XV.

Non appena gli fu possibile, Nejdanow si ritirò e si chiuse in camera. Non avea voglia di veder anima viva, eccetto Marianna.

La camera di lei trovavasi in fondo a un lungo corridoio che attraversava per tutta la sua lunghezza il secondo piano. Una sola volta e per pochi minuti, Nejdanow vi era andato; ma gli sembrò ora che la giovanetta non si avrebbe a male s'ei picchiasse alla porta, e che anzi avesse desiderio di parlar con lui.

Era abbastanza tardi, quasi le dieci di sera. I padroni di casa, dopo la scena seguita a tavola, non giudicarono opportuno disturbarlo e seguitarono a giocare a carte con Colomeizew. La signora Valentina aveva due volte domandato di Marianna, notandone la disparizione.

— domandò prima in russo, poi in francese, non indirizzandosi specialmente all'uno od all'altro, ma piuttosto alle pareti intorno, come soglion fare le persone prese da stupore.

Ma, subito dopo, s'era messa al giuoco, visto che le pareti non rispondevano.

Nejdanow, dopo aver passeggiato su e giù per la camera, traversò il corridoio e, arrivato alla porta di Marianna, discretamente bussò. Nessuna risposta. Tornò a bussare, e fece anche un tentativo per aprir la porta.... Era chiusa. Ma aveva appena avuto il tempo di tornare in camera e di mettersi a sedere, quando sentì cigolar l'uscio e udì la voce di Marianna:

Egli balzò da sedere e fu all'istante sul corridoio.

Marianna stava ritta sulla soglia, con in mano una candela, pallida e immobile.

— balbettò il giovane.

— rispose ella, avviandosi lungo il corridoio, ma prima di arrivare in fondo, si fermò e spinse una porticina, che metteva in una cameretta quasi vuota.

Nejdanow obbedì. Marianna, posata la candela sopra una mensoletta, gli si volse:

— disse. —

— rispose Nejdanow; —

Marianna ebbe un sorriso pensoso.

Marianna chinò il capo e si ritirò di qualche passo verso il fondo della camera.

— proseguì Nejdanow, —

Si avanzò, così dicendo, verso di lei e la prese per mano. Ella non cercò divincolarsi, e lo guardò fiso.

— esclamò egli con impeto improvviso. —

E senza sedere sopra nessuna delle due o tre sedie, che trovavansi nella camera, continuando a star ritto davanti alla sua interlocutrice e a tenerle la mano, Nejdanow comunicò a Marianna con trasporto, con calore, con una eloquenza di cui egli stesso non credevasi capace, i suoi piani, le sue intenzioni, il motivo che lo avea spinto ad accettare l'offerta di Sipiaghin, tutti i suoi legami, le sue conoscenze, il suo passato, tutto ciò che nascondeva, tutto ciò che a nessuno confidava! Le disse delle lettere ricevute, di Basilio Nicolaevic di tutto — anche dell'amico Siline!

Parlava rapido, senza fermarsi un momento, senza la menoma esitazione, quasi rimproverasse a sè stesso di aver tanto indugiato a mettere Marianna a parte di tutti i suoi segreti, quasi scusandosi presso di lei.

Ella lo ascoltava intenta, avida.... Sulle prime, era stata colta da stupore.... Ma ben presto questa impressione disparve, cedendo il posto ad altri sentimenti: la gratitudine, l'orgoglio, la devozione, il proposito le empirono l'anima. Il viso, gli occhi le raggiavano....

Egli tacque alla fine, la guardò, gli parve di vedere ora per la prima volta quel viso, che gli era nel tempo stesso così conosciuto e così caro....

Trasse un lungo, un profondo sospiro....

— riuscì a balbettare appena.

— ripetè ella anche a bassa voce: involontariamente lo imitava; e poi, anche, le mancava il respiro. —

Ancora un'altra parola, e le sarebbero sgorgate dagli occhi lagrime di tenerezza. Tutta la gagliardìa del suo temperamento scioglievasi come cera. La sete dell'azione, l'agonia del sacrificio – del sacrificio immediato – la travagliavano.

In quel punto, un rumor di passi si udì dietro la porta: passi furtivi, frettolosi, leggieri.

Marianna si raddrizzò, svincolò le mani. In un momento solo era mutata; pareva quasi allegra. Un lampo di sdegno e di temerità le passò negli occhi.

— disse con voce così forte che l'eco del corridoio ne ripercosse ogni parola, —

Il calpestìo leggiero cessò d'improvviso.

— si volse Marianna a Nejdanow; —

— rispose Nejdanow. —

Marianna lo guardò fiso negli occhi.

Ella si volse in là.

Il cuore di Nejdanow batteva a martello; gli occhi involontariamente si abbassarono.

Quella fanciulla, che lo amava, – lui derelitto e senza asilo, – che a lui si confidava, che era pronta a seguirlo, a correre con lui verso una sola e medesima meta, quella coraggiosa fanciulla, Marianna, divenne in quel punto per Nejdanow l'incarnazione di ogni nobiltà, di ogni bellezza sulla terra, l'incarnazione dell'amor di donna, fraterno, familiare, che fino allora non avea mai conosciuto, l'incarnazione della patria, della felicità, della lotta, della libertà!

Alzò la testa, e vide di nuovo gli occhi di lei che lo fissavano....

Oh come quello sguardo limpido e leale lo penetrava fino al fondo dell'anima!

— incominciò con voce malferma, — (gli riusciva ora quasi difficile darle del voi)

— esclamò Marianna, prendendogli di nuovo la mano. —

Quell'intimità di linguaggio le venne spontanea, naturale, come ad un camerata, come se altrimenti non avesse potuto esprimersi.

Marianna scorse con gli occhi la lettera, e si volse poi a lui quasi in atto di venerazione.

