michailowna sempre con la stessa soavità di voce.

Valentina Michailowna gettò sul tavolino il fascicolo della Revue des Deux Mondes, e appoggiatasi alla spalliera del divanetto, alzò gli occhi al soffitto e divenne pensosa, il che, per dir la verità, le stava molto bene.

Simone Petrovic Colomeizew , giovane di trentadue anni, entrò nel salotto con andatura languida e disinvolta, sorridendo amabilmente, facendo un grazioso inchino obliquo e subito con mirabile elasticità raddrizzandosi. Parlava con voce tra melata e nasale. Con profondo rispetto prese la mano della padrona di casa, e con venerazione la baciò....

Da tutto questo era facile indovinare che il nuovo venuto non era un provinciale, nè un qualunque vicino di campagna, ma un vero e proprio rappresentante del gran mondo della capitale.

Vestiva correttissimamente all'inglese. La punta colorata del bianco fazzoletto di batista sbucava in triangolo dalla tasca ben liscia del farsetto screziato. Da un largo nastro di seta nera dondolava un monocolo. Il color cinerino dei guanti svedesi rispondeva alla tinta smorta dei calzoni a scacchi.

Coi capelli tagliati a spazzola, raso con la massima cura, il viso del signor Colomeizew avea non so che di muliebre. Gli occhi, piccolini e poco discosti l'uno dall'altro, il naso sottile e leggermente aquilino, le labbra carnose e colorite.

Padrone di sè, come uomo di raffinata educazione, affabile in ogni suo atto, Colomeizew era però anche soggetto a divenir burbero e cattivo, per poco che si pungessero i suoi principii conservatori, patriottici e religiosi. Oh! allora si trasformava ed era inesorabile! La languidezza degli occhi brillava di un fuoco maligno; le labbra graziose articolavano sgraziate parole e facevano un appello disperato all'autorità!

La famiglia di Simone Colomeizew discendeva da semplici agricoltori. Ma il tempo, si suol dire, è un gran galantuomo e non sempre ha buona memoria. Fatto sta che il nostro Simone si teneva in buona fede per aristocratico puro sangue; tratto tratto accennava anche a una derivazione diretta dai baroni von Hallenmeier, uno dei quali era stato feld-maresciallo austriaco nella guerra dei Trent'anni.

Simone Colomeizew, addetto al ministero della Corte imperiale, aveva il grado di gentiluomo di camera. Il patriottismo gli aveva impedito di prendere la carriera diplomatica, alla quale tutto parea che lo chiamasse: educazione, abitudine del mondo, successi con le donne, aspetto piacente.... Mais quitter la Russie — jamais! Aveva una certa sostanza; avea relazioni di conto; godeva fama di uomo capace e devoto all'ordine.... un peu trop féodal dans ses opinions, come esprimevasi il famoso principe B.***, uno degli astri maggiori dei circoli ufficiali di Pietroburgo.

Nel dipartimento, dove la famiglia di Sipiaghin villeggiava, Simone Colomeizew veniva a passare due mesetti di congedo, per dare un occhio all'amministrazione dei poderi, il che voleva dire un po' stringere i freni, un po' terrorizzare, un po' mungere. Senza di che, evidentemente, non era possibile andare avanti.

— disse, dondolandosi con grazia e poi di botto volgendo un'occhiata di fianco, ad imitazione di un personaggio molto in voga.

Valentina Michailowna strinse leggermente le ciglia.

Colomeizew diè un balzo indietro, tanto gli parve ingiusta la domanda della signora Sipiaghin.... Ingiusta ed assurda.

— esclamò, —

— rispose Colomeizew cavando dal taschino del panciotto un massiccio orologio d'oro smaltato, e mostrandolo alla signora Sipiaghin. —

Colomeizew si abbandonò sopra una seggiola, incrociò le gambe e si diè a stirare il suo guanto sinistro.

Colomeizew arricciò il naso.

( Colomeizew agitava in aria la mano sinistra, libera dalla pressione del guanto).... (così dicendo, si soffiò sulla mano).

