VIII.
Nejdanow si levò di buon'ora e, senza aspettare l'apparizione del domestico, si vestì e discese in giardino. Era molto spazioso e bello questo giardino, e tenuto in ordine perfetto. Dei lavoratori presi a giornata andavano coi rastrelli appianando i viali. In mezzo al verde vivo dei cespugli lampeggiavano qua e là i fazzoletti rossi delle contadinelle, armate di pale, di falci, di ceste.
Nejdanow andò fino al laghetto, già sgombro della nebbia mattinale, di cui solo qualche bianca nuvoletta s'indugiava nelle ombrose sinuosità delle rive. Il sole, ancor basso, mandava sulla plumbea superficie dell'acqua una tinta color di rosa. Cinque operai legnaiuoli si davan da fare attorno a una zattera; lì accanto, ondeggiava leggermente, facendo appena increspar l'acqua, un battelletto nuovo dipinto di fresco. Suonavano tratto tratto delle voci, ma rade e contenute. Tutto spirava la quiete, la frescura, l'assiduità del lavoro, la regolarità perfetta di una vita ordinata.
Ed ecco, svoltando un sentiero, Nejdanow si trovò di fronte alla stessa personificazione dell'ordine e della regolarità, vogliamo dire al padron di casa.
Il signor Sipiaghin indossava un soprabito di color cece, a foggia di veste da camera, e portava in capo un berretto screziato. Appoggiavasi ad un bastoncino inglese di bambù, e dalla faccia rasa di fresco spirava la più completa soddisfazione. Andava in giro per dare un'occhiata alla proprietà. Scorgendo Nejdanow lo salutò con grande effusione.
— Ah! vedo! — esclamò; — siamo giovani e mattinieri!... Anch'io sono insofferente di poltrire a letto.... Alle otto precise si prende il tè in sala da pranzo; alle dodici si va a colazione. Alle dieci darete a Nicoletto la prima lezione di storia. Domani, nove di Maggio, solennizziamo il suo onomastico, epperò si farà vacanza. Ma per quest'oggi vi prego di cominciare.
Nejdanow chinò il capo in segno di assenso, e Sipiaghin si accomiatò alla francese, portando più volte rapidamente la mano alle labbra. Poi andò oltre, canticchiando e facendo mulinello col bastoncino di bambù, come se non fosse quel grave personaggio che era, ma un semplice e bonario country-gentleman.
Fino alle otto rimase Nejdanow in giardino, godendosi l'ombra degli alberi annosi, il fresco dell'aria, il cinguettìo degli uccelli. I lamentosi rintocchi del gong lo richiamarono in casa, dove trovò tutta la società già raccolta in sala da pranzo.
La signora Valentina lo trattò con molta amabilità. Nella sua acconciatura mattinale gli fece l'impressione di una vera bellezza. Marianna, come già la prima volta, si teneva in un riserbo severo.
Alle dieci precise ebbe luogo la prima lezione, alla presenza della signora Valentina, la quale domandò prima a Nejdanow se mai era di disturbo, e serbò tutto il tempo un contegno tranquillo e modesto. Nicoletto si mostrò abbastanza intelligente: dopo le prime inevitabili incertezze, la lezione andò d'incanto. La signora Valentina parve molto contenta del precettore, e più volte affabilmente gli indirizzò la parola, riuscendo fino ad un certo punto a vincerne la ritrosia.
Volle anche assistere alla seconda lezione, che era di storia. Dichiarò sorridendo che in quella materia lì avrebbe avuto bisogno anch'ella di un buon maestro, non meno del suo piccino. Come la prima volta, si contenne con perfetta deferenza, muta ed intenta.
Dalle due alle cinque, Nejdanow se ne stette in camera, scrisse varie lettere a Pietroburgo e si sentì, nell'insieme, mediocremente: nè fastidio, nè oppressura: i nervi gli s'erano in certo modo rilasciati. Di nuovo però gli si tesero all'ora del pranzo, benchè Colomeizew non fosse fra i commensali e le premure cortesi della padrona di casa fossero sempre le medesime; se non che queste premure appunto lo irritavano un poco. A ciò si aggiunga che la sua vicina, la vecchia zitella Anna Zacharowna, lo guardava di mal occhio, Marianna continuava a star seria e chiusa, e Nicoletto, senza troppe cerimonie, lo urtava coi piedi di sotto la tavola.
Lo stesso Sipiaghin pareva essere fuor di chiave. Dicevasi molto scontento del direttore della sua cartiera, un tal tedesco, che gli costava un occhio del capo. Se la pigliò, di lì a poco, con tutta la razza germanica. Dichiarò di essere, fino ad un certo punto, slavofilo, benchè non fanatico, e citò il nome di un giovane russo, un tal Solomine, il quale, a quanto dicevasi, aveva mirabilmente impiantata e fatta prosperare la fabbrica di un vicino commerciante. Con gran piacere avrebbe fatto la conoscenza di cotesto Solomine.
Arrivò la sera Colomeizew, la cui proprietà trovavasi a solo dieci verste dalla villa di Sipiaghin. Venne anche il giudice di pace, uno di quei proprietari così ben dipinti da Lermontow nei due notissimi versi:
Cravatta alta una spanna, giubba fino ai talloni,
Organo di soprano, occhi smorti, e baffoni.
Un altro vicino venne pure, malinconico in viso e sdentato, ma vestito con grande ricercatezza; venne il dottore del dipartimento, che si potea dire piuttosto un maniscalco, e che amava far pompa di termini scientifici: diceva, per esempio, che egli preferiva Cucolnik a Pusckine, perchè in Cucolnik c'era molto protoplasma.
Messo su, come solevasi, il giuoco delle carte, Nejdanow si ritirò in camera sua, e se ne stette a leggere e scrivere fino alla mezzanotte.
Il giorno appresso, nove di Maggio, ricorreva l'annunziata festa di Nicoletto. Seguiti dal servidorame, in tre carrozze aperte, coi lacchè ritti sul predellino di dietro, i signori di casa si avviarono alla messa, lontano tutt'al più un quarto di versta. Tutto seguì con la pompa più sfoggiata. Sipiaghin non avea trascurato la sua decorazione; la signora Valentina vestiva uno squisito abito parigino di color lilla pallido, e in chiesa, durante il servizio divino, pregò in un suo libriccino rilegato in velluto cremisi.
Questo libriccino non poco turbava i vecchi del luogo. Uno di loro non seppe contenersi e domandò al vicino:
— O che fa, Dio mi perdoni!... lo scongiuro forse?...
La fragranza dei fiori, che empivano la chiesa, si mescolava alle acri esalazioni delle cacciatore nuove di fustagno, degli zoccoli e delle scarpe incatramate, e perdevasi nei profumi soffocanti dell'incenso.
Diaconi e chierici cantavano a gola spiegata davanti ai leggii. Con l'aiuto degli operai della fabbrica, che facevan da coro, riuscirono perfino a dare una certa idea di concerto vocale. Ci fu un momento, per tutti gli astanti, di penosa oppressione. Il tenore (che era un tal Clemente addetto alla fabbrica, tisico spacciato) mise fuori, in un a solo, certe note minori e bemolli da lacerare i più duri timpani. La cosa però non ebbe conseguenze, e il concerto arrivò fino in fondo.
Il padre Cipriano, venerabile sacerdote, in cotta e zucchino, pronunciò un sermone molto edificante, leggendolo attentamente in un suo scartafaccio. Per mala sorte, credette opportuno lo zelante oratore di citare non so che nomi di Re di Assiria; il che gli costò una fatica e un sudore da non si dire.
Nejdanow, che da gran tempo non frequentava chiese, si rincantucciò fra le contadine.
Le buone donne tratto tratto lo sbirciavano, si facevan segni di croce, si chinavano per soffiare il naso ai loro piccini. Le fanciulle, in giubbetti nuovi e fazzoletti rossi in capo, i ragazzi in camiciotti lunghi, legati alla cintola, coi risvolti rabescati e i taschini scarlatti, fissavano attentamente il nuovo devoto, quasi fosse un animale raro.... E Nejdanow li guardava a sua volta, e mille pensieri gli giravano per la testa.
Dopo il servizio divino, che durò abbastanza, – si sa che le funzioni pel taumaturgo san Nicola son le più lunghe di tutto il rito ortodosso, – gli ufficianti, per invito di Sipiaghin, mossero per la villa. Ivi, dopo compiute altre cerimonie occasionali, fra le quali la benedizione della camera con l'acqua santa, fu servita una lauta refezione, durante la quale si scambiarono gli usati discorsi edificanti.... e piuttosto noiosi. Il padrone e la padrona di casa, benchè non fosse quella l'ora della colazione, gustarono d'una cosa e dell'altra.
Sipiaghin volle anche narrare un aneddoto, perfettamente decente ma esilarantissimo, il che, dato il suo grado e la decorazione, produsse in tutti un'impressione quasi consolante, e in padre Cipriano destò un sentimento di stupore e di gratitudine. Un po' per ripicco, un po' per far vedere che all'occasione anch'egli era buono di dir la sua, padre Cipriano narrò del suo colloquio col vescovo, quando questi, facendo il giro della diocesi, chiamava alla sua presenza, nel monastero, tutti gli ecclesiastici.
— Un uomo rigido, inflessibile, — diceva padre Cipriano. — Prima s'informava della parrocchia, dei sistemi, dell'ordine, ecc., e poi vi faceva a dirittura passare un esame. Venne anche la mia volta, si capisce!
“— Qual è, mi domanda, la tua festa patronale?
“— La Trasfigurazione del Signore, — rispondo io.
“— E conosci il cantico di rito?
“— Altro che! se lo conosco!
“— Ebbene, cantalo!
“— Ed io subito: Christus Jesus, splendor Patris, in monte excelso gloriosus apparere hodie dignatus est....
“— Basta così! Che cosa è la Trasfigurazione e come va intesa?
“— È presto detto: Cristo volle mostrare ai discepoli la Sua gloria.
“— Benissimo! — dice. — Ed eccoti, per mio ricordo, un'immagine.
“— Io, naturalmente, gli caddi ai piedi, confuso.... “Grazie, Eccellenza, grazie vi sian rese!” E me la battei con l'immagine in tasca, e a stomaco digiuno!
— Io ho l'onore di conoscere personalmente S. E. il vescovo, — notò Sipiaghin in tono di importanza. — Un pastore esemplare!
— Certo, certo! — approvò padre Cipriano. — Se non avesse il debole di affidarsi un po' troppo ai decani rurali....
La signora Valentina accennò alla scuola pei contadini, e non trascurò di ricordare che Marianna sarebbe stata una delle maestre. Il diacono, cui era commesso l'ufficio d'ispettore scolastico, uomo di proporzioni atletiche e con una zazzera che facea pensare alla coda del corridore di Orlow, tentò di manifestare la propria approvazione, ma, per difetto della laringe, non riuscì che a metter fuori un brontolìo roco che fece paura a tutti.
Dopo di che, il clero si ritirò.
Nicoletto, con indosso il camiciotto nuovo dai bottoni dorati, fu l'eroe del giorno. Raccolse doni, congratulazioni, baci di mano dagli operai, dai servi, dalle vecchie, dalle fanciulle. I contadini, in omaggio ad antica consuetudine, ronzavano davanti alla casa, intorno a tavole imbandite di focacce e di brocche di acquavite.
Nicoletto, a volta a volta, arrossiva di allegria e di vergogna; correva per tutte le camere; faceva carezze ai genitori.
A tavola, Sipiaghin ordinò che si servisse lo sciampagna e, prima di bere alla salute del figlio, pronunciò un discorso. Spiegò che cosa volesse dire servir la terra, e per qual via egli desiderava che il suo amato Nicola si mettesse.... Disse ancora quel che da lui erano in diritto di aspettare: in primo luogo, la famiglia; in secondo, il consorzio umano, la società; in terzo, il popolo.... sì, egregi signori, il popolo! e in quarto luogo, lo Stato!...
A poco a poco scaldandosi, Sipiaghin toccò infine il sommo dell'eloquenza, e allora, ad imitazione di Roberto Peel, cacciò una mano sotto la falda del soprabito, gesticolando con l'altra; si accese di santo entusiasmo alla parola scienza, e chiuse il suo discorso con la esclamazione latina: Laboremus!
Nicoletto, con in mano il suo bicchiere, andò a ringraziare il genitore, e poi fece il giro della tavola, festeggiato e baciato da tutti.
Di nuovo accadde a Nejdanow di scambiare occhiate con Marianna.... Entrambi furon compresi da uno stesso sentimento.... Ma non si parlarono l'un l'altro.
Del resto, tutto ciò di cui era testimone, sembrava a Nejdanow assai più comico e anche interessante, che non disgustoso o soltanto spiacevole. La gentile padrona di casa gli faceva poi l'effetto di una donna intelligente, la quale sappia di recitare una parte e che nel tempo stesso sia lieta di esser compresa da uno degli astanti, anch'egli intelligente e sagace....