Egli sorrise per tutta risposta e si ripose la lettera in tasca.

— disse poi; —

— bisbigliò Marianna, e nel punto stesso gli porgeva un'altra volta la mano, intanto che gli appoggiava la testa sulla spalla.

E si separarono subito dopo, con una gagliarda stretta di mano.

Marianna riprese la candela e solo allora, allontanandosi, provò una specie di stordimento.

Spense con un soffio la fiamma e, nella più fitta tenebra, sgusciando lungo il corridoio, rientrò in camera sua, si svestì, si gettò sul letto, – sempre in quella medesima tenebra, che la involgeva come d'un'amica e misteriosa carezza.

XVI.

Destandosi il giorno appresso, non solo Nejdanow non fu punto turbato dal ricordo di quanto era accaduto, ma si sentì pieno di una giocondità sana, tranquilla, come per aver compiuto quel che già da gran tempo avrebbe dovuto compiere.

Dopo aver domandato a Sipiaghin due giorni di congedo, il quale subito consentì, benchè con rigidezza contegnosa, partì per andar da Marchelow.

Prima di muovere, ebbe il tempo di veder Marianna, e la trovò anche lei serena, sorridente, senza un'ombra di esitazione nel dargli del tu.

Era solo impensierita di quanto avrebbe potuto sapere da Marchelow, e lo pregò di comunicarle ogni cosa.

— rispose Nejdanow. — — pensava —

Così pensava, senza punto sospettare quanto vi fosse di vero – e di falso – in cotesto suo pensiero.

Trovò Marchelow nello stesso umore dell'altra volta, cioè stanco e irritato. Fatta alla meno peggio un po' di refezione, si misero in cammino nel noto tarantas (il bilancino di Marchelow era sempre azzoppato, e lo si era sostituito con un puledro preso a nolo e che non era mai stato attaccato), verso la grande filanda di Faleiew, diretta da Solomine.

La curiosità di Nejdanow era molto eccitata. Si era tanto parlato, da un pezzo in qua, di cotesto Solomine, ch'egli si struggeva dalla voglia di conoscerlo.

Solomine era stato prevenuto. Non sì tosto i due viaggiatori furono arrivati davanti all'ingresso della fabbrica ed ebbero detto i loro nomi, furon fatti passare nella casetta occupata dal meccanico-gerente. Era questi pel momento nel corpo principale della fabbrica; sicchè mentre alcuni operai correvano ad annunziare i visitatori, costoro ebbero il tempo di accostarsi alla finestra e di osservare intorno.

La fabbrica, si vedeva, era più che mai prospera e in pienissima attività: elevavasi da ogni parte il fragore confuso e assordante dell'assiduo lavoro. Le macchine soffiavano, martellavano, le ruote stridevano, le corregge cigolavano; di qua e di là apparivano e sparivano carrettini, botti, canestri; chiamate, ordini, sibili incrociavansi in aria. Traversavano frettolosi il cortile operai dai camiciotti stretti alla cintola e dai capelli legati con un nastro, operaie dalle vesti succinte di cotonina. Dei cavalli attaccati movevansi intorno. Sentivasi nell'aria la forza di mille esseri umani, vibrante come una corda tesa. Tutto si svolgeva regolarmente, senza interruzione, con la impassibilità e l'azione concorde di una macchina sola.

Se non che, non solo l'eleganza faceva assoluto difetto, ma la più elementare nettezza. Dappertutto la negligenza, il sudiciume, il fango, la fuliggine. Qua un vetro rotto, là crepato l'intonaco.... Dove sconquassate le assi di un tramezzo, dove una porta sgangherata. Una pozza nerastra, con sopra iridescenze di muffa, occupava il centro del cortile non lungi da vari mucchi di mattoni. Residui di stuoie, di casse, di tele d'imballaggio, di pezzi di corda erano sparsi sull'umido terreno. Erravano qua e là, muti, senza latrare, a coda dimessa, dei cani dall'irto pelo e dai fianchi scarni. Un monello di quattro anni, gonfio il ventre, arruffati i capelli, tutto sudicio di fuliggine, se ne stava accoccolato contro una palizzata e singhiozzava come se tutto l'universo l'avesse abbandonato. Poco discosto, non meno lorda di fuliggine e di mota, circondata dai suoi porcellini di latte, una troia divorava dei torsi di cavolo. Pendevano lungo la corda tesa cenci d'ogni sorta. E che puzzo soffocante, che esalazioni deleterie! Una fabbrica russa vera e propria, e non già una manifattura francese o tedesca. Nejdanow si volse a Marchelow.

— disse —

— rispose Marchelow, di malumore; —

.

Entrò in quel punto Solomine. Fu per Nejdanow un'altra disillusione. Alla prima occhiata, Solomine gli fece l'effetto d'un Finnico, o piuttosto d'uno Svedese.

Era un uomo alto della persona, biondaccio, magro, muscoloso. Faccia allungata e giallastra, naso schiacciato con larghe narici, occhietti verdognoli, sguardo calmo e sicuro, labbra carnose e sporgenti, grossi denti bianchi, mento quadrato, appena ombreggiato da una leggiera peluria.

Indossava un costume da fuochista: vecchia giacchetta dalle tasche rilassate, berretto d'inceratina tutto ammaccato, stivali incatramati, sciarpa di lana al collo.

Insieme con lui era entrato un uomo sui quaranta, dall'aspetto zingaresco, sì per la grande mobilità del viso, sì per la lucentezza degli occhi nerissimi, il cui rapido sguardo a primo tratto investì ed avvolse Nejdanow. In quanto a Marchelow, ei lo conosceva già prima. Si chiamava Paolo, ed era una specie di factotum di Solomine.