La signora Valentina si raddrizzò sul divanetto.

Colomeizew rise di soddisfazione: la sbornia e il pochettino gli parevano una bella graziosità.

— proseguì. —

— notò la Sipiaghin.

— esclamò Colomeizew, e si strappò il guanto destro.

La signora Valentina tornò ad aggrottar leggermente le sopracciglia. Le piaceva civettare un tantino con quei suoi occhi meravigliosi.

— disse, —

Colomeizew rise.

Così dicendo, suonò un campanello. Subito comparve un piccolo lacchè vestito da cosacco.

Il cosacchino non ebbe tempo di rispondere.

Alle sue spalle, sotto l'arco della porta, apparve una giovinetta, con indosso una larga casacca di colore oscuro e coi capelli tagliati corti, alla mascolina.

Era Marianna Vichentewna, nipote di Sipiaghin dal lato materno.

VI.

— disse avanzandosi verso la signora Valentina, —

Fatto poi un cenno di saluto a Colomeizew si tirò da parte, e andò a sedere sopra uno sgabelletto vicino alla gabbia del pappagallo, il quale, non appena l'ebbe vista, battè delle ali e sporse il becco verso di lei.

— si dolse la signora Valentina seguendola con gli occhi, —

Marianna guardò di sottecchi a Valentina, e Valentina a Marianna.

Queste due donne non si struggevan d'amore l'una per l'altra.

A confronto della zia, Marianna potea quasi parere bruttina. Viso tondo, naso grosso e aquilino, occhi grigi, ma grandi e vivaci, sopracciglia delicate, labbra sottili. Portava tagliati i rossi e folti capelli, il che le conferiva un aspetto virile. Da tutto il suo essere spirava non so che di energico e di temerario, di ansiosa impazienza, di ardore sentimentale. Avea piccolissimi i piedi e così pure le mani. La personcina svelta, forte, ben fatta, ricordava le statuette fiorentine del secolo XVI. Camminava diritta e leggera.

La condizione di lei in casa dei Sipiaghin era piuttosto incresciosa. Il padre, uomo intraprendente e molto capace, di origine semipolacca, era riuscito a guadagnarsi le spalline di generale: se non che un fulmine a ciel sereno lo aveva incenerito. Colto in flagranza di malversazione, era stato giudicato, privato del grado, cancellato dal libro della nobiltà, mandato in Siberia. Amnistiato in processo di tempo, tornò, ma non gli venne fatto di riafferrar la fortuna e morì nella più squallida miseria. Sua moglie, sorella di Sipiaghin e madre di Marianna, che era unica figlia, non resse al colpo fatale e non molto stette a seguire il disgraziato marito.

Fu allora che lo zio Sipiaghin accolse sotto il proprio tetto l'orfana nipotina.

Ma a costei era insopportabile quella vita d'inferiorità e di soggezione. Aspirava alla liberazione, all'indipendenza, con tutte le energie dell'anima indomita; e tra lei e la zia bolliva una lotta assidua, benchè segreta. La signora Valentina teneva la nipote in conto di atea e nichilista; dal canto suo, Marianna odiava in persona della zia la sua inevitabile tiranna.

Con lo zio serbava un contegno schivo e riservato, come con tutti gli altri: sentimento sdegnoso anzi che timido, poichè ad ogni timidezza il suo carattere era estraneo.

— osservò Colomeizew. —

E così dicendo, cercava di rappresentare quel non so che battendosi del pugno sul petto.

— osservò Marianna, —

La signora Sipiaghin alzò lentamente le ciglia e piegò un po' di lato la testa, come maravigliandosi della scioltezza delle odierne fanciulle nel cacciarsi in mezzo ai discorsi. Colomeizew sorrise con indulgenza.

— rispose, —

L'avrebbe detto in francese, ma non stava più, dopo l'osservazione della padrona di casa.

— venne su la signora Sipiaghin, —

Tutto ciò era detto con lo scopo di pungere Marianna e di metterla in un certo imbarazzo. Ma la giovinetta non si scrollò.