Fatto sta che lo stesso Nejdanow non sospettava fino a che punto la propria vanità di uomo fosse solleticata dall'affabilità che ella gli dimostrava.
Il giorno seguente furon riprese le lezioni, e tutto rientrò nell'ordine quotidiano. Una settimana passò, senza che Nejdanow se n'avvedesse.
Dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, meglio di tutto può dare idea il brano di una lettera da lui indirizzata a un tal Siline già suo camerata al ginnasio ed intimo amico.
Questo Siline non viveva già a Pietroburgo, ma in una remota città di provincia presso un ricco parente, dal quale dipendeva in tutto e per tutto.
Non c'era speranza che di là si traesse, nè tampoco ci pensava. Era infermiccio, timido, limitato; onesto però fino allo scrupolo. Di politica non si occupava. Leggicchiava qualche libro, suonava, per cacciar la noia, il flauto, ed aveva delle donne una gran paura. Di cuore eccellente e facile ad affezionarsi, voleva un gran bene a Nejdanow.
Questi, dal canto suo, con nessuno si apriva con tanto abbandono, quanto con l'antico compagno di scuola. Gli pareva, scrivendogli, di conversare con un essere vicino e ben noto, ma abitatore d'un altro mondo, ovvero con la propria coscienza. Non sapea nemmeno immaginare come avrebbe di nuovo potuto vivere con Siline, da camerata, in una stessa città.... Se mai, si sarebbe forse subito raffreddato a suo riguardo, tanto con lui avea poco di comune.
Scrivere, però, era tutt'altra cosa. Con tutti, almeno sulla carta. Nejdanow sentiva di essere un po' falso e di posare; con Siline, mai e poi mai! Questi poi, non molto bravo a maneggiar la penna, rispondeva di rado e con brevi frasi. Ma Nejdanow non abbisognava di lunghe risposte.
Gli bastava sapere che l'amico lontano compenetravasi di ogni sua parola come la polvere della strada impregnasi della pioggia; che serbava come cosa sacra i suoi segreti; che, perduto in una muta solitudine, viveva solo ed esclusivamente della sua vita. A nessuno al mondo Nejdanow parlava mai di questa singolare e cara amicizia.
Ecco dunque quanto gli scriveva:
“Tra breve mi toccherà di dover tirare il carro che sai, in altri termini di farmi mangiar dal lupo, visto che mi son fatto pecora (fu proprio per questo che mi consentirono di venir qua); ma intanto mi è dato di vivere della preziosa vita animale, d'ingrassare, e magari di scribacchiar versi quando mi salta il grillo. Le così dette osservazioni si rimandano a miglior tempo. La proprietà mi sembra bene ordinata, c'è solo la cartiera che va malino; i contadini, rovinati dall'affrancamento, sono più o meno inaccessibili; la servitù di casa, tutti visi decenti e corretti. Vedremo poi. I padroni di casa, affabili e liberali. Sipiaghin, sempre pieno di condiscendenza, si scalda di botto e monta sui trampoli: un uomo di squisita educazione! La signora, una vera bellezza, e furba anche: vedessi come ti gira intorno, come ti osserva, e com'è tutta dolcezza! A momenti, mi par disossata.... Io ne ho paura: sai bene che cavalier servente son io!... I vicini, gente antipatica. C'è poi una vecchia che mi opprime.... Ma più di tutti m'interessa una signorina, parente o amica che sia, con la quale non ho forse barattato nemmeno due parole, ma che veste, ci scommetto, degli stessi miei panni."
Seguiva qui la descrizione delle fattezze di Marianna e delle sue abitudini. Poi continuava:
“Con me, come t'ho detto, non discorre quasi mai; ma nelle poche parole rivoltemi, sempre brevi e improvvise, suona una certa rude franchezza, che mi fa piacere.
“A proposito, o che il tuo parente ti mantiene sempre a stecchetto, e non si dispone ad andarsene all'altro mondo?
“Hai letto nel Messaggero europeo un articolo sugli ultimi falsi Demetrii nella provincia di Orenburgo?...
“La cosa accadde nel 1834, capisci! Non mi piace il giornale, e l'autore dell'articolo è un conservatore; ma il fatto in sè è interessante e può dar molto da pensare....”
IX.
Maggio volgeva al suo termine, e già incominciavano le prime giornate calde dell'estate.
Fatta la sua lezione di storia, Nejdanow discese in giardino, e di là entrò nel boschetto di betulle, che da un lato lo limitava. Una parte del boschetto, 15 anni innanzi, era stata tagliata e venduta. Avanzavano in quel posto i ceppi biancastri, e qua e là si ergevano le giovani pianticelle dai tronchi argentei scompartiti da anelli di color grigio, dalle tenere frondi verdeggianti che parean lavate di fresco e verniciate. L'erba primaverile metteva fuori le punte acuminate attraverso lo strato eguale delle scure foglie dell'anno precedente.
Tutto il boschetto era intersecato da angusti viottoli. I merli neri dal becco giallo, con uno strido improvviso, quasi spaventati, vi passavano in rapido e basso volo, sfiorando la terra, e gettavansi a capofitto nel folto.
Dopo aver passeggiato una mezz'oretta, Nejdanow si riposò alla fine sopra un ceppo abbattuto, circondato da rami secchi, trucioli e sverze, rimasti lì indisturbati fin da quando la scure avevali ammontati. Nejdanow sedette con le spalle volte alla parete delle giovani betulle. Godevasi l'ombra fitta che si stendeva in quel posto, a nulla pensava, abbandonavasi tutto a quello speciale sentimento primaverile, cui si mescola sempre nei cuori giovani e nei vecchi una punta di malinconia.... Malinconia di trepida aspettazione nei giovani; malinconia di vano e rassegnato rammarico nei vecchi....
Ad un tratto, si udì un calpestìo che si avvicinava.
Erano passi leggieri ed eguali, e non di ruvide scarpe contadinesche o di piedi scalzi. Più d'uno si avanzava, senza fretta.... Una veste di donna si mosse, con un fruscio, fra le foglie.
Suonò di botto una voce cupa, maschile:
— E così, è questa l'ultima vostra parola?... Mai?...
— Mai! — rispose una voce di donna, che a Nejdanow non parve nuova; e nel punto stesso, dal gomito del sentiero, apparve Marianna, accompagnata da un uomo abbronzato in viso, dagli occhi neri, sconosciuto.
Alla vista di Nejdanow, si arrestarono come impietriti; e questi, per lo stupore da cui fu colto, non si alzò nemmeno dal ceppo che gli faceva da sedile.
Marianna si fece di bragia fino alla radice dei capelli; ma subito dopo sbozzò un sorriso noncurante e quasi di scherno.... Per chi era quel sorriso? per la propria debolezza dell'avere arrossito o per Nejdanow?...
Il compagno di lei aggrottò le folte sopracciglia, mentre gli lampeggiavano le pupille irrequiete. Poi, scambiò un'occhiata con Marianna; e tutti e due, volgendo le spalle, andarono oltre in silenzio, senza affrettare il passo....
Nejdanow tenne loro dietro con lo sguardo, e mezz'ora dopo se ne tornò a casa e si chiuse in camera.
Chiamato dai rintocchi del gong, discese in sala da pranzo, e a primo tratto si trovò davanti l'uomo abbronzato del bosco. Sipiaghin, fattosi in mezzo, glielo presentò come suo beau-frère, fratello di Valentina, per nome Sergio Michailovic Marchelow.
— Siate buoni amici, signori, vi prego! — disse Sipiaghin con la solita amabile disinvoltura e con un sorriso distratto.
Marchelow s'inchinò in silenzio; Nejdanow rispose allo stesso modo....
Sipiaghin si tirò da parte con una scrollatina di spalle, che parea dire:
— Ho fatto il debito mio, presentandovi l'uno all'altro. Se poi sarete o non sarete amici, non me n'importa niente!
Si avvicinò allora la signora Valentina alla coppia immobile e muta, rinnovò la presentazione, e con quello sguardo tutto suo, nel quale metteva a volontà un luccichìo di tenerezza, apostrofò il fratello:
— Ma in somma, cher Serge, tu ci hai proprio dimenticati! Nemmeno per la festa di Nicoletto ti sei fatto vedere! Tanto sei oppresso dalle faccende?... Figuratevi, signor Nejdanow, ch'egli introduce nei suoi poderi non so che nuovi sistemi, una cosa originalissima, una specie di mezzadria a rovescio.... Ai contadini tre quarti, un sol quarto per sè: e dice sempre, pare impossibile, di essersi fatta la parte del leone!
— Mia sorella ama la celia, — disse Marchelow a Nejdanow. — Son pronto però a riconoscere con lei che se un solo individuo si piglia la quarta parte di quel che spetta in intiero alla comunità, costui si piglia in fatto un po' troppo.
— E voi, signor Nejdanow, anche voi avete forse notato che io amo la celia? — domandò la signora Valentina, sempre con la medesima soavità nello sguardo e nella voce.
Nejdanow non trovò che cosa rispondere; e in quel momento fu annunziato l'arrivo di Colomeizew. La padrona di casa gli andò incontro; e qualche minuto dopo, il cameriere venne ad avvertire che era servito in tavola.
Mal suo grado, durante il pranzo, Nejdanow guardava tratto tratto a Marianna e Marchelow. Sedevano accanto, con gli occhi bassi, le labbra serrate, rabbuiati e poco meno che velenosi in viso.
Di una cosa stupiva specialmente Nejdanow, come mai Marchelow poteva esser fratello della signora Sipiaghin? Pochissima la somiglianza tra i due. Aveano bensì entrambi carnagione bruna; se non che, in Valentina, quella tinta fosca del viso, delle mani, delle spalle, costituiva un elemento di bellezza, mentre nel fratello ricordava la patina d'una statua di bronzo.... o anche il bruno lucido del cuoiame. Marchelow aveva i capelli crespi, il naso un po' adunco, le labbra carnose, le guance infossate, raccolto il ventre, muscolose le mani. Tutta la sua persona era magra e nervosa. Parlava a scatti, con voce piana, recisa. Avea l'aspetto accigliato, lo sguardo sonnolento, che son propri dei biliosi. Mangiava poco, si divertiva a far con le dita pallottole di pane, e solo come per caso volgeva gli occhi a Colomeizew.... Questi tornava appunto dalla città, dove avea visto il governatore, per una certa faccenda piuttosto dispiacevole, della quale però non diceva verbo, affettando, come di consueto, la più spensierata giovialità.
Sipiaghin, come sempre, gli dava sulla voce quando lo vedea passare i limiti; rideva però molto dei suoi aneddoti e dei suoi bons mots, benchè lo trovasse un affreux réactionnaire. Fra le altre cose, Colomeizew si diceva entusiasmato dell'appellativo che i contadini.... oui, oui! les simples mougiks.... davano agli avvocati.
— Ciarlatani! ciarlatani li chiamano! — ripeteva ammirato. — Ce peuple russe est délicieux!
Narrò poi come, visitando una scuola popolare, avesse fatto agli
scolari questa domanda: “Che cosa è un
camelopardali?” e siccome nessuno era stato buono di
rispondere, nemmeno il maestro, egli avea formulato una seconda
domanda: “Che cosa è un papio?”
citando anche, al proposito, il verso di Kemnitser: “Lo sciocco papio imitator fra i
bruti
”.... E anche qui silenzio generale.
— Ed ecco, — concluse trionfalmente, — a che cosa servono le nostre scuole popolari!
— Ma, scusatemi — osservò la signora Valentina, — io stessa ignoro che animali siano cotesti!
— Signora! — esclamò Colomeizew, — non è proprio necessario che voi lo sappiate.
— E perchè allora dovrebbe essere necessario pel popolo?
— Perchè gli torna molto più utile conoscere un babbuino o un camelopardali, anzi che un qualunque Prudhon o anche un Adamo Smith!
Ma qui, ancora una volta, Sipiaghin ammonì il brillante parlatore, dichiarando che Adamo Smith era uno degli astri dello scibile e che sarebbe stato opportuno d'instillare i suoi principii.... (mescevasi, così dicendo, un bicchiere di Chateau d'Iquème)... insieme col latte.... (qui alzò il bicchiere e aspirò il profumo del vino).... della madre!
Vuotò, come conclusione, il bicchiere. Colomeizew fece lo stesso per suo conto e affermò che il vino era squisito.
Marchelow non prestava molta attenzione alle ciarle scucite del gentiluomo di camera, ma due volte guardò a Nejdanow in atto interrogativo e, scagliando una pallottola di pane, poco mancò che non colpisse il naso dell'eloquente commensale.
Sipiaghin lasciò tranquillo il cognato; Valentina non gli indirizzò una sola parola. Marito e moglie, si vedeva, erano abituati a considerar Marchelow per un originale, che meglio valeva non punzecchiare.