Senza troppa furia, Solomine si avvicinò in silenzio ai due visitatori, strinse la mano all'uno ed all'altro nella propria mano callosa ed ossuta, tirò fuori da un cassetto un pacco sigillato e lo diè, sempre tacendo, a Paolo, il quale disparve in un attimo.

Poi, si stirò nelle braccia, tossì e spurgò, scagliò via il berretto con un solo movimento della mano, si mise a sedere sopra uno scannello di legno dipinto e, fatto cenno verso un canapè dello stesso genere, disse ai visitatori laconicamente:

Marchelow cominciò dal presentare il suo giovane amico, al quale toccò in conseguenza una seconda stretta di mano.

Passò poi a parlare della causa, e ricordò la lettera di Basilio Nicolaevic, che fu subito data a Solomine. Mentre questi leggeva, una riga dopo l'altra, con grande attenzione e senza ombra di fretta, Nejdanow lo andava osservando.

Solomine stava seduto presso la finestra. Il sole, che già volgeva al tramonto, illuminava in pieno il suo viso abbronzato, un po' madido di sudore, e i capelli biondi polverosi nei quali scintillavano come tanti puntolini d'oro. Le nari gli si dilatavano leggermente durante la lettura, le labbra si agitavano come se pronunciassero tutte le parole una ad una. Teneva forte il foglio con ambo le mani all'altezza degli occhi.

Tutto ciò, per una ragione o per l'altra, fece a Nejdanow una buona impressione.

Solomine restituì la lettera al giovane, gli sorrise, e tornò a prestare ascolto a Marchelow, il quale non tacque che dopo aver parlato molto e molto a lungo.

— disse Solomine, e la sua voce un po' rauca, ma giovane e forte, piacque anche a Nejdanow; —

— domandò, volgendosi a Nejdanow.

— domandò Marchelow in tono significativo.

Solomine si volse un po' in là.

— ripetette. —

Uscì in fretta. Se non fosse stata la favorevole impressione prodotta già sull'animo di Nejdanow, questi avrebbe forse pensato e, magari, domandato all'amico Marchelow:

Ma un'idea simile non gli balenò nemmeno.

Un'ora dopo, mentre da tutti i piani dell'enorme edificio e per tutte le scale veniva giù, facendo ressa alla porta, la rumorosa folla degli operai, il tarantas, con dentro Marchelow, Nejdanow e Solomine usciva sulla strada.

— gridò Paolo dietro la carrozza. —

— rispose Solomine.

E, voltosi ai compagni, spiegò:

Arrivarono a Borsioncovo, presero un boccone di cena, accesero i loro sigari e si cacciarono in quei discorsi a mezza voce, fatti nell'ombra, interminabili, che son proprii dei Russi, e di nessun altro popolo al mondo.

Anche qui, le aspettazioni di Nejdanow urtarono in un disinganno. Solomine parlava pochissimo; così poco che quasi, si potea dire, taceva sempre. Ascoltava però con grande attenzione; e quando gli accadeva di aprir la bocca per metter fuori un giudizio o un'osservazione, diceva parole ben pesate, pratiche, concise.

Risultò da quel primo scambio d'idee, che Solomine non credeva all'imminenza della rivoluzione in Russia. Non intendeva però di imporre agli altri il proprio modo di vedere; non impediva loro di tentare; li guardava, per dir così, non già da lontano ma di fianco. Conosceva a fondo i rivoluzionari di Pietroburgo, ed anche, fino ad un certo punto, nutriva per loro delle simpatie: in fondo, apparteneva egli stesso al popolo: ma comprendeva pure la volontaria astensione di cotesto medesimo popolo, senza del quale non se ne faceva nulla, e che bisognava a lungo preparare, disporre, ma in tutt'altro modo e ad altro fine, che quelli lì non facessero.

Ecco perchè egli tenevasi in disparte, non già per giocar d'astuzia o per voglia di ciurlar nel manico, ma perchè era un ragazzo con un dito di giudizio, che non voleva inutilmente rovinar gli altri e sè stesso.... In quanto ad ascoltare, perchè non doveva ascoltare? Se mai, c'era sempre da imparar qualcosa di nuovo.

Solomine era figlio unico di un cantore di chiesa. Avea cinque sorelle, tutte maritate a popi russi. Ma egli, col consenso del padre, uomo sobrio e prudente, avea lasciato il seminario, s'era dato a studiar matematiche e avea preso gran passione per la meccanica. Entrato da apprendista nella fabbrica d'un inglese, questi gli avea posto affezione come a figliuolo, fino a fornirgli i mezzi per andare a Manchester. Qui avea passato due anni, e imparato l'inglese. Entrato da poco tempo nella manifattura dell'industriale di Mosca, si mostrava esigente e rigoroso coi subordinati, perchè così in Inghilterra avea visto fare, e nondimeno era da tutti quanti voluto bene.

— dicevano.

Il padre era di lui molto contento, lo chiamava ragazzo puntuale, e soltanto dolevasi che non si volesse accasare.

Nel corso della conversazione notturna in casa di Marchelow, Solomine, come già abbiamo detto, tacque quasi sempre. Ma quando Marchelow prese a diffondersi sulle speranze fondate sulla classe operaia delle manifatture, Solomine osservò laconicamente, come soleva:

— domandò Marchelow.

Solomine sorrise.

Sorrideva quasi sempre; e il suo sorriso, come tutta la sua persona, era semplice e riflessivo.

Verso Nejdanow si conteneva in modo speciale. Il giovane studente gl'inspirava un sentimento di simpatia, quasi di tenerezza.

A un certo momento, Nejdanow scoppiò d'improvviso e divenne di fuoco. Solomine si alzò piano e, traversata a passi misurati la camera, andò a chiudere una finestretta che appunto era aperta sulla testa del giovane.

— disse bonariamente, in risposta allo sguardo stupito del bollente oratore.