— rispose tranquilla, —

— si volse la signora Sipiaghin a Colomeizew; —

Colomeizew sbozzò un sorrisetto di compiacenza. Bisognava in tutti i modi sostenere la celia spiritosa dell'amabile signora.

— disse poi, —

— lo interruppe la signora Sipiaghin. —

— esclamò frettoloso Colomeizew; —

(E si metteva un dito sulle labbra).

La signora Sipiaghin sorrise.

— esclamò, ridendo forte la signora Valentina; —

Cocò, cocò, cocò, — gridò dalla sua gabbia il pappagallo.

La signora Valentina lo minacciò agitando il fazzoletto.

Marianna si volse alla gabbia e prese a solleticar con l'unghia il collo della bestiuola.

— proseguì la Sipiaghin, —

La signora Sipiaghin volse gli occhi dalla parte di Marianna.

— disse poi, dopo un breve silenzio.

— riprese Colomeizew in tono pensoso, —

La signora Sipiaghin ammiccò, accennando a Marianna.

Colomeizew fece un cipiglio tra comico e serio, come per dire:

Poi, d'improvviso, e senza una necessità al mondo, esclamò:

Marianna, che badava al pappagallo, si voltò.

Quando parlava, Marianna arrossiva a poco a poco, come se il parlare le costasse uno sforzo: effetto, in gran parte, di amor proprio.

— domandò la signora Sipiaghin con un tremito ironico nella voce.

— tornò ad esclamare Colomeizew. —

Ma in quel punto stesso, arrivò correndo Nicoletto, col grido:

E subito dopo, dondolandosi sui larghi piedoni, comparve una signora dai capelli bianchi, in cuffia e scialle color arancio, ed annunziò anch'essa che Boris Sipiaghin era alle viste.

Questa vecchia signora era zia di Sipiaghin, e si chiamava Anna Zacharowna.

Tutti i personaggi raccolti in salotto si alzarono in fretta e corsero nell'anticamera, e di là per la scala verso l'ingresso principale della villa.

Un lungo viale di pini menava dalla strada maestra a cotesto medesimo ingresso; e già vedevasi venir avanti sotto la verde arcata una carrozza con tiro a quattro.

Valentina, precedendo gli altri, sventolava il fazzoletto; Nicoletto gridava dall'allegrezza....

Il cocchiere con polso fermo ed atto magistrale arrestò in tronco i cavalli, il lacchè balzò dalla serpe e per poco non strappò lo sportello della carrozza, ed ecco, con un benevolo sorriso sulle labbra, negli occhi, per tutta la faccia, e fattasi con una lieve scrollatina di spalla cadere la mantellina, Boris Sipiaghin mise piede a terra.

Valentina Michailowna, con graziosa sollecitudine, gli gettò le braccia al collo e tre volte lo baciò. Nicoletto pestava dei piedi in terra e tirava il padre di dietro per la falda del soprabito....

Questi però volle innanzi tutto abbracciare la vecchia Anna Zacharowna, dopo essersi cavato il brutto e sconveniente berretto da viaggio. Salutò poi amabilmente Marianna e Colomeizew, usciti anch'essi a dargli il benvenuto (con Colomeizew scambiò un vigoroso shakehands all'inglese come se scotesse il batacchio d'una campana), e solo allora si volse a dar retta al figlio e, sollevatolo fra le braccia, se lo accostò con grande amorevolezza al viso.

Mentre tutto ciò accadeva, sbucò dalla carrozza Nejdanow, adagio e quasi mortificato. Fermatosi accanto alla ruota sinistra davanti, stette a guardar di sottecchi e senza togliersi il cappello.

Valentina Michailowna, nel momento che abbracciava il marito, sbirciò di sopra la spalla di lui quel nuovo personaggio. Già sapeva, per avviso avutone dal marito stesso, dell'arrivo del precettore.

Tutta la brigata, continuando a scambiar saluti e strette di mano col padrone di casa, mosse su per la scala, ornata in pompa di qua e di là da servi di ambo i sessi.