Dopo pranzo, Marchelow se n'andò nella sala del bigliardo a fumar la pipa, e Nejdanow si avviò alla sua camera.
Traversando un corridoio, s'imbattè in Marianna. Fece atto di passar oltre.... ma ella con un gesto risoluto della mano lo arrestò.
— Signor Nejdanow, — con voce non del tutto sicura disse la fanciulla, — a me, per dir vero, dovrebbe essere indifferente quel che di me voi possiate pensare.... Nondimeno mi pare.... mi pare.... (non riusciva a trovar la parola giusta).... mi pare opportuno dirvi che, quando mi avete oggi incontrata nel boschetto in compagnia del signor Marchelow.... Ditemi franco, voi certo vi siete domandato perchè questi due si son turbati?... perchè son venuti qui, come per un appuntamento preso?
— Mi è sembrato infatti alquanto strano, — rispose Nejdanow, — che voi....
— Il signor Marchelow, — interruppe Marianna, — mi ha fatto un'offerta, che io ho rifiutato. Ecco tutto quel che avevo da dirvi! Ed ora.... addio. E pensate di me quel che più vi piace!
Si volse, ciò detto, e con rapido passo si allontanò.
Nejdanow tornò in camera e, sedutosi davanti alla finestra, si abbandonò ai pensieri che l'assalivano.
— Strana fanciulla costei! E a che pro quella sua uscita selvaggia? e perchè una sincerità audace, che nessuno le domandava?... È forse smania la sua di far l'originale?... è semplice rettorica?... è orgoglio? Più di tutte, è probabile quest'ultima ipotesi. Si vede che il minimo sospetto sul suo conto le è intollerabile. Non soffre che di lei si giudichi erroneamente. Bizzarra creatura!
Così Nejdanow fantasticava; e giù intanto, sulla terrazza, si discorreva appunto di lui, – ed egli udiva benissimo ogni cosa.
— Non so perchè, — diceva Colomeizew, — ma quel ragazzo lì mi ha l'aria di un rosso. È il fiuto che me lo dice.... Sono stato una volta presso il generale governatore di Mosca, avec Ladislas, addetto ad incarichi speciali.... e vi so dire io che ho avuto modo di esercitarmi, di affilarmi, con questi signori rossi, e anche un po' coi settari.... Avevo un fiuto di prim'ordine!
E Colomeizew narrò che un tal giorno, nei dintorni di Mosca, era riuscito ad acciuffare un vecchio settario, piombandogli addosso con la polizia, e che il malcapitato per poco non era saltato dalla finestra per salvarsi.... Ed ora se la godeva tranquillo in gattabuia, il furfante!
Colomeizew dimenticava di soggiungere che cotesto medesimo vecchio, chiuso in prigione, avea respinto ogni sorta di cibo e s'era lasciato morir di fame.
— In quanto al vostro nuovo maestro, — proseguiva infervorato il gentiluomo di camera, — non c'è dubbio che è un rosso. Avete voi notato che non è mai il primo a salutare?
— E perchè dovrebbe salutare per il primo? — notò la signora Valentina. — Questo, anzi, mi piace.
— Io vengo come ospite, come amico, nella casa in cui egli serve, — esclamò Colomeizew, — sì, sì, serve, per denari, comme un salarié.... E poi anche, ho più anni di lui.... si capisce che il suo dovere è di salutarmi!
— Siete troppo meticoloso, caro mio, — venne su Sipiaghin; — tutto ciò, se permettete, sente un po' di stantìo. Io pago bensì i suoi servigi, il suo lavoro; ma egli, naturalmente, rimane sempre uomo libero.
— Non sente il freno, — proseguiva Colomeizew, — le frein. Tutti così questi rossi! Vi dico e vi ripeto che il fiuto non m'inganna. Il solo Ladislas, se mai, può rivaleggiar con me per questo rispetto.... Lasciate che mi capiti fra le mani, cotesto maestrino, e gli darei io il fatto suo!... E canterebbe sopra un altro tono, ve l'assicuro io!... E che scappellate mi farebbe, che scappellate!
— Imbecille e millantatore! — per poco non gridò Nejdanow dalla finestra.
Ma, in quel punto, la porta della camera si aprì e, con suo massimo stupore, egli vide entrare nè più nè meno che Marchelow.
X.
Nejdanow si alzò sollecito e gli andò incontro, mentre l'altro, avanzandosi con franchezza, senza un saluto e senza un sorriso, domandava:
— Siete proprio voi Alessio Nejdanow, studente dell'università di Pietroburgo?
— Sì, sono io, per l'appunto, — rispose Nejdanow.
Marchelow cavò dalla tasca di lato una lettera dissigillata.
— Leggete dunque. È di Basilio Nicolaevic, — soggiunse abbassando la voce in modo significativo.
Nejdanow prese il foglio e lo lesse. Era una specie di circolare semi-ufficiale, nella quale il latore, Sergio Marchelow, veniva raccomandato come uno dei nostri, meritevole della più larga fiducia. Seguivano istruzioni intorno alla urgente necessità di un'azione combinata, e alla propagazione delle note norme da seguire.
La circolare era anche indirizzata a Nejdanow, come ad una delle persone più sicure.
Nejdanow porse la mano a Marchelow, lo pregò di sedere e sedette egli stesso.
Marchelow, senza dir verbo, accese una sigaretta. Nejdanow ne seguì l'esempio.
— Vi è già venuto fatto di avvicinare i contadini di qua? — domandò Marchelow alla fine.
— No, non ancora.
— Siete qui da molto?
— Tra poco, faranno due settimane.
— Molto da fare?
— Così così.
Marchelow tossì di malumore.
— Hum! — fece poi. — La gente di qua è abbastanza vuota, incolta. Bisogna illuminarla. La miseria è grande, e a nessuno è dato capire da che cosa derivi.
— I contadini di vostro cognato, a giudicare dalle apparenze, non sono mica poveri, — osservò Nejdanow.
— Mio cognato è volpe vecchia. Nessuno più bravo di lui per gettar polvere agli occhi. I contadini di qua non contano. Ma egli ha una fabbrica, ed è lì che bisogna lavorare. Basta cacciar la mano in un formicaio, perchè tutto brulichi.... Libri ne avete?
— Sì.... pochi.
— Ve ne troverò io degli altri. Come fate a starvene così?
Nejdanow non rispose, e l'altro stette un gran pezzo in silenzio, cacciando dal naso il fumo della sigaretta.
— Ma che brutto arnese quel Colomeizew! — esclamò ad un tratto. — Pensavo a tavola: se mi alzassi e rompessi la faccia cornea a quel signore, perchè se ne procuri un'altra?... Ma no! Abbiamo adesso per le mani faccende assai più gravi, che non sia quella di bastonare un gentiluomo di camera.... Non è tempo ora di pigliarsela con gl'imbecilli per le scioccherie che si fanno uscir di bocca; è tempo invece d'impedir loro, in tutti i modi, di fare delle scioccherie.
Nejdanow approvò con un cenno del capo, e Marchelov si attaccò con più foga alla sua sigaretta.
— In mezzo a tutto questo canagliume di servi, — riprese poi a dire, — c'è un giovanotto capace.... Non già Ivan, il vostro domestico, che non è nè carne nè pesce, ma un altro.... Si chiama Cirillo, ed è addetto alla dispensa.... Fate attenzione a lui.... Passa per un beone accanito, per un capo scarico.... Ma noi, s'intende, non si può andar pel sottile. E di mia sorella che ne dite?... sentiamo un po'! Più furba del cognato, eh?
E alzava la testa, fissando coi neri occhi lucenti il suo interlocutore.
— Mi pare una signora piacente e amabilissima.... Ed è anche molto graziosa.
— Eh, eh!... con che delicatezza vi esprimete voi altri giovanotti di Pietroburgo! Davvero, resto a bocca aperta! Orsù, in quanto a....
S'interruppe di botto e si fece scuro in viso.
— Mi avvedo, — soggiunse poi, — che ci converrà di discorrere un po' a comodo.... Qui è impossibile. Sa il diavolo se qui anche le porte non hanno orecchi! Volete che vi faccia una proposta?... Siamo oggi a sabato.... Domani dunque non avete lezione con mio nipote?...
— Ci ho solo la ripetizione alle tre.
— La ripetizione? Come a teatro, tale e quale. Dev'essere mia sorella che inventa queste parole.... Basta! volete? Andiamo insieme, adesso. Dieci verste di cammino, e siamo a casa mia. Ho tre cavalli che vanno come il vento.... Passerete la notte da me, e domani, alle tre precise, vi deposito qua. Siamo intesi?
— Benissimo! — consentì Nejdanow.
Dal primo apparire di Marchelow, trovavasi in uno stato di eccitazione e d'imbarazzo. Da una parte, l'inatteso riavvicinamento lo turbava; dall'altra, un segreto senso di simpatia gli parlava in favor di quell'uomo. Sentiva come per istinto di aver davanti un essere, ottuso forse, ma certamente onesto e forte. E poi, anche, quello strano incontro nel bosco, quella inaspettata spiegazione di Marianna....
— D'accordo dunque! — esclamò Marchelow. — Voi, intanto, preparatevi. Io vado a fare attaccare.... Non credo che abbiate bisogna di domandar licenza ai padroni di casa?
— Li avvertirò. Temo di non poterne fare a meno.
— Glielo dirò io, — si offrì Marchelow. — Non vi disturbate voi. Adesso son tutti accanati alle carte, e non si accorgeranno della vostra assenza. Mio cognato si crede uomo di Stato, e, in fondo non sa fare che giocare a carte. Del resto, è una via come un'altra.... Sicchè, sbrigatevi. Vado e torno in un lampo.
Si allontanò, ciò detto, e un'ora dopo, Nejdanow gli sedeva accanto sopra un gran cuscino di cuoio in un vecchio e largo tarantas. Il piccolo monello, che facea da cocchiere, zufolava allegramente e facea schioccar lo scudiscio. I tre cavalli pezzati, dalle code e le criniere intrecciate, andavano di carriera sulla via piana; e già sorpresi dall'ombra della notte (eran partiti, battendo le dieci), rapidamente si lasciaron dietro alberi, cespugli, campi, praterie, burroni.
Il piccolo podere di Marchelow (non avea che duecento desiatinnota 3, e dava una rendita di circa settecento rubli), trovavasi a tre verste dalla città, mentre la villa di Sipiaghin ne distava sette. Chiamavasi Borsiòncovo. Per arrivarvi, bisognava traversar l'abitato.
Non erano ancor riusciti i due nuovi conoscenti a barattar cinquanta parole, che già passavano loro di fianco le casette borghesi dai tetti di legno, qua e là punteggiate di lumicini alle finestrette difformi; e subito dopo rimbombò sotto le ruote l'acciottolato del ponte, facendo ondeggiare e balzare la carrozza; e vennero finalmente le palazzine a due piani, dove i mercanti abitavano, le chiese con le loro colonne, le osterie....
Per l'imminenza della domenica, le vie eran deserte; non così i luoghi di ritrovo e di spasso. Da questa e da quella osteria venivan fuori voci roche, canzoni da ubbriachi, suoni scordati di organetti. Erompeva da qualche porta, che di botto si aprisse, un tepore attaccaticcio, insieme con esalazioni di spirito e di lucerne rosseggianti e fumose. Quasi davanti a ogni bettola vedevansi carretti contadineschi, con le loro rozze vellose, bolse, dalla testa penzoloni come se dormissero. Ad ogni poco, sbucava all'aperto un contadino barcollante, sbottonato, col sacco in ispalla, con in capo il berrettaccio di pelo, e appoggiatosi col petto alle stanghe del carretto, rimaneva immobile; ed anche qualche operaio sparuto, col berretto sulle ventiquattro, la camicia di cotonina rigonfia sul petto fuor dai calzoni, scalzo, veniva avanti a passi mal fermi, si fermava in tronco, si grattava la schiena, e con un improvviso sbadiglio che somigliava ad un gemito, se ne tornava indietro a dormire....
— Ci si lascia pigliare dal vino noi altri Russi! — osservò di malumore Marchelow.
— Gli è per affogare i guai, padron Sergio! — rispose, senza voltarsi, il cocchiere, il quale, passando davanti ad ogni bettola, smetteva dallo zufolare e pareva diventare meditabondo.
— Cammina tu, e non tante chiacchiere, — lo ammonì Marchelow scotendolo pel bavero della mantellina.
La carrozza traversò di corsa la piazza del mercato, tutta sparsa di frondi di cappuccia e di paglia, passò davanti alle garette colorate della casa del governatore, percorse la passeggiata pubblica fiancheggiata da alberelli recenti e già stremenziti, si lasciò dietro i magazzini di deposito rimbombanti di latrati canini e di strepito di chiavistelli, e, piegando un po' a destra lungo la siepe, uscì avanti ad una interminabile fila di carri, emerse di nuovo all'aria aperta dei campi, e si spinse più svelta e con moto più uguale per una ampia strada ornata di platani fronzuti.