Nejdanow gli domandò in seguito quali idee socialistiche proponevasi egli d'insinuare nella filanda, e se avesse o no l'intenzione di far partecipare gli operai ai profitti....

— rispose Solomine. —

Una volta sola, Solomine andò in collera per davvero, e diè d'un tal colpo col pugno poderoso sulla tavola, che tutto ne sussultò, non escluso un peso di quaranta libbre che stava accanto al calamaio. E fu questo a proposito di un'ingiustizia commessa dal tribunale, di vessazioni patite da una artelnota 4 di operai....

Quando poi Nejdanow e Marchelow intavolarono la discussione delle misure da prendere, del modo di tradurre in atto il piano prestabilito, Solomine stette ad ascoltare con curiosità, perfino con rispetto; ma per conto proprio non disse verbo.

Durò la conversazione fino alle quattro; e di che cosa non si parlò! Fra le mille, Marchelow fece allusione misteriosamente all'infaticabile viaggiatore Chisliacow, alle sue lettere che di giorno in giorno divenivano più interessanti....

Promise a Nejdanow di mostrargliene qualcuna, anzi di fargliele portare a casa, visto la loro lunghezza e la scrittura non troppo decifrabile.... E poi, anche, c'era dentro tanta dottrina! e qua e là dei versi, figurarsi!... e non già versiciattoli frivoli, ma pensati, profondi, con un contenuto socialistico!

Da Chisliacow, Marchelow passò a discorrere dei soldati, degli aiutanti di campo, dei Tedeschi, e finalmente dei propri articoli tecnici sui difetti dell'artiglieria.

Nejdanow parlò dell'antagonismo tra Heine e Burn, di Proudhon, del realismo nell'arte....

Solomine ascoltava sempre intento, taceva e fumava. Un po' sorridendo, un po' mettendo una parola, che non era gran fatto notevole, mostrava però d'intendere meglio degli altri dove stesse la verità.

Si sentì battere le quattro....

Dalla stanchezza, Nejdanow e Marchelow si reggevano appena in gambe; Solomine era più che mai sveglio e solido.

Gli amici si separarono, dopo aver fissato di partire il giorno appresso per la città e di andare a trovare il mercante Goluschine, il vecchio credente, per fare della propaganda.

Questo Goluschine, uomo riboccante di zelo, avea già promesso di far molti proseliti.

Solomine stava lì lì per esprimere il dubbio se davvero mettesse il conto di visitare Goluschine; ma, tanto per non opporsi, disse alla fine:

XVII.

Gli ospiti di Marchelow dormivano ancora, quando a lui fu recapitata una lettera della sorella Valentina.

La lettera non era di grande importanza. Valentina vi chiacchierava del più e del meno, pregava il fratello di renderle un certo libro, gli mandava tanti affettuosi saluti.

C'era però un poscritto nel quale, così per ridere, gli si comunicava una curiosa novità. Figurarsi che Marianna, la sua antica fiamma, s'era infatuata del precettore: o viceversa. Non si trattava mica di pettegolezzi, no!... Valentina avea visto coi propri occhi e udito coi propri orecchi.

Marchelow si fece in viso più fosco della notte.... Ma non pronunciò una sola parola. Al fattorino, che aspettava di fuori, fece dare il libro domandato. Imbattutosi in Nejdanow che scendeva, gli augurò cordialmente il buon giorno; gli diè anche il pacchetto delle lettere di Chisliacow, come già avea promesso. Non si fermò però a discorrere con lui, e andò a dare un'occhiata nel podere.

Nejdanow ritornò in camera, e si diè a scorrere le famose lettere. Il giovane propagandista vi parlava sempre di sè stesso e della propria attività febbrile. Secondo le sue parole, avea galoppato, durante l'ultimo mese, sulle strade di undici distretti, visitato nove città, ventinove villaggi, cinquantatrè capanne, una fattoria, otto opifici. Avea passato non meno di sedici notti nei capannotti dei covoni, due in una scuderia, un'altra in una stalla di vacche (qui, in parentesi, faceva notare che le pulci non mordevano sulla sua epidermide). Era penetrato nei tuguri degli operai, nelle baracche dei cantonieri di ferrovia, negli stambugi più miseri....

Dapertutto aveva istruito, insinuato, sparso opuscoli, raccolto informazioni, preso appunti sia per iscritto sia nel cervello, coi metodi più perfezionati della scienza mnemonica contemporanea. Avea scritto quattordici lunghissime lettere, ventotto brevi, diciotto biglietti (dei quali quattro a matita, uno col sangue, un altro con la fuliggine diluita nell'acqua). E se tante e tante cose era riuscito a fare, n'era debitore all'aver saputo sistematicamente distribuire il tempo, secondo le norme di Quintino Johnson, di Sverlitsky, di Carelio, e di altri rinomati statisti e pubblicisti.

Ricominciava poi a parlar di sè stesso, della sua stella, del modo onde avea completato la teorica dell'attrazione passionale di Fourier. Diceva di essere il primo ad aver trovato il vero sol, nè sarebbe passato sulla terra senza lasciare una traccia. Stupiva anzi che un giovanotto di soli ventidue anni, come lui, avesse già risoluto tutti i problemi della vita e della scienza. Dichiarava finalmente che avrebbe trasformata la Russia, che l'avrebbe scrollata come un albero di prugne, rivoltata dentro fuori come un guanto.

Dixi! conchiudeva. Questo dixi era spesso ripetuto nelle lettere di Chisliacow, e sempre con due punti esclamativi.

Una delle tante lettere conteneva una poesia socialistica, indirizzata a una giovanetta e che cominciava:

Ama non me bensì l'idea!