Nessuno della numerosa famiglia fu ammesso al bacio della mano essendo già da tempo abolite queste asiaticherie. Si limitarono a inchinarsi rispettosamente; ai quali inchini Sipiaghin rispondeva più con le ciglia e col naso che con la testa.

Seguendo gli altri, anche Nejdanow andò su per l'ampia gradinata. Entrato che fu in anticamera, Sipiaghin, che già lo cercava con gli occhi, lo presentò alla moglie, ad Anna Zacharowna, a Marianna. Chiamato a sè Nicoletto, gli disse:

Nicoletto stese timidamente la mano, e spalancò tanto d'occhi in viso allo sconosciuto; ma non trovandovi forse niente di particolare o di simpatico, tornò ad attaccarsi ai panni del genitore.

Nejdanow si sentiva a disagio, proprio come in quella famosa sera del teatro. Indossava un soprabito più che malandato; aveva la faccia e le mani lorde di polvere.

Valentina Michailowna gli disse qualche frase amabile; ma egli non ne afferrò bene le parole e nulla rispose. Notò solo con quanta tenerezza ella guardasse il marito e come gli si stringesse ai fianchi affettuosa. Di Nicoletto non gli andò a genio la chioma ricciuta ed unta. Alla vista di Colomeizew, pensò: Agli altri non badò nè punto nè poco.

Sipiaghin due volte girò intorno la testa, dignitosamente, come per riconoscere e salutare i suoi penati. Poi, con voce sonora e limpida, si volse ad uno dei servi:

Significò nel tempo stesso a Nejdanow, che potea andare a ristorarsi dal viaggio e a darsi una spazzolata. Il pranzo si serviva in tavola alle cinque precise.

Nejdanow s'inchinò e tenne dietro ad Ivan verso la così detta camera verde, che trovavasi al secondo piano.

Tutti gli altri passarono in salotto. Si rinnovarono complimenti e saluti. Comparve anche la vecchia governante semicieca, per fare omaggio al padrone, il quale, sol per riguardo agli anni, le diè a baciar la mano.

Fatte poi le sue scuse al signor Colomeizew, si ritirò in camera, accompagnato dall'amorosa consorte.

VII.

La camera bella e spaziosa, nella quale il domestico condusse Nejdanow, dava con le finestre sul giardino. Eran queste aperte, e una lieve brezza agitando le bianche tende, le faceva arrotondare come vele e sgonfiar di nuovo. Riflessi di luce dorata sfioravano tratto tratto il soffitto; tutta l'aria intorno era piena di una fragranza primaverile, tra umida e frizzante.

Nejdanow cominciò dal mandar via il servo. Cavò dal baule la sua poca roba, si lavò, mutò di vestiti. Il viaggio lo avea spossato. Due giorni di assidua compagnia con un uomo sconosciuto, di conversazione varia, scucita e perfettamente inutile, gli aveano dato una grande irritazione nervosa. Un senso amaro, misto di fastidio e di dispetto, gli scendeva fino al fondo dell'anima: uno scoramento disperato, una rabbia impotente contro la propria pusillanimità.

Si avvicinò alla finestra e prese a guardar nel giardino. Era un giardino di altri tempi, tutto di terra vegetale, come non se ne trovano di simili di qua da Mosca. Posto sul dolce declivio d'un poggio, dividevasi in quattro ben distinti scompartimenti. Sul davanti della casa, per duecento passi, stendevasi il parterre, intersecato da viali diritti e ben battuti, ornato di acacie, di lilla, di aiuole verdeggianti. A sinistra, passando davanti le scuderie, l'orto propriamente detto, abbondante di pomi, pere, susine, lamponi, ribes. Di fronte, formando un perfetto rettangolo, elevavansi i pini del viale principale. Sulla destra, la veduta era limitata dalla strada, chiusa da un doppio filare di pioppi dai riflessi argentei. Di mezzo al folto delle betulle piangenti emergeva il tetto convesso dell'agrumeto.