Marchelow — è ormai tempo di dir qualche parola sul suo conto — avea sei anni più della sorella Valentina. Educato nella scuola di artiglieria, n'era uscito ufficiale; ma, per dissapori col suo comandante, che era un tedesco, avea dovuto prendere il riposo col grado di tenente. Da allora in poi, avea preso in uggia i tedeschi. Il ritiro lo fece venire in urto col padre, col quale non s'incontrò più fino alla morte del vecchio. Toccatogli allora in eredità il piccolo podere, vi si era stabilito.
A Pietroburgo, trovavasi spesso in compagnia di varie persone di conto, ch'egli sinceramente ammirava e che contribuirono alla fine a determinare il suo modo di vedere. Non molto avea letto, e fra tutti i libri dava la preferenza a quelli che gli parevano pratici: Herzen soprattutti. Avea conservato la rigidezza del contegno militare, vivea da spartano e quasi da frate.
Vari anni innanzi, s'era bensì innamorato d'una ragazza; ma costei, traditolo senza troppe cerimonie, era andata sposa a un aiutante, anche questi tedesco. Naturalmente, l'odio di Marchelow si estese anche agli aiutanti.
S'era provato a scrivere articoli tecnici sui difetti della nostra artiglieria; ma gli mancava, purtroppo, il dono della composizione, e nemmeno un solo articolo gli riuscì di condurre a termine. Seguitava nondimeno, con incrollabile caparbietà, a scribacchiare lunghe strisce di carta colla sua scrittura maiuscola, goffa, addirittura infantile.
Era un uomo, come si suol dire, tutto di un pezzo, ostinato, coraggioso fino alla temerità, incapace di perdonare o dimenticare, in uno stato di assidua irritazione per sè e per tutti gli oppressi, pronto a tutto. La sua organizzazione intellettuale era così fatta da non consentirgli una doppia mira: se batteva sopra un chiodo, non batteva che quello. Le cose che non riusciva a comprendere, per lui non esistevano. Disprezzava e detestava la falsità e la menzogna.
Con le persone di alto grado, coi pezzi grossi e grassi, era contegnoso e burbero; semplice col popolo; familiare coi contadini, come con altrettanti fratelli. Mediocre amministratore, rivolgeva in capo molti piani socialistici, che non riusciva mai a tradurre in opera, allo stesso modo che non riusciva a condurre in fondo gli articoli sull'artiglieria.
In genere, la disdetta lo perseguitava in ogni cosa, e già fra i camerati gli era stato appiccicato il nomignolo di Passaguai.
Uomo schietto, retto, natura ardente e sensibile, egli poteva, all'occasione, divenire inesorabile, sanguinario, meritare il nome di mostro, e poteva anche, con la medesima facilità, darsi in olocausto senza esitazione e irremissibilmente.
La carrozza, fatte tre verste fuori di città, entrò ad un tratto in un folto di pioppi. Stormivano non viste le frondi, un'acre fragranza boschiva impregnava l'aria, alternavansi guizzi di luce dall'alto con le ombre confuse del basso. Spuntava all'orizzonte il disco lunare, rosso ed ampio, quasi uno scudo di bronzo infocato.
Uscendo di sotto agli alberi, la carrozza si trovò davanti ad una piccola casa campestre. Tre finestre illuminate ne ornavano la facciata.
Le porte, spalancate, non eran forse mai state chiuse: così almeno pareva.
Nel cortile, disegnavasi tra luce e ombra un altro biroccino con due cavalli bianchi di posta. Due cani, anche bianchi, balzarono dal fondo, mettendo latrati assordanti, ma ospitali. Notavasi nell'interno della casa un certo movimento di gente.
La carrozza si arrestò davanti alla scala. Marchelow ne smontò con una certa difficoltà, cercando col piede la predellina di ferro inchiodata, come suole, dal fabbro di casa nel posto più incomodo.
Quando si sentì bene in terra, si volse a Nejdanow e gli disse:
— Eccoci arrivati! Troverete qui degli ospiti, che son vecchie vostre conoscenze, ma che non vi aspettate d'incontrare.... Favorite, vi prego!
XI.
Gli ospiti annunziati da Marchelow erano due, a noi già ben noti: Ostrodumow e Masciùrina. Seduti nel piccolo e assai mediocre salotto della casa, alla luce d'una lampada a petrolio, bevevano birra e fumavano.
Dell'arrivo di Nejdanow non si mostrarono stupiti, già informati della intenzione di Marchelow di condurlo seco. Stupì invece Nejdanow di trovarli lì come a casa loro.
— Salute, camerata! — disse secco Ostrodumow.
Masciùrina, senza aprir bocca, si fece di fuoco in viso, e porse la mano.
Marchelow spiegò a Nejdanow che i due amici erano stati mandati per la causa comune; che questa era di prossima attuazione; che la settimana prima eran partiti insieme da Pietroburgo; che Ostrodumow sarebbe rimasto nel dipartimento di S.*** per far propaganda, e Masciùrina sarebbe invece partita alla volta di C.*** per un abboccamento con una certa persona.
Marchelow, senza motivo apparente, si andò accalorando e arrivò perfino ad una specie d'irritazione morbosa, benchè nessuno lo contraddicesse. Si mordeva i baffi, strabuzzava gli occhi, parlava con voce soffocata dalla commozione. Gli abusi e le prepotenze erano oramai intollerabili; urgeva l'azione pronta ed unanime; chi parlava d'indugi non poteva essere che un vigliacco. Che altro s'aspettava?... In certi casi, la violenza era indispensabile e salutare, come il colpo della lancetta che incide il tumore. Più volte ripetette questo paragone della lancetta: l'avea letto in qualche libro e gli avea fatto impressione.
A sentirlo, pareva aver perduto ogni speranza di esser ricambiato d'amore da Marianna. Non più cure, nè rammarichi, nè riguardi. Pensava solo ai mezzi più spicci per incominciare ad agire. Parlava come se menasse colpi di scure, senza ambagi, reciso, semplice, crudele. Le parole gli cadevano dalle pallide labbra, una dopo l'altra, monotone, imperiose, dure, ricordando il latrato di un vecchio mastino.
Conosceva a menadito tutti i contadini e gli operai dei dintorni: gente fattiva, sulla quale si poteva fare assegnamento, come, per esempio, Geremia del podere dei Galaplioc, gente pronta a gettarsi nel fuoco. Questo Geremia gli veniva continuamente alle labbra. Ogni dieci parole batteva del pugno destro sulla tavola, agitando in aria la mano sinistra con l'indice teso. Quelle mani vellose e magre, quel dito, quella voce profonda, quegli occhi fiammeggianti producevano un'impressione enorme.
Durante la via fatta con Nejdanow avea parlato poco: il fiele gli si accumulava dentro. Ora, ad un tratto, scoppiava.
Masciùrina e Ostrodumow approvavano col sorriso, con lo sguardo, spesso con una breve esclamazione.
In quanto a Nejdanow, una cosa strana gli accadde. Sulle prime tentò di muovere qualche obbiezione. Accennò ai pericoli della fretta, all'imprudenza di una qualunque azione intempestiva e inconsiderata. E come mai, tutto era così presto risoluto? Non c'erano più dubbi? incertezze? E non valeva meglio aver piena conoscenza delle circostanze, scandagliare gli animi, sapere che cosa veramente volesse il popolo?...
Ma poi, tutti i nervi gli si tesero come corde, e fremettero. Senza pur saperlo, quasi colto da subito furore, con le lagrime agli occhi, con la voce stridente, prese a parlare nello stesso spirito di Marchelow, e andò anche più oltre. Che impulso lo movesse, non si potea dire. Forse un incosciente rimorso per essersi un po' intiepidito negli ultimi tempi? forse un dispetto contro sè o contro gli altri? o il bisogno di soffocare un qualunque verme che lo rodesse dentro? ovvero il desiderio di affermarsi al cospetto degli emissari del partito?... Poteva anche darsi che le parole di Marchelow gli avessero acceso il sangue....
Durò il colloquio fino all'alba, Ostrodumow e Masciùrina sempre a sedere, Nejdanow e Marchelow in piedi, l'uno andando su e giù per la camera con passo concitato, l'altro ritto ed immobile come una sentinella. Si parlò delle misure da prendere, dei mezzi più efficaci, della parte che a ciascuno toccava. Si sciolsero e si scartarono vari pacchi di opuscoli e di fogli volanti. Si fece il nome di un tal Golusckine, mercante, uomo intelligente benchè incolto, e del giovane propagandista Chisliacow, istruito sì, ma troppo banderuola e tutto pieno di sè. Fu anche pronunciato il nome di Solomine.
— Chi è costui? — domandò Nejdanow. — Forse il direttore d'una filanda?
Si ricordava di quanto si era detto a tavola in casa di Sipiaghin.
— Proprio lui, — rispose Marchelow. — Bisognerà che vi conosciate. Ancora non lo abbiamo assaggiato; ma è uomo di proposito, dicono.
Tornò in iscena Geremia dei Galapliok. Vi si aggiunse un tal Cirillo, non che un Mendeleo, soprannominato Dutik. Su questo Dutik però non si potea troppo contare: coraggioso, quando era in sè, diventava un coniglio, se ubbriaco: e, pur troppo, era ubbriaco quasi sempre.
— E dei vostri che ne dite? — domandò Nejdanow. — C'è qualcuno su cui fare assegnamento?...
— Sì, c'era, — Marchelow rispose, — ma nessuno ne indicò per nome. Parlò invece dei borghesi e dei seminaristi, gente forzuta, capace di lavorar di pugni, che era un incanto!
— E i nobili?
— C'è n'è cinque o sei, fra i giovani,... uno anzi è tedesco... ed è anche il più radicale di tutti. Il guaio però è questo che dei tedeschi non c'è mica da fidarsi.... Al meglio, son capaci di ciarlare come donnicciuole, o di piantarti in asso. Bisognerà aspettare le informazioni raccolte da Chisliacow.
— E i militari? — insistette oltre Nejdanow.
Marchelow titubò, si tirò le lunghe fedine e dichiarò alla fine che non c'era niente, proprio niente.... a meno che Chisliacow non venisse a scoprire del nuovo.
— Ma chi è codesto Chisliacow? — esclamò Nejdanow impaziente.
Marchelow ebbe un sorriso significativo, e rispose che era un uomo... un uomo tale....
— Del resto, se v'ho da dir la verità, poco lo conosco: due sole volte l'ho visto.... Ma che lettere scrive, che lettere! Ve le mostrerò.... C'è del fuoco dentro, proprio! una cosa straordinaria! E che attività! Cinque o sei volte, ha attraversato in lungo e in largo tutta la Russia.... e da ogni paese subito una lettera di dieci pagine, di dodici.
Nejdanow si volse in atto interrogativo a Ostrodumow; ma questi se ne stava immobile, senza batter ciglio. Masciùrina, per suo conto, atteggiava le labbra ad un sorriso amaro, e pareva anch'essa colpita da mutismo, quasi un boccone le fosse andato di traverso.
Tentò allora Nejdanow d'interrogare Marchelow intorno alle riforme sociali, alle novità da introdurre nel sistema delle proprietà, dell'amministrazione, ma qui Ostrodumow credette opportuno d'immischiarsi.
— Che c'entra cotesto? Non bisogna attaccare il carro innanzi ai buoi. Tant'è! tutto va mutato da cima a fondo... dopo.
La conversazione fu riportata sul terreno politico.
L'intimo verme roditore seguitava a tormentare e mordere Nejdanow; ma quanto più il morso era profondo, tanto più si accalorava ed alzava la voce. Non avea tracannato che un sol bicchier di birra, eppure parevagli a momenti di essere ubbriaco, gli girava il capo, gli batteva dolorosamente il cuore. Quando alla fine, alle quattro del mattino, fu posto termine al convegno e gl'interlocutori, passando davanti al servo che dormiva in anticamera, si furono ritirati nelle camere rispettive, Nejdanow stette a lungo immobile, con gli occhi inchiodati a terra.
Che amarezza nelle parole di Marchelow! che rabbia costante! che oblìo di se stesso, per abbandonarsi tutto a quel che gli appariva una verità luminosa, incontrastabile! Eppure quell'uomo era stato ferito nell'amor proprio, quell'uomo avea visto rovinare ogni sua speranza!... Certo, era un'intelligenza limitata.... Ma non era cento volte meglio (pensava Nejdanow) esser limitato, anzi che simile ad un uomo... “come me, come io mi sento di essere?” Ma qui, d'improvviso, uno sdegno lo prendeva contro la propria umiliazione.