Nejdanow stupì dentro di sè, non tanto del tono enfatico e presuntuoso del signor Chisliacow, quanto della ingenua bonarietà di Marchelow. Ma, pensandoci su, conchiuse:

I tre amici s'incontrarono di nuovo in camera da pranzo, all'ora del tè; ma la discussione del giorno avanti non fu ripresa. Nessuno di loro avea voglia di parlare. Il solo che fosse tranquillo era Solomine. Nel silenzio degli altri due tradivasi un segreto turbamento.

Bevuto il tè, mossero alla volta della città; e il vecchio servo dal lungo gabbano, seduto davanti alla casa, accompagnò il padrone con quello sguardo malinconico che gli era abituale.

Il mercante Goluschine, col quale Nejdanow dovea far conoscenza, era figlio di un vecchio credente che avea fatto fortuna smerciando droghe. Non era riuscito ad aumentare la sostanza ereditata dal padre, perchè gli piaceva di menar gran vita, di far l'epicureo a modo russo. Di capacità commerciali non avea neppur l'ombra.

Era un uomo sui quaranta, pingue anzi che no, più brutto che piacente, dal viso butterato, con due occhietti porcini. Discorreva con grande volubilità, scarrucolando e imbrogliando le parole, agitando braccia e gambe, dando ad ogni poco in uno scroscio di risa, che non era naturale. Somigliava, nel complesso, a un ragazzaccio viziato, abbastanza melenso e vanitoso.

Si teneva per uomo civilizzato, poichè vestiva alla foggia tedesca, riceveva largamente ed avea relazioni con persone ricche.

Andava a teatro, e si atteggiava a protettore di questa e quell'attrice, con le quali intrattenevasi in una lingua straordinaria, che a lui pareva francese.

La sua passione dominante era la sete della popolarità. Voleva che il nome di Goluschine avesse una risonanza mondiale, e che di lui si parlasse come di Suvarow e di Potemkine. Questa passione, cha avea perfino soffocato la connaturata avarizia, lo avea spinto, come egli stesso non senza orgoglio affermava, nelle file dell'opposizione (le prime volte diceva posizione, ma l'avevano poi corretto). Era diventato, in somma, nichilista. Professava le idee più radicali, metteva in canzone la propria setta, facea grasso di quaresima, giocava a carte e ingollava sciampagna come acqua di fonte.

Le sue opinioni non gli avean mai procurato un grattacapo, perchè, soleva dire, “tutte le autorità son comprate da me in moneta sonante, tutti gli spiragli son tappati, tutte le bocche sigillate, tutti gli orecchi rimpinzati di bambagia.

Era vedovo e non avea figli. I figliuoli di una sua sorella gli bazzicavano intorno con una paura servile; ma egli trattavali da gaglioffi malcreati, da barbari, e appena permetteva loro di venire al suo cospetto.

Abitava una bella casa di pietra, ma tenuta con molta negligenza. Certe camere erano mobiliate all'europea; altre non contenevano che poche seggiole e un canapè d'inceratina. A tutte le pareti erano attaccati dei quadri: paesaggi rosso di fuoco, marine violetto, il Bacio di Moller, varie donne grasse e dai gomiti color di rosa.

Benchè non avesse una famiglia propriamente detta, la sua casa rigurgitava di servi e di parassiti, ch'egli accoglieva non già per liberalità ma per la inestinguibile sete di popolarità che lo consumava, e anche per aver sotto mano della gente da comandare e davanti alla quale pavoneggiarsi.

— diceva con alterigia. Non leggeva mai, ma teneva bene a mente certe espressioni erudite.

Era nel suo gabinetto, quando i tre giovani entrarono. Avvolto in un ampio soprabito, con un sigaro in bocca, facea le viste di essere assorto nella lettura di un giornale.

Scorgendo i visitatori, balzò da sedere, si affaccendò a destra e a manca, arrossì come un tacchino, gridò che si portasse presto da colazione, fece una domanda, diè in uno scroscio di risa, o tutto questo quasi contemporaneamente!

Dei tre ne conosceva due: il solo Nejdanow era per lui un viso nuovo. Saputo che era studente, tornò a ridere, gli strinse forte la mano ed esclamò:

Nejdanow pensò un momento che Goluschine fosse imbarazzato.... che avesse paura.... Nè s'ingannava. All'apparire di ogni faccia nuova, Goluschine diceva a sè stesso:

Si riebbe nondimeno di lì a poco, e col solito suo modo frettoloso e arruffato entrò a parlare del misterioso Basilio Nicolaevic, del suo carattere, della necessità, della pro.... pa.... gan.... da (conosceva anche assai bene questa parola, ma la pronunziava sillaba per sillaba), di un novello affiliato molto serio da lui scoperto.... Il momento, secondo lui, era finalmente arrivato: tutto era pronto, maturo per il... per il colpo di lancetta (così dicendo si volgeva a Marchelow, il quale non battè ciglio); poi, indirizzandosi a Nejdanow, cominciò a vantarsi, in modo da dar dei punti a Chisliacow, il gran corrispondente.

Da un gran tempo, così diceva, s'era staccato dall'antica barbarie; conosceva a fondo i diritti del proletario (anche questa parola l'avea ben ribadita in testa); se al commercio propriamente detto avea sostituito delle operazioni bancarie che arrotondavano il suo capitale, ciò faceva nell'unico scopo che cotesto capitale, a un dato momento, fosse utile al.... movimento generale, vantaggioso.... per così dire.... al popolo; ma in quanto a lui, personalmente, in fondo in fondo, egli disprezzava il capitale.

Entrò in quel punto un domestico, che portava la colazione. Goluschine tossì in modo significativo, invitò quei signori a bere un bicchierino e ingollò pel primo d'un sol fiato un bicchiere d'acquavite.

Tutti sedettero a tavola. Il padron di casa si cacciava in bocca dei pezzi enormi di caviale e beveva in proporzione.