Tutto quanto il giardino rideva nel primo rigoglio primaverile. Non ancora udivasi l'estivo ronzio degli insetti; le foglie ancor tenere pareano mandare un bisbiglio: qua e là trillavano i fringuelli; due tortorelle tubavano, sempre sul medesimo albero; un cuculo mandava all'aria il suo verso, mutando di posto ogni volta, e di lontano, di là dallo stagno del mulino, giungeva lo stridìo giocondo delle cornacchie, simile al cigolare di molte ruote di carro.

Su tutta questa vita giovane, tranquilla, solitaria, libravansi come ali di uccelli indolenti gruppi di nuvolette bianche e leggiere.

Nejdanow guardava, ascoltava, aspirava l'aria refrigerante.

Insensibilmente, e senza che pur se n'avvedesse, una serenità grande gli s'insinuava nell'anima.

Giù intanto, in una camera da letto, si parlava di lui per l'appunto. Sipiaghin andava narrando alla moglie della conoscenza fatta a teatro, delle cose dettegli dal principe G.***; dei discorsi fatti durante il viaggio.

— ripeteva, —

La signora Valentina ascoltava il marito con un sorrisetto tra amabile e beffardo, come se quegli le andasse facendo la confessione di una sua scappatella.

Compiacevasi anzi in certo modo che il suo seigneur et maítre, un uomo così basato, un personaggio così importante, fosse ancora in grado di fare una ragazzata, come un qualunque birichino di dodici anni. Ritto davanti allo specchio, con una camicia bianca come neve, con brettelle di seta azzurra, Sipiaghin cominciò a ravviarsi i capelli all'inglese, cioè con due spazzole alla volta; e la signora Valentina, montata sopra uno sgabelletto turco, lo informava intanto delle novità domestiche, della carteria che pur troppo andava malino, del cuoco che bisognava mutare, della chiesa cui andava rifatto lo stucco delle pareti, di Marianna, di Colomeizew....

Esisteva tra i due coniugi una fiducia sincera e un pienissimo accordo. Vivevano veramente in amore e consiglio come esprimevansi i nostri vecchi. E quando Sipiaghin, dato l'ultimo colpo alla sua toeletta, domandò cavallerescamente la mano a Valentina, quando ella gliele porse tutte e due, e con tenero orgoglio stette a contemplare come il marito una dopo l'altra le baciasse, il sentimento che dipingevasi nei loro volti era un sentimento di bontà e di rettitudine, benchè da una parte splendesse in occhi degni di Raffaello e dall'altra in due occhietti comuni di personaggio ufficiale.

Alle cinque precise, Nejdanow discese verso la sala da pranzo, chiamatovi non già dallo squillo d'una campana ma dalle vibrazioni lamentose di un gong cinese.

Tutta la brigata era già raccolta. Sipiaghin tornò a salutarlo dall'alto della sua cravatta e gli accennò al posto assegnatogli a tavola tra Anna Zacharowna e Nicoletto.

Anna Zacharowna era una vecchia zitella, sorella del fu padre di Sipiaghin. Spirava da tutta la persona un acuto odore di canfora, come sogliono i vecchi vestiti conservati a lungo, ed aveva un aspetto irrequieto e accasciato nel tempo stesso. Compiva in casa le funzioni di sorvegliatrice o governante di Nicoletto; epperò, al veder Nejdanow collocato tra sè e il ragazzo, non seppe dissimulare un gran malumore sul viso arcigno e rugoso.

Nicoletto, per conto suo, guardava furtivo ed obliquamente al nuovo commensale. Lo svelto ragazzo capì alla bella prima che il signor precettore trovavasi a disagio e impacciato, visto che non alzava gli occhi e non mangiava quasi niente. La cosa gli piacque, avendo temuto fino a pochi momenti prima di aver da fare con un uomo rigido e collerico.

La signora Valentina guardava anch'essa, di tanto in tanto, dalla parte di Nejdanow.

— pensava, —

Tutti, s'intende, dal più al meno, osservavano Nejdanow, studiandosi, per tacita intesa, di risparmiarlo, di lasciarlo tranquillo, almeno nei primi momenti. Di ciò egli era contento e, nel tempo stesso, irritato.