— Perchè poi? e che senso di avvilimento è questo?... Non son forse anch'io capace di sacrificio?... Aspettate, signori!... E tu, Paclin, ti persuaderai col tempo, che io, benchè sia un esteta, benchè scriva dei versi....
Si passò una mano nei capelli, digrignò i denti e, svestitosi in fretta, si gettò sul letto umido e freddo.
— Buona notte! — suonò di là la voce di Masciùrina. — Io son vostra vicina.
— Buon sonno! — rispose Nejdanow, e si ricordò nel tempo stesso che, durante tutto il colloquio, quella donna non avea cessato di guardarlo fisso.
— Che vuole? che pretende? — borbottò fra i denti con un senso di vergogna. — Ah! se potessi presto chiuder gli occhi al sonno!
Ma, quando si è nervosi, la cosa non è facile.... E già il sole era alto, quando gli riuscì finalmente di assopirsi in una specie di letargo morboso.
Si alzò con un violento mal di capo. Vestitosi e andato alla finestra, ebbe a notare che la proprietà di Marchelow non era punto una fattoria.
Sopra un'elevazione di terreno, non lontano dal bosco, sorgeva l'abitazione propria di lui. Da una parte, una piccola tettoia, la scuderia, la cantina e una capanna dal tetto di stoppia a metà rovinato; dall'altra, un laghetto, un orto minuscolo, una canapaia e una seconda capanna non meno sgangherata della prima; più lontano un forno, un'aia per battere il grano, un capannotto pei covoni (che non c'erano), ecco tutta la proprietà. Ogni cosa povera, muffita, e non già per abbandono o naturale selvatichezza, ma per mancanza di rigoglìo, come accade in ogni pianta che non prenda bene.
Nejdanow discese e trovò in camera da pranzo Masciùrina intenta a fare il tè, e che, a quanto pareva, lo aspettava. Seppe da lei che Ostrodumow s'era allontanato per affari nè prima di due settimane sarebbe di ritorno. Il padrone di casa era andato a bazzicar fra gli operai. Siccome il maggio volgeva al termine, così Marchelow avea pensato di tagliare coi mezzi di cui disponeva il boschetto di betulle, e fin dal mattino si era avviato verso quella parte.
Una strana stanchezza piombava sull'anima di Nejdanow. Si era tanto insistito sulla impossibilità di qualunque indugio, sulla necessità dell'azione immediata. Ma che sorta d'azione? e a che indirizzata?... A Masciùrina non era da far domande. In lei nessun dubbio, nessuna esitazione: sapeva soltanto di dover andare a C.***, e ci sarebbe andata. Non vedeva oltre.
Non trovando che cosa dirle, Nejdanow, bevuto che ebbe il tè, si pose il berretto e si avviò verso il bosco di betulle. Per via, s'imbattè in varii contadini, già di Marchelow, che portavano carichi di letame. Parlò con l'uno e con l'altro, ma non gli venne fatto di cavarne un gran costrutto.
Parevano anch'essi spossati, ma di una spossatezza fisica, abituale, affatto differente da quel sentimento che agitava lui. Il loro antico padrone, a sentirli, era un buon diavolaccio, semplice e un po' fantastico; prima o dopo, non gli potea mancare di andare a gambe all'aria; non conosceva il sistema; facea di capo suo, senza rispetto a quel che i nonni avean fatto; volta e gira, cantava sempre la stessa antifona. A momenti, parlava anche come un libro stampato; ma chi lo capiva era bravo! Per buono, era buono, e anche troppo davvero!
Nejdanow andò oltre e incontrò lo stesso Marchelow.
Veniva avanti, circondato da una turba di lavoratori. Si capiva dai gesti che andava loro esponendo e spiegando qualche cosa. Poi, di botto, tagliava corto, con l'atto energico e disperato di chi mandi al diavolo ogni cosa. Gli camminava a fianco il suo intendente, un omiciattolo mingherlino e miope, il quale badava solo a ripetere: “Signor sì! come volete!” con grande irritazione del padrone, che si aspettava da lui più energia, più spirito d'iniziativa.
Nejdanow si accostò a Marchelow, e gli lesse in volto un'espressione di stanchezza morale non dissimile dalla propria.
Si salutarono. Marchelow prese subito a discorrere, brevemente però, delle questioni della sera innanzi, della rivoluzione imminente, dell'alba d'un nuovo giorno.... Ma non per questo, la stanchezza gli si cancellava dal viso.
Era polveroso, sudato, anelante, rauco, coi vestiti irti di fili di paglia, di erba, di sverze. Tutti intorno a lui stavano muti, tra spauriti e beffardi....
Nejdanow guardò fisso a Marchelow, e le parole di Ostrodumow gli tornarono a mente: “Tant'è! tutto va mutato.... dopo!”
Uno dei lavoratori, punito per una certa mancanza, incominciò a pregare Marchelow che gli condonasse l'ammenda.... Marchelow andò in furia, gridò come un indemoniato, e finì col perdonare.... “Tant'è! tutto va mutato.... dopo!”
Nejdanow gli rammentò esser tempo di rifar la strada fino a casa del signor Sipiaghin, e lo pregò della carrozza e dei cavalli. Benchè stupisse di un tal desiderio, Marchelow rispose che subito lo avrebbe servito.
Tornarono poi insieme, e questi, nell'andare, barcollava come ebbro.
— Che avete? — domandò Nejdanow.
— Non ne posso più! — esclamò l'altro con un grido ferino. — Hai un bel comandare, spiegare, spolmonarti.... Non si scrollano, non capiscono niente.... nemmeno le più semplici parole! Parlo loro di azione concorde, di terreno comune, d'interesse capitale per tutti, e si figurano, maledetti, ch'io voglia concordare non so che patto, e distribuire fra tutti gli interessi di un capitale, e dare a ciascuno di loro un pezzo di terreno! C'è da dannarsi, ve lo giuro!
S'era sforzato in tutti i modi di spiegare ai contadini il principio dell'associazione e d'introdurlo anche nel proprio podere. Tutto inutile. Crollavano il capo, con la testardaggine propria di chi non capisce. Uno di loro aveva anzi detto a questo proposito: “La buca era profonda: ma adesso non c'è più da sapere dove finisca!” E tutti gli altri avean sospirato, con grande irritazione di Marchelow.
Entrato in casa, accomiatò il seguito e si diè attorno per fare attaccare i cavalli.
Tutta la sua servitù componevasi di un piccolo domestico, la cuoca, il cocchiere e un vecchio decrepito dalle orecchie vellose, con indosso un gabbano che gli scendeva fino ai talloni. Era stato cameriere di suo nonno, nè altro faceva, o potea fare, che guardare al padrone con occhi imbambolati, standosene accoccolato sopra uno sgabello.
Dopo essersi rifocillati di uova sode, sardine e carne rifredda (la mostarda fu servita in un vecchio vasetto di pomata e l'aceto in una boccetta di acqua di Colonia), Nejdanow prese posto nello stesso tarantas del giorno avanti, cui erano stati attaccati due cavalli invece di tre: il terzo, ferrato di fresco, s'era azzoppato.
Durante la colazione, Marchelow parlò poco, non toccò quasi niente, non fece che soffiare.... Accennò appena alla sua proprietà, al sistema di amministrazione, e tornò a fare un gesto di sconforto.... “Tant'è! tutto va mutato... dopo!”
Masciùrina pregò Nejdanow di accompagnarla fino in città, dove le bisognava far delle spese.
— Per tornare, me la farò a piedi. Se mai, troverò sempre un carretto e un brav'uomo che mi pigli su.
Riconducendoli fino alla scala, Marchelow ricordò che tra non guari avrebbe di nuovo mandato a chiamare Nejdanow; e allora... allora... (si riscosse, così dicendo, e si raddrizzò); allora si sarebbero presi gli accordi definitivi; anche Solomine sarebbe venuto; aspettarsi solo notizie da Basilio Nicolaevic; non altro; tacere ed agire; agire soprattutto, risoluti e pronti, poichè il popolo (quel medesimo popolo che scambiava il capitale interesse per gl'interessi di un capitale) non tollerava altri indugi!
— A proposito, — domandò Nejdanow; — volevate mostrarmi le lettere di quel tale... come si chiama?... Chisliacow, mi pare.
— Dopo... dopo, — rispose frettoloso Marchelow. — Una cosa alla volta.
Il tarantas si mosse.
— Tenetevi pronti! — suonò per l'ultima volta la voce di Marchelow.
Ritto sulla scala, li seguiva con gli occhi. Gli stava a fianco, curvo, con le mani dietro la schiena, tutto avvolto nel suo lungo gabbano, sordo come una campana, il servo dei servi, il decrepito cameriere del nonno.
Fino alla città, Masciùrina non aprì bocca e fumò sigarette. Avvicinandosi alla barriera, trasse ad un tratto un profondo sospiro.
— Mi dispiace per Marchelow, — disse, facendosi scura in viso.
— S'è così impigliato in tanti affari arruffati, — notò Nejdanow; — mi pare che il podere non gli vada bene.
— Non è per questo che mi dispiace.
— E perchè?
— È un disgraziato, non ha fortuna!... Niente gli riesce!
Nejdanow la guardò fisso.
— Sapete forse qualche cosa?
— Niente so... ma certe cose s'indovinano. Addio, Nejdanow!
Smontò dal tarantas e un'ora dopo Nejdanow rientrava nel cortile della villa di Sipiaghin.
Non si sentiva troppo bene. Una notte insonne... e poi tutti quei discorsi... quella gente... il viaggio stesso... Masciùrina.
Un grazioso visino si sporse da una finestra e gli sorrise amichevole.
Era la signora Valentina che gli dava il ben tornato.
— Che occhi ha costei! — pensò Nejdanow.
XII.
A pranzo si fu in molti; e dopo, giovandosi dell'affaccendarsi dei convitati, Nejdanow sgusciò non visto in camera sua. La solitudine gli era indispensabile, non foss'altro che per mettere un po' d'ordine nelle varie impressioni riportate dal viaggio.
Più volte, a tavola, la signora Valentina s'era volta dalla sua parte, senza però riuscire a parlar con lui. In quanto a Marianna, dopo la sua famosa uscita, pareva si studiasse di evitarlo.
Nejdanow prese la penna, mosso dal desiderio di discorrere con l'amico Siline; ma non trovò che cosa dirgli. Tanti pensieri opposti, tante sensazioni gli turbinavano dentro, ch'ei non tentò nemmeno di strigar la matassa, e rimandò ogni cosa a miglior tempo.
Nel numero dei commensali c'era anche stato il signor Colomeizew, più che mai sprezzante e altezzoso; ma i discorsi scuciti del vuoto gentiluomo non avean fatto alcuna impressione sull'animo di Nejdanow. Una nube ora lo circondava, stendendo come una tenda scura tra lui e il resto del mondo.... E, strana cosa! attraverso quella tenda tre sole figure gli si mostravano, e tutte e tre di donne.... E tutte e tre lo fissavano con occhi intenti.... Erano la Sipiaghin, Masciùrina, e Marianna. Che volea dir ciò? e perchè proprio quelle tre donne? e che aveano esse di comune? e che mai volevano da lui?...
Si gettò a letto di buon'ora, ma non potè chiuder occhio. Lo assalivano foschi pensieri, non già tristi ma soltanto nebulosi, della fine inevitabile, della morte. Ben gli erano famigliari cotesti pensieri. Molte e molte volte vi si era fermato, ora rabbrividendo davanti alla possibilità del nulla, ora quasi invocandola con gioconda impazienza....
Fu preso alla fine da una speciale commozione, cui non era nuovo.... Si alzò, andò a sedere alla scrivania e, stato un momento pensoso, gettò sulla carta, quasi senza cancellature e pentimenti, i versi che seguono. Scrivendo, li declamava, quasi li andasse dettando a sè stesso:
Eccoti dell'amico il testamento:
Gli scritti miei di prosa e poesia
Brucia all'istante e sian dispersi al vento.
Ridano intorno alla mia salma i fior';
Fa che in tutta la casa entrino a stuolo
Siccome a festa i lieti suonator'.
Ma quando suoni l'ora del banchetto
Balzi e folleggi un valzer spudorato
Sotto i frementi colpi dell'archetto.
Di quelle corde il fremito giocondo;
Ed io stesso morrò, serenamente,
Chiudendo gli occhi ad un sonno profondo.
All'ignoto n'andrò mondo di là,
Mentre l'eco leggier mi andrà cullando
Della lieve più ancor gioia di qua!
Scrivendo la parola amico, pensava appunto a Siline.... Ma come mai quello scetticismo, quell'indifferenza, quella incredulità spensierata, come mai si accordavano coi suoi principii? con quanto avea detto e predicato in casa di Marchelow?...
Gettò il foglio scribacchiato nel cassetto della scrivania, e tornò a letto. Ma non si addormentò che verso il mattino, quando già nell'aria grigia trillavano le prime lodolette.