— diceva, —

Volgendosi di nuovo a Nejdanow, gli domandò donde veniva, dove abitava, se si fermava a lungo; e saputo che si trovava col signor Sipiaghin, esclamò:

E qui, dette addosso a tutti i proprietari di S.***, dichiarando che non solo mancavano delle qualità che costituiscono un buon cittadino, ma del sentimento stesso dei propri interessi.

Strana cosa però! mentre si esprimeva con tanta energia, girava gli occhi di qua e di là pieni di una certa inquietudine.

Nejdanow non giungeva a comprendere che razza d'uomo fosse quello, nè in che cosa potesse loro essere utile.

Solomine, secondo il suo solito, taceva, e Marchelow assunse un aspetto così accigliato, che Nejdanow gli domandò ad un tratto:

Al che Marchelow rispose:

Ma dal tono si capiva che aveva invece molto da dire, preferendo pel momento di starsene zitto.

Goluschine ricominciò le sue critiche; poi, di botto, si mise a far l'elogio della nuova generazione.

Solomine lo interruppe per domandargli di quali ragazzi intendeva parlare, e dove li aveva incontrati.

Goluschine si sgangherò dalle risa e rispose:

Interrogò poi lo stesso Solomine sulla sua filanda e su quell'imbroglione del suo principale. L'altro non rispose che per monosillabi. Al che, Goluschine versò dello sciampagna a tutti e, chinandosi verso Nejdanow, gli bisbigliò:

E vuotò il bicchiere in un lampo.

Nejdanow fece le viste di bere. Solomine si scusò, dicendo che di mattina era sempre astemio. Invece Marchelow, con atto risoluto e quasi collerico, bevve fino all'ultima goccia. L'impazienza lo rodeva.... — parea dire —

— gridò ad un tratto, dando di un pugno sulla tavola.

Ma, nel momento stesso che incominciava, apparve un ometto dai capelli lisci, dalla cera infermiccia, vestito d'una giacca di tela bigia. Veniva avanti con le braccia penzoloni. Salutò la brigata e bisbigliò qualche parola all'orecchio di Goluschine.

— rispose questi frettoloso. —

Solomine e Nejdanow non seppero che cosa rispondere. Marchelow invece, sempre di malumore, consentì subito.

— esclamò Goluschine; e, chinandosi verso Marchelow, soggiunse: —

E si metteva la mano sul petto, in segno di promessa.

Ricondotti poi i suoi ospiti fino alla porta, si arrestò sulla soglia e gridò loro dietro:

— rispose Marchelow.

Quando furono sulla via, Solomine disse:

— borbottò Marchelow. —

— rispose tranquillo Solomine. — — soggiunse guardando a Nejdanow con un sorriso, —

Marchelow rialzò la testa.

Si misero in cammino, Marchelow e Solomine avanti, Nejdanow un po' indietro.

XVIII.

Nejdanow trovavasi in una singolare condizione di spirito. Negli ultimi due giorni, quante nuove sensazioni, quante conoscenze nuove.... Per la prima volta in vita gli era accaduto di legarsi ad una giovanetta, della quale, secondo ogni probabilità, s'era acceso di amore.... Era poi stato testimone dell'inizio d'un'intrapresa, alla quale – secondo ogni probabilità – avea consacrato tutte le proprie forze....

Ebbene.... Era contento, era soltanto soddisfatto?... No!

Esitava forse?... Avea paura?... Si sentiva turbato?... Oh, no di certo!

Provava egli almeno quella tensione di tutto l'essere, quell'impeto irresistibile che spinge nelle prime file dei combattenti, e che indovina ed affretta l'imminenza della battaglia?... Nemmeno.

Ma avea fede, in somma, in cotesta intrapresa?... Avea fede nel proprio amore?...

mormoravano le sue labbra tremanti. — Perchè quella stanchezza? perchè quel fastidio perfino di parlare, se non per gridare e per dare sfogo a una furia morbosa?... Qual era l'intima voce che con quel grido tentava di soffocare?... Forse non lo amava Marianna, virile fanciulla, fedel camerata, anima pura ed ardente? E non era forse una grande felicità essersi in lei imbattuto? averne meritato l'amicizia? averne acceso l'amore? E quei due uomini, che in quel momento gli camminavano davanti, quel Marchelow, quel Solomine, che così poco conosceva, ma verso del quale sentivasi così fortemente attirato, non erano forse entrambi tipi perfetti dell'indola russa, della vita russa?... E la conoscenza fatta con loro, e la conseguente intimità, non erano forse anch'esse elemento di felicità?...

Perchè dunque quel sentimento indefinito, fosco, doloroso?... A che quello scoramento costante, quel veder nero in ogni cosa?... tornavano a bisbigliar le sue labbra.

— suonò ad un tratto, quasi in risposta di tutti quei pensieri, una ben nota e stridula voce. —

Nejdanow alzò gli occhi e, con grande stupore, si vide davanti nè più nè meno che Paclin.... L'omiciattolo era vestito da pastorello, in giacca estiva color burro, senza cravatta al collo, con in capo un enorme cappello di paglia, dal nastro azzurro, e ai piedi lucidissime scarpe verniciate.

Zoppicando, come al suo solito, si avvicinò a Nejdanow e gli afferrò le due mani.

— incominciò, —

Nejdanow obbedì al desiderio dell'amico, e fece regolarmente la mutua presentazione con nomi, qualità, domicilio, ecc.

— esclamò l'omiciattolo. —

Ciò detto, menò i tre amici verso il solitario sedile, e li pregò di sedere, dopo averne scacciato due cenciose mendicanti. I quattro giovani presero a scambiar le idee.... occupazione il più delle volte abbastanza noiosa, – specialmente nei primi momenti, – e di una completa inutilità.

— esclamò ad un tratto Paclin, volgendosi a Nejdanow, — (Nejdanow lo sapeva benissimo, ma l'informazione dovea servire per gli altri due);

— rispose Nejdanow.