La conversazione era principalmente sostenuta da Sipiaghin e Colomeizew. Si discorreva di amministrazione provinciale, del governatore, delle contribuzioni stradali, dei riscatti, delle conoscenze comuni di Pietroburgo e di Mosca, del recente liceo del signor Catcow, della difficoltà di trovar lavoratori, di multe e permessi di caccia, ed anche di Bismark, della guerra del 1866, e di Napoleone III, che Colomeizew esaltava come un eroe. Il giovane gentiluomo di camera formulava opinioni estremamente retrograde; e a tal segno si accalorò da ricordare — per celia beninteso — il brindisi di un tal signore suo conoscente ad un banchetto onomastico: — aveva esclamato quel bollente proprietario di fondi, —

La signora Valentina aggrottò le sopracciglia, e osservò che la citazione era de très mauvais goût.

Sipiaghin invece espresse delle idee liberalissime. Redarguì Colomeizew con parole cortesi, e perfino scherzose, ma senza dar gran peso all'incidente.

— disse fra le altre cose, — mise fuori nel 1860 e che andò leggendo per tutti i saloni di Pietroburgo. C'era, fra le tante, una frase felicissima a proposito del contadino libero dai ceppi, con in mano la fiaccola incendiaria, squassata trionfalmente al cospetto della patria. Bisognava vederlo e sentirlo!... gonfiava le gote, sbarrava gli occhi, vociava con la sua boccuccia da bambino:

— ribattè Colomeizew in tono cupo, —

A queste parole, Nejdanow, che fino a quel momento non s'era quasi accorto di Marianna, seduta a tavola dalla stessa sua parte, si trovò a scambiar con lei una rapida occhiata, e subito sentì di aver con lei, con quella fanciulla pensosa e concentrata, comunanza di idee e poco meno che di razza. Nessuna impressione gli avea fatta, quando Sipiaghin lo aveva a lei presentato; perchè dunque, ora, s'era volto appunto da quella parte ed avea scambiato quello sguardo?... Altra questione prese a tormentarlo: —

Tornò a guardare a Marianna, e gli sembrò di leggerle negli occhi la risposta a quel dubbio.

Il pensiero di essere capito lo solleticava piacevolmente.

Prestò di nuovo attenzione alla conversazione comune.... La signora Valentina era sottentrata al marito, e si esprimeva più liberamente, più radicalmente di lui. Ella non giungeva a comprendere, proprio no!... come un uomo educato, colto, giovane, potesse sostenere certi principii così antiquati, così coperti di muffa!

— soggiunse, — (e si volse a lui con un amabile sorriso),

Nejdanow arrossì, chinò la testa sul piatto e borbottò poche parole incomprensibili: non già che si sentisse impacciato, ma non avea l'abitudine di barattar discorsi e guerreggiar di frasi con persone così brillanti. La signora Valentina seguitava a sorridergli; il marito approvava, condiscendente.... Il signor Colomeizew, per suo conto, s'incastrò il monocolo tra il naso e le ciglia, e fissò attentamente il piccolo studente che si faceva lecito di non partecipare ai suoi timori....

Fatto sta che a questo modo non era facile imporre a Nejdanow: tutt'al contrario. Sotto quello sguardo scrutatore il giovane si raddrizzò e guardò fisso a sua volta il gentiluomo di camera. E con la stessa prontezza di sentimento, che gli avea rivelato in Marianna un'amica, indovinò in Colomeizew un nemico giurato!

Anche Colomeizew ebbe la stessa impressione.... Si lasciò cadere il monocolo, si voltò in là e tentò di sbozzare un sorriso.... Ma la cosa non gli riuscì. La sola Anna Zacharowna, che in segreto lo adorava, prese mentalmente le sue parti, e ancor più s'inacerbì contro il non chiesto vicino, che era venuto a separarla da Nicoletto.