Il giorno appresso, aveva appena terminato la lezione e si tratteneva nella sala del bigliardo, quando la signora Sipiaghin entrò, girò intorno gli occhi, e avvicinatasi a lui, lo invitò a seguirla nel suo gabinetto.
Indossava una leggerissima veste velata, molto semplice e molto graziosa. Le maniche, ornate di merletti a riccio, arrivavano appena sino al gomito: un largo nastro le cingeva la vita; i capelli le cadevano in folte treccie sul collo. Tutto in lei spirava una gentilezza benevolente, una carezza tra riservata e incoraggiante, – tutto: lo splendor temperato degli occhi semichiusi, il langúore molle della voce, degli atti, dell'incesso.
Il gabinetto, nel quale condusse Nejdanow, era elegantissimo, acconcio, impregnato di esalazioni acute di fiori e di profumi, della freschezza delle vesti muliebri, della presenza assidua di una donna.
La signora Sipiaghin, sedutasi a un divanetto, pregò Nejdanow di sederle accanto, e subito prese ad interrogarlo del viaggio, della casa di Marchelow, delle persone vedute, ma con tanto riguardo, con tanta graziosa timidezza! Per la sorte del fratello dimostrava la più viva sollecitudine, benchè di lui non avesse prima d'allora accennato in presenza di Nejdanow. Da altre parole, dette per caso, si capiva non esserle sfuggito il sentimento che Marianna gli aveva inspirato. Ne era, in verità, un po' afflitta; sia perchè Marianna non avea corrisposto a quel sentimento, sia perchè la scelta del fratello era caduta sopra una ragazza, tanto da lui diversa, tanto, per dir così, estranea....
Ingegnavasi, evidentemente, di guadagnarsi la fiducia di Nejdanow, di addomesticarlo, di persuaderlo ad essere un po' meno selvaggio. Arrivò perfino a dolersi che egli poco la conoscesse, che di lei si fosse fatta una falsa opinione.
Nejdanow l'ascoltava intento, ora guardandole le braccia tornite, ora le spalle biancheggianti attraverso il velo; tratto tratto gettava un'occhiata a quelle sue labbra rosee, alle ciocche ondeggianti appena dei finissimi capelli. Sulle prime, rispose brevi parole; sentiva una certa oppressura alla gola e al petto.... Ma, a poco a poco, a questa sensazione un'altra ne sottentrò, sempre inquieta ma non priva di una certa dolcezza.... Non si sarebbe mai aspettato che una dama del gran mondo così bella, così aristocratica, prendesse tanto interesse per lui, semplice studente: e questo interesse, per giunta, aveva anche una sfumatura di civetteria.
Perchè tutto questo?... Non era facile trovar la risposta, senza dire che ben poco premeva a lui di trovarla....
La signora Sipiaghin prese anche a parlar del figliuoletto; affermò anzi di aver desiderato una maggior dimestichezza col maestro, proprio per discorrere insieme del grave argomento, e in genere per conoscere le idee di lui intorno all'educazione dei fanciulli in un paese come la Russia. Certo, poteva sembrare un po' strana la subitaneità di un siffatto desiderio.... Ma fatto sta che le parole non traducevano fedelmente il pensiero che la moveva dentro.... Era stata presa, forse senza saperlo, da una certa debolezza sentimentale; avea provato l'imperioso bisogno di domare, di veder prona ai suoi piedi quella giovane testa ribelle....
Ma qui ci conviene ritornare indietro di qualche passo.
La signora Valentina era figlia di un generale, molto limitato e non troppo valoroso, decorato dell'unica medaglia per servizio compiuto di cinquant'anni, – e di una donna astuta e intrigante della piccola Russia, dotata, come gran parte delle sue compatriotte, di una fisonomia semplice, poco meno che balorda, dalla quale sapea cavare tutta la possibile utilità. Marito e moglie eran tutt'altro che ricchi; riuscirono nondimeno a fare entrar la figliuola nel monastero di Smolna. La tenevano lì in conto di repubblicana, ma la vedevano di buon occhio e ne avean buona cura, perchè distinguevasi fra le educande per assiduità allo studio e contegno corretto.
Uscita dal monastero, la ragazza era andata a star con la madre (il fratello s'era ritirato in campagna, il padre decorato era morto), in un grazioso quartierino, dove però si battevano i denti dal freddo; quando vi si parlava, si vedeva perfino il vapore che usciva dalle labbra.... La piccola Valentina ne rideva e diceva che le pareva così di stare in chiesa. Sostenne da brava tutte le privazioni e i disagi di una vita povera, tanto era serena e imperturbabile di carattere.
Con l'aiuto della madre, era riuscita a far delle conoscenze e a mantener vive parecchie relazioni. Parlavasi di lei anche nelle alte sfere, come di una fanciulla molto carina, molto bene educata, ed anche molto conveniente, a modo. Non le mancarono, naturalmente, corteggiatori e pretendenti. Scelse, fra tutti, il signor Sipiaghin, seppe innamorarlo con arte, con rapidità, nel più semplice modo di questo mondo....
Egli stesso, del resto, si accorse di lì a poco che una più perfetta moglie non c'era da trovarla. Intelligente, non cattiva, buona anzi che no, fredda in fondo e indifferente; non ammetteva però la possibilità che altri rimanesse indifferente verso di lei.
Era compenetrata di quella grazia speciale, che è propria di tutti i buoni egoisti; in cotesta grazia non c'è poesia, non c'è vera sensibilità; ma c'è invece non so che d'insinuante, di simpatico, perfino di carezzevole e di tenero. Soltanto, non è prudente attraversar la via a cotesti buoni egoisti: amanti di dominare, non tollerano in altri l'opposizione o la semplice indipendenza. Le donne, come la Sipiaghin, commovono e mettono in agitazione le persone sensibili e inesperte; per proprio conto, però, amano la regolarità e la quiete della vita. La virtù riesce loro agevole, per dato e fatto della loro impassibilità; se non che l'assiduo desiderio di dominare, di sedurre, di piacere, conferisce loro vivacità e movimento. Hanno volontà forte; e in gran parte la loro seduzione dipende appunto da cotesta forza volitiva. È assai difficile che un uomo resista, quando in una di coteste creature luminose e immacolate si accendono e brillano scintille fuggevoli che paiono sprigionarsi da un intimo fuoco incosciente. Si aspetta trepidanti che l'ora suoni, in cui il ghiaccio si sciolga; ma il ghiaccio, terso e brillante, non fa che scherzare coi raggi del sole, e non si scioglie e non si screpola giammai!
Alla signora Sipiaghin poco costava il civettare, ben sapendo ella di non poter correre pericolo di sorte. Ma, intanto, far languire o brillare a volta a volta gli occhi di un altro, vedere le guancie accese di desiderio e di trepidazione, udir tremare l'altrui voce, portare un profondo turbamento in un'anima, oh! quanta dolcezza arrecava tutto questo all'anima di lei! Che piacere ricordarsi a tarda sera, mettendosi a giacere nel casto letto, per goder d'un sonno indisturbato, che piacere ricordarsi di tutte quelle parole commosse, di quegli sguardi, di quei sospiri!
Con che sorriso soddisfatto raccoglievasi ella in sè stessa, nella sicura coscienza della propria inaccessibilità, ovvero abbandonavasi condiscendente alle legittime carezze del nobile suo sposo! Era, in verità, così grato questo godimento, che a volte se ne sentiva intenerita, ed era anche pronta a fare una buona azione, ed aiutare il prossimo.... Una volta, per esempio, avea fondato un piccolo ospizio, dopo che il segretario d'un consolato, invaghitosi di lei pazzamente, avea tentato di togliersi la vita! Con tutto il cuore, con tutta la sincerità aveva anche pregato per lui, benchè fin dai primi anni il sentimento religioso fosse in lei molto fiacco.
Così dunque seguitava a discorrere con Nejdanow, e non lasciava mezzo intentato per conquistarlo ed assoggettarselo.
Gli si mostrava confidente, tutta intimità, e andava osservando, con ingenua curiosità, con tenerezza quasi materna, come quel giovinotto radicale, non brutto, interessante e severo, a poco a poco e senza avvedersene, le venisse incontro e le si abbandonasse.
Un giorno, un'ora, un minuto dopo, tutto ciò sarebbesi dileguato senza lasciar traccia; ma, pel momento, un certo senso la solleticava misto di piacere, di celia, di irritazione, e anche di malinconia.
Dimenticando l'origine di lui, e sapendo come certe attenzioni sono apprezzate dalle persone isolate, schive un po' della gente, la signora Valentina prese a interrogar Nejdanow dei suoi primi anni, della famiglia.... Ma, subito accortasi dalle risposte brevi e turbate di lui, di aver commesso una svista, si sforzò di riparare al mal fatto, lasciandosi andare ad una sincerità ancora più franca, più affettuosa di prima.
Così nella caldura opprimente di un pomeriggio estivo, apre una rosa i suoi petali profumati, che ben presto si stringeranno in groppo involti nell'ombra amica e nel fresco vivificante della notte.
Non però le venne fatto di cancellar del tutto la sbadataggine commessa. Punto nel vivo della piaga, Nejdanow divenne ad un tratto diffidente. Quell'amarezza, che sempre si sentiva in fondo all'anima, fu come agitata; si ridestarono i sospetti democratici e i rimproveri.
— Non è per questo che venni qui! — gli balenò alla mente; e insieme gli suonavano all'orecchio le beffarde raccomandazioni di Paclin....
Cogliendo il primo istante di silenzio, si alzò, fece un breve inchino, e uscì molto stupidamente, come egli stesso sussurrò fra i denti.
Quel suo turbamento non potea sfuggire alla signora Valentina.... Ma, a giudicar dal sorriso che le sfiorava le labbra mentre con gli occhi seguiva il suo giovane interlocutore, quel turbamento veniva da lei interpretato in modo non disfavorevole alla propria persona.
Traversando la sala del bigliardo, Nejdanow vi trovò Marianna. Stava con le spalle alla finestra, non lontana dalla porta del gabinetto, ed avea le braccia strettamente incrociate al petto. Il viso era tutto in ombra; ma così insistenti, così supplici gli arditi occhi di lei si fissavano in Nejdanow, tanto disprezzo, tanta angosciosa compassione esprimevano le labbra serrate, che egli si arrestò incerto....
— Volete voi forse dirmi qualche cosa? — domandò mal suo grado.
Marianna non rispose subito.
— No.... o piuttosto sì: voglio. Ma non adesso.
— Quando dunque?
— Aspettate. Domani forse.... o anche, mai! Vi conosco appena, non so che uomo siate!
— Eppure, — osò dire Nejdanow, — m'era sembrato di notare che.... fra voi e me....
— No, — interruppe Marianna; — nemmeno voi conoscete me. Aspettate, vi dico. Può darsi che sia per domani. Adesso debbo andare dalla mia.... padrona. A domani dunque.
Nejdanow fece due passi per allontanarsi, ma subito tornò indietro.
— A proposito! io volevo sempre domandarvi: permettereste che un giorno venga con voi a visitar la scuola.... per vederne un po' l'andamento, prima che la si chiuda?
— Volentieri.... Soltanto non è già della scuola ch'io volevo parlarvi.
— E di che?
— A domani, — ripetette Marianna.
Ma, infatti, non aspettò fino al domani. Il colloquio desiderato avvenne la sera stessa, verso il tramonto, in uno dei viali di tigli, che cominciava non molto lungi dalla terrazza.
XIII.
Fu prima Marianna ad avanzarsi verso Nejdanow.
— Signor Nejdanow, — cominciò con voce concitata, — voi, a quanto pare, siete affatto preso di Valentina mia zia?
Senza aspettar la risposta, voltò le spalle e si inoltrò nel viale. Egli la seguì, e in un momento le fu accanto.
— Perchè lo pensate? — domandò dopo un poco.
— Non è forse vero?... In tal caso, vuol dire che oggi avrà condotto male i suoi attacchi. Mi figuro che sollecitudini, che smancerie, e con che arte ha teso le sue reti!
Nejdanow non disse verbo, limitandosi a guardar di lato alla sua bizzarra interlocutrice.
— Sentite, — proseguì costei; — non serve ch'io mi perda in ipocrisie. Io non posso vedere Valentina.... e voi lo sapete benissimo. Forse vi sembrerò ingiusta.... ma pensate prima, vi prego....
La voce le venne meno. Arrossì fino alla fronte.... L'agitazione in lei prendeva sempre un certo carattere di sdegno.
— Voi forse domanderete a voi stesso, — riprese a dire, — perchè mai questa signorina mi viene a contar tutto questo? Molto probabilmente, avrete pensato qualche cosa di simile, quando vi comunicai la notizia.... sul conto del signor Marchelow.
Si chinò ad un tratto, strappò un piccolo fungo, lo spezzò in due e lo buttò via.