Paclin gettò un'occhiata a Solomine, che sorrideva, e un'altra a Marchelow, che diventava sempre più scuro in viso.

— disse Nejdanow.



— cominciò Nejdanow.

— interruppe Marchelow.

— esclamò Nejdanow, —

— disse Solomine, —

— interruppe Paclin. —

Marchelow alzò le spalle di malumore.

Tutti si alzarono dal sedile.

— disse Paclin all'orecchio di Nejdanow, accennando a Marchelow. — — soggiunse poi, indicando Solomine con un movimento del capo, —

— domandò Nejdanow.

— rispose Paclin.

XIX.

Fòmuscka e Fimuscka, cioè Tommaso Lavrentievic ed Eufemia Pavlowna Subocew, appartenevano entrambi, per ragion di nascita, alla piccola nobiltà russa, ed erano considerati come i più antichi abitanti della città di S.***

Sposatisi in età giovanissima, eran venuti a stare, da tempo quasi immemorabile, nella casetta di legno dei loro antenati, posta allo estremo limite della città. Non ne erano mai usciti per viaggiare, nè mai aveano in qualche modo mutato le loro abitudini o il genere di vita.

Il tempo, per loro due, pareva aver arrestato il suo corso. Nessuna novità, quale che fosse, varcava i confini delle loro case.

Ricchi non erano; ma parecchie volte all'anno arrivavano i loro contadini, come al tempo della servitù, e portavan loro provviste e pollame. A scadenza fissa, lo starosta del villaggio, o podestà che si voglia dire, veniva a presentare il tributo annuo e una coppia di galline selvagge, che si fingeva aver uccise nella foresta dei signori, foresta che da anni ed anni non esisteva più.

I signori invitavano lo starosta a prendere il tè sulla soglia del salotto, gli facean dono d'un berretto di astrakan, d'un paio di guanti verdi di pelle di daino, e gli auguravano il buon viaggio.

La casa loro, secondo la vecchia consuetudine, era piena di gente di servizio.

Il vecchio cameriere Calliopic, vestito d'un camiciotto dal collo diritto, fatto d'una stoffa ruvida e spessa e con davanti una fila di bottoncini di acciaio, annunziava, come già in antico, che era servito in tavola, e si addormentava in piedi dietro la seggiola della padrona.

Incaricato specialmente della dispensa, era tutto compreso del suo grave ufficio, nè si brigava di quanto accadesse al di fuori della cerchia delle sue attribuzioni.

Quando gli si domandava se avesse inteso parlare dell'affrancamento dei servi, rispondeva invariabilmente che molte scioccherie si dicono al mondo; che la libertà esiste, pur troppo, in Turchia; ma che, grazie a Dio, a lui non gli s'era attaccato il male.

C'era anche in casa una nana, per nome Pufca, destinata a tener allegri i padroni.

C'era di più la vecchia governante Vasilevna, la quale presentavasi all'ora del desinare, con in capo un gran fazzoletto scuro, e riferiva con la tremula voce tutte le novità più fresche: Napoleone il Grande, l'invasione del 1812, l'anticristo, i negri di color bianco e simili. A volte, appoggiato il mento nel palmo della mano, narrava per filo e per segno i sogni che aveva fatti e ne dava la precisa interpretazione. Allo stesso modo, leggeva molto bene nelle carte da giuoco e spiegava altrui le cose lette.

La casa stessa del Subocew differiva da tutte quante le case della città. Era intieramente costruita di legno di quercia, con finestre quadrate, i cui doppi telai eran sempre a posto, in inverno e in estate. Era tutta scompartita e come sminuzzata in cameruccie, gabinetti, scalette a chiocciola, dietrostanze, corridoi, soppalchi, colonnine al tornio, buchi, cantucci, ripostigli d'ogni sorta.

Sul davanti della casa, c'era un piccolo piazzale con palizzata; alle spalle, un giardino. E questo giardino era pieno zeppo di capannotti per la paglia, di tettoie, di magazzini e stalle in miniatura.... Niente ci mancava. Vero è che non c'era gran che in quelle varie costruzioni; alcune anzi erano a metà sfasciate dal tempo e dall'abbandono.... Ma, poichè trattavasi di cosa antica, nessuno osava stendervi la mano.

I Subocew non avevano che due soli cavalli, vecchi, vellosi, bolsi; uno dei due era qua e là chiazzato di bianco sulla schiena e si chiamava l'Immobile. Venivano attaccati, al massimo, una volta al mese, a uno strano equipaggio noto a tutta la città, molto simigliante a un globo terrestre cui fosse stato tagliato il quarto davanti. L'interno era guernito di stoffa gialla, d'importazione estera, screziata di mille pisellini a rilievo, che somigliavano ad altrettante verruche.

L'ultimo metro di quella stoffa avea dovuto essere tessuto a Lione o a Utrecht, ai tempi dell'imperatrice Elisabetta.

Il cocchiere era un buon diavolaccio, anch'egli vetusto, impregnato di odor di pece e di grasso lucido. Avea la barba che spuntavagli proprio sotto gli occhi, e le sopracciglia che gli spiovevano in cascatelle su cotesta medesima barba. Era così tardo in tutti i suoi movimenti, che impiegava cinque minuti buoni per annasare una presa di tabacco, due minuti per ficcar la frusta nella cintola, e più di due ore per attaccare il solo Immobile. Lo si chiamava Porfirio, e qualche volta anche Porfirietto.