Di lì a poco il pranzo terminò. Si passò tutti sulla terrazza per sorbire il caffè. Sipiaghin e Colomeizew accesero i sigari. Il primo fece atto di offrire un regalia autentico a Nejdanow; ma questi rifiutò.

— esclamò Sipiaghin. —

— notò fra i denti Colomeizew.

Poco mancò che Nejdanow non scoppiasse.

Fu lì lì per gridare: — Si contenne però.... e si legò al dito questa seconda impertinenza del suo nemico.

— chiamò forte ad un tratto la signora Valentina; — — soggiunse, volgendosi, —

— rispose secco Nejdanow.

Erano le prime parole da lui dette alla signora Sipiaghin.

— proseguì ella, stringendo graziosamente gli occhi vellutati. —

Marianna, con lentezza studiata, come per far dispetto alla zia, prese il paquitos, la scatola dei fiammiferi e incominciò a fumare. Nejdanow accese anch'egli la sigaretta, chiedendo a lei un po' di fuoco.

La sera era splendida. Nicoletto in compagnia di Anna Zacharowna discese in giardino. Tutti gli altri si fermarono ancora un'oretta sulla terrazza a godersi la frescura. La conversazione continuava abbastanza animata.... Colomeizew si attaccò alla letteratura; e anche qui il signor Sipiaghin diè bella prova di liberalismo, sostenendo l'indipendenza delle lettere, dimostrandone l'utilità, ricordando anche Chateaubriand e il fatto significativo che l'imperatore Alessandro Pavlovic aveagli conferito l'ordine di Sant'Andrea. Nejdanow non prese parte al discorso. La signora Valentina lo guardava sempre con una certa espressione come se da una parte ne approvasse il modesto riserbo e dall'altra se ne maravigliasse alcun poco.

Quando fu servito il tè, si passò di nuovo in salotto.

— disse Sipiaghin, —

E senza aspettar la risposta, andò a prendere il mazzo di carte.

Marianna sedette a pianoforte ed eseguì, nè bene nè male, alcune Romanze senza parole di Mendelssohn.

— gridava da lontano Colomeizew come scottato, ma in fatti per semplice dovere di cortesia.

In quanto a Nejdanow, a malgrado della speranza espressa dal padron di casa, non aveva nessuna passione per la musica.

Sipiaghin intanto, la moglie, Colomeizew ed Anna Zacharowna sedettero al tavolino di giuoco.

Nicoletto venne a dar la buona notte e, ricevuta la benedizione dei genitori, con l'aggiunta di un bicchier di latte invece di tè, se n'andò a dormire, mentre il padre gli gridava dietro che il giorno appresso si cominciavano le lezioni....

Qualche momento dopo, vedendo che Nejdanow se ne stava senza saper che fare in mezzo al salotto, sfogliando distratto le pagine di un albo di fotografie, Sipiaghin gli disse di non riguardarsi, che andasse pure a riposare, visto che dovea essere stanco dal viaggio. In casa loro, la divisa principale era una sola: libertà!

Nejdanow profittò del permesso, e preso commiato da tutti, si allontanò. Nell'uscire dal salotto s'imbattè in Marianna: e, guardatala di nuovo negli occhi, si persuase ancora una volta che avrebbe in lei trovata un'amica, benchè ella, non che sorridergli, avesse invece aggrottate le sopracciglia.

Trovò la sua camera tutta pregna d'una profumata frescura: le finestre eran rimaste aperte fino a sera. In giardino, proprio dirimpetto alla sua finestra, un usignuolo metteva le sue note brevi e armoniose. La volta del cielo andava come accendendosi sulle vette scure dei pini, per l'imminenza della luna.

Nejdanow accese una candela. Irruppero dal buio giardino sciami di farfallette grigie notturne, alitando e turbinando intorno alla fiamma giallognola agitata dalla brezza.

— andava pensando Nejdanow, quando fu a letto. —

In quel punto stesso, nel giardino sottostante il guardiano battè sodo e lungamente sulla tabella metallica.

Un grido prolungato suonò:

Al quale un'altra voce lugubre fece eco in lontananza:

— esclamò Nejdanow. —