— Voi v'ingannate, signorina Marianna, — rispose Nejdanow; — io pensai invece di avervi inspirata una certa fiducia.... E questo pensiero, non ve lo nascondo, mi era assai gradito.
Non era vero. Quel pensiero non gli veniva che adesso.
Marianna si volse a guardarlo; sin allora avea sempre girata la testa in là.
— Non è già che mi aveste inspirato fiducia, — rispose poi pensandoci sopra, — siete un estraneo, in fondo. Ma la vostra posizione.... e la mia... si somigliano molto. Tutti e due siamo allo stesso modo infelici. Ecco il legame che ci unisce.
— Voi siete infelice? — domandò Nejdanow.
— E voi forse no? — ribattè Marianna.
Egli tacque.
— Conoscete voi la mia storia? — riprese ella a dire con vivacità; — la storia di mio padre?... il suo esilio?... no? Ebbene, sappiate ch'egli fu sottoposto a giudizio, trovato colpevole, privato del grado.... di tutto.... e mandato in Siberia. Poi morì; e poi.... perdetti anche mia madre. Il signor Sipiaghin, mio zio, fratello di mia madre, ebbe cura di me, mi accolse, mi dà da vivere.... è insomma il mio benefattore.... Naturalmente, Valentina è la mia benefattrice.... Ed io li ripago della più nera ingratitudine, forse perchè, si vede, non ho cuore, e il pane altrui mi sa d'amaro, e non posso soffrire l'oltraggio dell'indulgenza e della protezione.... e non so fingere e quando mi si ferisce continuamente a colpi di spillo, sol per questo non grido, perchè sono orgogliosa!
Pronunciando queste frasi concitate, quasi a brani, camminava con passo sempre più rapido.
Di botto, si fermò.
— Sapete voi che mia zia, sol per disfarsi di me, mi destina a quell'orribile signor Colomeizew?... E badate che le sono ben noti i miei principii.... Agli occhi di lei, figuratevi, passo per nichilista.... E lui invece! Io, beninteso, non gli piaccio.... Io so di non esser bella.... ma si può vendermi però. Anche questa è un'opera pia!
— Ma perchè voi, — cominciò a dire Nejdanow, ma s'arrestò in tronco.
Marianna gli volse una rapida occhiata.
— Perchè, volete dire, non ho accettato l'offerta del signor Marchelow? Non è così?... Ebbene, che vi ho da dire.... È un uomo eccellente.... Ma io non ci ho colpa.... Non l'amo, ecco!
Tornò a correre avanti, quasi desiderando di liberare il suo interlocutore dall'obbligo di una risposta a quella inattesa confessione. Arrivarono insieme in fondo al viale.
Marianna voltò in fretta per uno stretto sentiero, che attraversava un folto di abeti, e andò oltre. Nejdanow la seguì.
Due strani dubbii lo tormentavano. Come mai quella selvaggia fanciulla gli si mostrava ad un tratto così confidente? E perchè poi quella franchezza, non che sorprenderlo, gli sembrava a lui naturalissima?...
Marianna si arrestò di botto, e stette ritta nel mezzo del sentiero, tanto che il viso di lei era poco discosto da quello di Nejdanow e gli occhi gli s'inchiodavano diritti negli occhi.
— Signor Nejdanow, — disse, — non pensate che mia zia sia cattiva.... No!... Ma, vedete, essa è tutta impastata di menzogna, è una commediante, una donna astuta, vana.... Pretende che tutti l'adorino come una bellezza, e che le si prosternino ai piedi come ad una santa! Le viene in testa una parola affettuosa, e la dice ad uno, la ripete ad un secondo e ad un terzo, e sempre come se quella parola l'avesse trovata lì per lì, e l'accompagna col solito giuoco dei suoi begli occhi!... Si conosce bene, sapete; rassomiglia, dice, a non so che Madonna; non ama nessuno!... Fa le viste di esser tutta sollecita del piccino, ma non fa altro in effetto che parlarne con le persone più intelligenti. Del male non ne vuole a nessuno, questo no, mai.... È tutta benevolenza.... Ma se in presenza sua vi si rompono le ossa, vi so dir io che non se n'accorge nemmeno.... Non moverebbe un dito, per salvarvi; e se occorre, se le torna di vantaggio.... allora.... o allora!...
Tacque. La bile la soffocava. S'era lasciata andare ad un impeto irresistibile e, mal suo grado, la parola le falliva.
Apparteneva Marianna a quella speciale categoria di esseri infelici (assai spesso accade d'incontrarne in Russia), ai quali la giustizia è motivo di soddisfazione, ma non di gioia, e che la minima ingiustizia sconvolge fino alle più intime latebre. E dell'ingiustizia hanno il fiuto pronto, sensibile.
Mentre parlava, Nejdanow la guardava intento: quel viso infocato, quei corti capelli arruffati, quel tremito lieve delle labbra sottili, costituivano un complesso che gli pareva minaccioso, pieno di pensiero, attraente. La luce del sole, intercettata dalla fitta rete dei rami, le metteva sulla fronte un riflesso dorato; e quella lingua di fuoco rialzava mirabilmente l'espressione febbrile di tutto il viso, degli occhi sbarrati e luccicanti, della voce stridula e commossa.
— Ditemi, — domandò Nejdanow alla fine, — perchè avete detto che io sono infelice? Vi è forse noto il mio passato?
Marianna accennò col capo.
— Sì.
— Cioè... in che modo vi è noto? Vi ha parlato qualcheduno di me?
— Mi è nota.... la vostra origine.
— Vi è nota?... E chi ve l'ha detta?
— Sempre lei, s'intende, sempre Valentina, della quale siete così infatuato. Non si lasciò sfuggire l'occasione davanti a me, così di sfuggita, non già con un senso di dispiacere ma come una vera libera pensatrice superiore a tutti i pregiudizi, di dire, pur troppo, un “vedete un po' che strano evento esiste nella vita del nostro caro precettore”! Non stupite, vi prego. Allo stesso modo, sempre di sfuggita, Valentina informa a malincuore il primo che ci venga in casa: “vedete un po' che strano evento nella vita di mia nipote.... Il padre, convinto di peculato, fu esiliato in Siberia!” Oh! per aristocratica che si tenga, vi assicuro che la vostra Madonna raffaellesca non è che una volgarissima pettegola!
— La mia? ma perchè mia? non capisco, — osservò Nejdanow.
Marianna si voltò in là e seguitò a camminare.
— Avete avuto insieme un colloquio interminabile, — disse con voce sorda.
— Io non ho quasi aperto bocca, — rispose Nejdanow; — sono stato sempre ad ascoltare.
Marianna andò oltre in silenzio.
Ad un tratto, il sentiero faceva un gomito, il boschetto si apriva e dava sopra un piccolo piazzale con in mezzo un'annosa betulla, intorno al cui tronco squarciato arrotondavasi un sedile di legno.
Marianna sedette, e Nejdanow accanto. Pendevano loro sul capo i lunghi rami ricurvi, ricchi di foglioline verdi. Tutt'intorno, in mezzo all'umida erba, biancheggiavano i mughetti. Una fragranza spandevasi per l'aria, che aspiravasi come un ristoro dopo le esalazioni resinose dei pini.
— Voi volete venir con me a visitare la scuola di qua, — cominciò Marianna. — Ebbene, andiamo. Soltanto.... non so. Non credo che ci troverete gran piacere. Avete già udito che il nostro maestro direttore è il diacono. Brav'uomo, senza dubbio; ma non vi figurereste mai di che cosa discorra con gli scolari! C'è fra questi un ragazzo, un tal Garass, un povero orfanello di appena nove anni, ed è il più bravo di tutti!
Mutando argomento, pareva ella stessa mutata. Pallida, tranquilla, non esprimeva in viso che una specie di pentimento, di mortificazione, per quanto avea detto. Si studiava di trascinare il suo interlocutore in una qualunque questione, scolastica, agraria, pur di non continuare nel soggetto di prima.
Ma, in quel momento, egli non si sentiva disposto a trattar questioni, per interessanti che fossero.
— Signorina Marianna, — disse, — vi parlerò franco: io non mi aspettavo punto.... a quanto fra noi è accaduto...
Ella parve ascoltare con più attenzione.
— Mi sembra che si sia diventati, in un sol momento, molto.... molto amici. Così, del resto, doveva accadere. C'intendevamo da un pezzo, benchè tacessimo. Epperò, io vi parlerò senza riserbo. Questa casa vi è insopportabile, ma vostro zio, benchè limitato, mi pare in fondo un brav'uomo – non intende forse vostro zio la posizione vostra? non prende egli le vostre parti?
— Mio zio? Prima di tutto, mio zio non è un uomo, ma un'autorità.... senatore o ministro o altro che si voglia. In secondo luogo, non mi piace lamentarmi a vuoto nè calunniar la gente: non è vero che questa casa mi sia insopportabile; nessuno qui mi opprime; le piccole punture di mia zia non mi fanno niente in sostanza.... Io sono completamente libera, padrona di me stessa.
Nejdanow la guardò stupito.
— In tal caso, tutto quel che testè mi diceste....
— Potete ridere di me quanto vi piace.... Ma il fatto è che se io sono infelice, non è già per me, capite.... Mi sembra a momenti di soffrire per tutti i poveri oppressi, per quanti piangono sulle terre di Russia.... cioè no, non soffro.... mi sdegno per loro, mi ribello, sarei pronta a sacrificarmi, a dar la vita.... Sono infelice, perchè sono una fanciulla, una parassita, e nulla posso, e nulla so fare! Quando mio padre era in Siberia, ed io con la mamma eravamo rimaste a Mosca.... oh! come anelavo di raggiungerlo!... e non già perchè molto lo amassi o lo stimassi, no; ma mi struggevo dalla voglia di toccar con mano, di veder con gli occhi propri, come vivono gli esuli, i deportati.... E che rabbia mi rodeva contro di me stessa, contro tutta questa gente tranquilla, benestante, sazia!... E poi, quando tornò, rotto, accasciato.... e incominciò ad umiliarsi, a darsi attorno, a cercar protezioni.... ah!... che pena! che strazio! Come fece bene a morire.... e la mamma anche! Ed ecco.... io sopravvissi, io.... Perchè?... per sentire di avere un pessimo carattere, di essere un'ingrata, una creatura che non s'accorda con nessuno, e che nulla, nulla posso, nè per una idea, nè per un essere umano, nè per niente!
Si abbandonò come spossata e lasciò cadere una mano sul sedile. Mosso a schietta pietà, Nejdanow mostrò la sua commozione.... ma subito Marianna si ricompose più rudemente in viso, perchè egli, Dio liberi! non la sospettasse capace di sollecitar compassione.
Fra i rami degli alberi biancheggiò di lontano una veste di donna.
Marianna si raddrizzò.
— Guardate laggiù... La vostra Madonna manda attorno le sue spie. Quella cameriera è incaricata di sorvegliarmi, e di riferire alla sua padrona dove vado e con chi!... Probabilmente, la zia ha immaginato che ero in compagnia vostra.... e trova la cosa sconveniente.... specialmente dopo la scena sentimentale da lei recitata con voi. Ma.... infatti, è tempo di tornare. Andiamo.
Si alzarono insieme. Ella lo guardò, volgendo un po' il capo, e sul viso le passò un'espressione quasi infantile, graziosa, un po' turbata.
— Non siete in collera con me?... Non penserete, spero, che abbia anch'io voluto posare?... No, voi non lo pensate.... non serve che rispondiate. In fondo, siete come me, infelice.... ed avete anche un carattere.... cattivo, come il mio. Domani, andremo insieme alla scuola, perchè adesso siamo buoni amici, non è vero?
Quando si avvicinarono alla casa, la signora Valentina li sbirciò con la lente, dall'alto della terrazza, e col solito suo sorriso benigno crollò pianamente la testa.
Rientrando poi attraverso la vetrata in salotto, dove già Sipiaghin faceva la sua partitina col vicino dal soprabito lungo venuto a prendere un sorso di tè, disse forte e con voce stanca, staccando bene le sillabe:
— Che umido fuori! Non può far che male....
Marianna e Nejdanow scambiarono un'occhiata; e Sipiaghin, che appunto avea dato la rivincita al suo compagno di giuoco, volse alla moglie uno sguardo in su e di traverso, proprio ministeriale, e poi girò lo stesso sguardo tranquillo, assonnato, ma penetrante, verso la giovane coppia che rientrava dal giardino.
XIV.
Due settimane ancora passarono.
Tutto andava per la sua china. Il signor Sipiaghin sbrigava i suoi affari quotidiani di ufficio, se non come ministro, in qualità di Direttore del Dipartimento, e serbava sempre il medesimo contegno altero, affabile, un po' noncurante. Nicoletto faceva le sue lezioni. Anna Zacharowna si rodeva di stizza compressa. Arrivarono conoscenti ed amici, discorrevano, giocavano a carte, e sembravano non seccarsi.
Valentina Sipiaghin seguitava a civettare con Nejdanow, benchè nella sua amabilità si mescolasse ora un certo senso di bonaria ironia.
Con Marianna, Nejdanow era entrato oramai in termini di sincera amicizia. Trovava in lei, con non poca sorpresa, una sufficiente eguaglianza di carattere. Di tutto le si potea parlare, senza pericolo di urtare in troppo recise contraddizioni. Insieme con lei due volte aveva visitato la scuola, ma fin dalla prima visita s'era persuaso che lì non c'era da far nulla. Il padre diacono vi spadroneggiava, per mandato e volontà del signor Sipiaghin.
Questo padre diacono era un mediocre insegnante elementare, benchè del vecchio stampo e ligio ai vecchi sistemi. Agli esami però tirava fuori delle domande abbastanza bisbetiche.
Una volta, per esempio, avea chiesto a Garass:
— Come si spiega l'espressione biblica: l'acqua scura nelle nuvole?
Al che Garass, secondo le istruzioni dello stesso padre diacono, dovea rispondere:
— Questo è inesplicabile.
Del resto, la scuola si chiuse di lì a poco, per le vacanze estive, e non si sarebbe riaperta che in autunno.
Memore delle raccomandazioni di Paclin e degli altri, Nejdanow fece anche vari tentativi per entrare in rapporti coi contadini; ma in breve ebbe ad accorgersi che la più accurata osservazione non equivaleva a una propaganda, e non conduceva a niente di concludente.
Vissuto quasi sempre in città, tra lui e la gente di campagna esisteva un abisso, che in nessun modo gli riusciva di varcare.
Gli era accaduto di barattar varie parole con Cirillo il beone, ed anche con Gabriele Dutik. Ma – strana cosa! – s'era sentito come impacciato in presenza loro, poco men che timido, nè altro avea potuto cavarne che delle parolacce e dei moccoli.
Un altro contadino, per nome Fituiew, lo fece addirittura restar di sasso. Aveva una faccia straordinariamente energica, quasi brigantesca.... “Ecco il fatto mio!” aveva subito pensato Nejdanow. Ed invece cotesto Fituiew s'era rivelato per un bietolone, al quale la comunità avea tolto il suo pezzo di terra, poichè, con tutta la sua salute e i suoi muscoli, non poteva lavorare.
— Non posso! non posso — gemeva lo stesso Fituiew con un profondo sospiro. — Non posso lavorare! Uccidetemi!... e se no, m'uccido io!
In ultimo, s'era messo a far l'accattone, sollecitava dai passanti una monetuccia per un tozzo di pane, piagnucolava come una donnicciuola.... ed avea sempre la sua faccia terribile da Rinaldo Rinaldini!
Con gli operai delle fabbriche non fu Nejdanow molto più felice. Tutti quei ragazzi erano o troppo sfrontati e impertinenti o troppo chiusi e diffidenti.... Non se ne cavava proprio nulla. Scrisse a questo proposito una lunga lettera all'amico Siline, nella quale dolevasi della propria insufficienza, attribuendola alla disgraziata educazione ricevuta e alle deplorevoli tendenze estetiche.
Si figurò un momento che, in materia di propaganda, la vocazione sua dovesse essere esercitata per iscritto, anzi che a voce. Ma gli opuscoli suoi non attecchivano. Checchè gettasse sulla carta, faceva a lui per primo una impressione di falso, di stentato, di non sincero nello stile e nella lingua.... Due volte anzi, oh spavento! s'era trovato a scriver versi o a sfogare il proprio scetticismo.
Risolvette (ed era questo un gran segreto di fiducia e d'intimità) di tener parola a Marianna di questo insuccesso; e ancora una volta, con grande stupore, trovò in lei una partecipazione simpatica, non già, beninteso, alle manifestazioni letterarie, ma a quella infermità morale della quale soffriva e che a lei stessa non era estranea.
Non meno di lui, Marianna se la pigliava con l'estetica.... Eppure, non s'era innamorata di Marchelow e non ne aveva accettato la mano, appunto perchè in Marchelow non esisteva traccia di cotesta medesima estetica!
Di ciò, si capisce, Marianna non osava convenire, nemmeno con sè stessa; ma il fatto è che non c'è di veramente forte in noi, se non quello che per noi stessi rimane sempre un mistero appena intravisto o sospettato. Così scorrevano i giorni, lenti, ineguali, ma non già noiosi.
Un singolare fenomeno accadeva nell'animo di Nejdanow. Era malcontento di sè, della propria attività, o, per meglio dire, della propria inazione; tutti i suoi discorsi erano improntati di quell'acrimonia biliosa che è una caratteristica dei tormentatori di sè stessi; eppure in fondo all'animo, molto in fondo, una certa dolcezza lo consolava, un certo ristoro. Se ciò fosse effetto della calma campestre, dell'aria, dell'estate, del cibo sano, della vita agiata, ovvero del fatto che per la prima volta in vita accadevagli di assaporare il soave contatto di un'anima di donna, non era agevole determinare... Certo è che gli pareva di star bene, perfino di godere, quantunque in buona fede non facesse che lamentarsi col suo amico Siline
Del resto, questa serenità non dovea durare a lungo, e bastò un momento per turbarla.
Una mattina, gli fu recapitata una lettera. Era di Basilio Nicolaevic. Gli si ordinava, in attesa di ulteriori istruzioni, di far subito conoscenza e prendere accordi col già nominato Solomine e con un certo mercante Goluschine, vecchio credente, domiciliato a S.***
Questa lettera non poco lo turbò, perchè ne trapelava il rimprovero per la inazione che già gli rimordeva. L'amarezza, che sin allora era stata di sole parole, gli piombò ad un tratto in fondo al cuore.
A pranzo arrivò Colomeizew, sconvolto, irritato.
— Figuratevi — gridò quasi con le lagrime nella voce, — che orrore ho letto testè nel giornale! Il mio amico, il mio diletto Michele, il principe di Serbia, vittima a Belgrado di una mano omicida! Ma dove s'arriverà con questi giacobini, con questi rivoluzionari, se non si fa a tempo a metter loro un freno?
Il sig. Sipiaghin si fece lecito di osservare che, probabilmente, il nefando misfatto non era imputabile ai giacobini, la cui esistenza in Serbia era discutibile, ma piuttosto ad emissari del partito Carageorgevic, nemici degli Obrenovic....
Ma Colomeizew non volle sentir ragione e con la stessa voce dolente prese a narrare quanto gli volesse bene il defunto principe, e che magnifico fucile gli avesse mandato in dono!... Accalorandosi a poco a poco e farneticando, passò dai giacobini stranieri ai nichilisti e socialisti di casa, e spifferò furibondo una intera filippica. Afferrato un panino e spezzatolo in due sul piatto della zuppa, come sogliono fare i frequentatori eleganti del Café Riche a Parigi, espresse il desiderio di sterminare, di polverizzare tutti coloro che facevano l'opposizione “a checchesia o a chicchesia!” Furon queste le sue precise parole.
— È tempo oramai! — gridò, portando il cucchiaio alla bocca. — È oramai tempo! — ripetette, mentre porgeva il bicchiere al servo, per farsi mescere del vin di Xeres.
Parlò con venerazione dei grandi pubblicisti di Mosca; e Ladislas, notre bon et cher Ladislas, fu più volte ricordato.
E nel punto stesso figgeva gli occhi in Nejdanow come se volesse passarlo da parte a parte. Parea che dicesse: — “A te! prendi questa! eccoti un ceffone! A te, dico!”
Tanto fece, che alla fine Nejdanow perdette la pazienza, e incominciò a ribattere con voce tremula, per verità, (non già, certo, a cagion di timidezza), e anche un po' roca, difendendo le speranze, i principii, gl'ideali della nuova generazione.
Colomeizew prese immediatamente a miagolare – la indignazione in lui traducevasi sempre in falsetto – e divenne villano.
Sipiaghin, mostrandosi magnanimo, si schierò dalla parte di Nejdanow; la moglie consentì nelle idee del marito; Anna Zacharowna si studiò di distrarre l'attenzione di Nicoletto non senza scagliare intorno di sotto al falbalà della cuffia ignivome occhiate; Marianna stette salda, come impietrita.
Ma, ad un tratto, udendo per la ventesima volta il nome di Ladislas, Nejdanow non si tenne più, e battendo del palmo della mano sulla tavola esclamò:
— La grazia dell'autorità!... Come se non sapessimo che cosa è cotesto signor Ladislas!... Un aguzzino, un mercenario, e nient'altro.
— Ah.... ah.... co.... come! ah.... a que.... sto si.... amo! — balbettò Colomeizew, soffocato dalla stizza. — Ed è così che voi osate esprimervi sul conto di un uomo, tenuto in gran conto da personalità eminenti quali sono il conte Blasen Krampf e il principe Covrijkine!
Nejdanow scrollò le spalle.
— Bella raccomandazione davvero!... il principe Covrijkine, quel lacchè entusiasta....
— Ladislas è amico mio! — urlò Colomeizew; — è mio compagno, camerata.... ed io....
— Tanto peggio per voi! — lo rimbeccò Nejdanow. — Vuol dire che voi la pensate su per giù come lui, epperò le mie parole si applicano anche a voi.
Colomeizew divenne livido.
— Come?... che?... e voi dunque osate?... Me.... meritereste all'istante.... che.... io....
— Che cosa meriterei, sentiamo? — interruppe con ironica cortesia Nejdanow.
Dio sa dove la zuffa sarebbe andata a finire tra due così accaniti nemici, se il signor Sipiaghin non l'avesse soffocata in germe.
Alzando la voce e assumendo un contegno, nel quale non poteasi dire quel che prevalesse, se la gravità dell'uomo di Stato o la dignità del padron di casa, dichiarò con tranquilla fermezza che non desiderava più oltre sentire alla sua tavola espressioni così poco misurate; da gran tempo aver preso per sua norma.... per sacra norma.... di rispettare ogni sorta di convinzioni, a patto però (e qui alzava l'indice, ornato dell'anello con le sue armi), che si mantenessero nei confini della dignità e della convenienza: non poter, da una parte, non condannare nel signor Nejdanow una certa impetuosità di linguaggio, scusabile, del resto, a cagion dell'età giovanile; ma non poter nemmeno, dall'altra parte, approvare nel signor Colomeizew la vivacità degli attacchi contro le persone del campo opposto, vivacità certamente spiegabile col suo zelo pel pubblico bene.
— Sotto il mio tetto, — così egli conchiuse, — sotto il tetto dei Sipiaghin, non vi son giacobini o aguzzini, ma soltanto persone dalla coscienza intemerata, le quali, purchè riescano ad intendersi, non mancheranno di stringersi la mano!
Nejdanow e Colomeizew tacquero, ma non si strinsero la mano. Non era suonata, si vede, l'ora dell'intendersi. Tutt'al contrario: non avean mai sentito l'un per l'altro un odio più feroce.
Il pranzo si chiuse in un silenzio ingrato e imbarazzante. Sipiaghin tentò di narrare un suo aneddoto diplomatico, ma fu costretto a lasciarlo a mezza strada.
Marianna teneva inchiodati gli occhi nel piatto. Non volea lasciar trapelare la simpatia destatale dentro dalle parole di Nejdanow. Non già che avesse paura, oh no! ma le premeva innanzi tutto non darsi a conoscere a Valentina, della quale si sentiva addosso lo sguardo ostinato e penetrante.
Infatti, la Sipiaghin era tutta intenta ad osservarla: e non meno lei che Nejdanow. Lo scoppio inatteso del giovane precettore aveva a bella prima sorpreso l'intelligente signora; ma poi, una luce le era balenata, una specie di rivelazione, che mal suo grado le avea strappato un Ah!... Indovinò di botto che Nejdanow si staccava da lei, quel medesimo Nejdanow che testè pareva pendere da un suo cenno. Che cosa era dunque accaduto?... Marianna forse...? Sì, così doveva essere.... Egli le piaceva.... sicchè....
— Bisognerà prendere dei provvedimenti! — così conchiuse le sue riflessioni.
Colomeizew intanto soffocava dall'indignazione. Anche al gioco, due ore dopo, diceva: passo! ovvero: compro! col cuore ulcerato; e benchè facesse le viste di esser superiore a certe inezie, aveva nella voce il cupo tremolo dell'oltraggio invendicato.
Il solo Sipiaghin era veramente molto soddisfatto della scena testè svoltasi. Gli si era offerto il destro di far pompa di eloquenza, di sedare una burrasca imminente.... Conosceva il latino, nè gli era sconosciuto il virgiliano Quos ego. Non si paragonava proprio a Nettuno; ma il ricordo del dio delle onde non gli era certo spiacevole.