Quando i Subocew trovavansi fuori in carrozza, e per poco la strada fosse in salita, eran presi da una paura matta (succedeva, del resto, precisamente lo stesso se invece la strada era in discesa), si afferravano con ambo le mani alle correggie, e ripetevano insieme a voce alta una specie di scongiuro:

Tutta la città li teneva in conto di originali, poco meno che di pazzi. Del resto, essi pei primi confessavano di non esser troppo d'accordo coi sistemi correnti, nè di ciò si lamentavano punto. Vivevano, nè più nè meno, come al tempo di quando eran nati, cresciuti, sposati. Sopra un sol punto, si discostavano dalle antiche consuetudini; mai e poi mai, da che eran venuti al mondo, aveano punito o perseguitato qualcuno. Quando uno dei servi era scoperto per beone incorreggibile o per ladro matricolato, sopportavano sulle prime in santa pazienza, allo stesso modo che si sopporta il cattivo tempo; poi, trascorso un certo periodo, s'ingegnavano di liberarsi del colpevole, consegnandolo ad altri padroni... dicevano,

Questa calamità nondimeno accadeva di rado; tanto di rado da costituire una vera epoca nella loro vita. Dicevano per esempio:

ovvero:

Mancava anche ai due coniugi un altro tratto caratteristico del passato. Nè il marito nè la moglie brillavano gran fatto per sentimento religioso. Il primo anzi si atteggiava un po' a volteriano; mentre la seconda aveva degli ecclesiastici una paura matta, credendoli perfino dotati del mal d'occhio.

Raramente andavano in chiesa, e facevan magro all'uso cattolico, permettendosi cioè le uova, il burro, il latte.

Ciò era noto in città, e certo non conferiva alla loro buona riputazione. Se non che, nulla resisteva alla loro bontà, e a dispetto dei frizzi e del chiamarli beati e innocenti, tutti, in fondo in fondo, li stimavano.

Non però facean loro molte visite, del che nessuno dei due si affliggeva. A stare insieme, a quattr'occhi, non si seccavano; ond'è che non si separavano mai, nè desideravano altra compagnia.

Nè Tommaso nè Eufemia eran mai stati ammalati; e se, per disgrazia, uno dei due sentivasi leggermente indisposto, prendevano tutti e due un decotto di tiglio, o si ungevano il ventre con l'olio tiepido, o si versavano del sego liquefatto sulla pianta dei piedi, e tutto spariva in meno di niente.

Passavano la giornata sempre allo stesso modo. Si alzavano tardi, bevevano il cioccolatte in certe tazzoline che parevan mortai.... — dicevano — ”.... Si mettevano a sedere l'uno di faccia all'altro, e chiacchieravano del più e del meno, o leggevano il Passatempo e lo Specchio del mondo, o sfogliavano un vecchio albo, rilegato in marocchino rosso e dorato sul taglio, già appartenuto, come sopra era inciso, ad una certa Madame Barbe de Kabilyne. Quando e in che modo fosse cotest'albo venuto loro fra mani, non si ricordavano più.

L'albo conteneva alcune poesie francesi, moltissime poesie russe ed articoli in prosa, dei quali potrà dare un'idea questa breve riflessione su Cicerone:

“In quale disposizione di animo Cicerone accettasse il grado di questore, lo spiega egli stesso nei termini seguenti: ― Avendo preso a testimoni gli Dei della purezza dei propri sentimenti in tutti gli uffici disimpegnati, ei si considerò costretto dai più sacri legami a coprire degnamente i detti uffici; e, con tale intenzione, non si lasciò trascinare alla voluttà del contravvenire alle leggi, anzi evitò con grande studio i più semplici e indispensabili spassi”.

Sotto leggevasi: “Scritto in Siberia, fra i rigori della fame e del freddo”.

C'era anche una curiosa poesia dal titolo Tirsi, nella quale capitavano strofe come le seguenti:

Regna la calma più solenne e pura,
E la rugiada iridescente e bella
Refrigera e carezza la natura
E le infonde nel sen vita novella!

Tirsi soltanto, con la morte in core,
Sparge lagrime ardenti di dolore....
Se vicino ad Annetta non è assiso
Niente gli mette sulle labbra un riso!

E poi una poesia estemporanea, scombiccherata da un capitano il 6 del mese di maggio 1790:

Non mai ti scorderò, bella campagna,
E del tempo felice eterno in core
Porterò il sovvenir....
Del tempo in cui ebbi l'ambito onore
Di passar cinque giorni in paradiso,
Beandomi al sorriso
Di colei che ben volle a me le porte
Del suo palagio aprir!
Cinque giorni passati in una corte
Di dame e damigelle
Tutte gentili e belle!

L'ultima pagina dell'albo conteneva, oltre alle poesie, varie ricette contro il mal di stomaco, gli spasimi, ed ahimè! anche contro i vermi.

I Subocew desinavano a mezzogiorno preciso e non mangiavano che piatti antiquati: frittelle di latte, minestra di cetriuoli, carne tritata con l'aglio, pasticcio di pesce, pollo allo zafferano, ciambelle col miele.

Dopo pranzo, schiacciavano un sonnellino, un'oretta o giù di lì: poi si svegliavano per sedersi l'uno dirimpetto all'altro, bevendo dell'acqua di mortella, ovvero una certa limonata molto gassosa che, il più delle volte, svaporava in tanta spuma con grande spasso dei padroni e gran dispetto di Calliopic. Questi, obbligato a passar lo strofinaccio sui mobili inondati, se la pigliava con la cameriera e col cuoco, che aveano inventato la maledetta bevanda....

— diceva, —

Poi i due coniugi facevano un po' di lettura o si divertivano con la nana Pufca, ovvero cantavano insieme certe vecchie romanze (aveano la stessa voce precisa, acuta, un po' incerta, un po' rauca, specialmente dopo aver dormito, ma in complesso non disaggradevole), ovvero finalmente giocavano a carte, ma sempre a giuochi antiquati come il krebs, la mosca, e perfino il boston sans prendre.

In ultimo, veniva in mezzo il bricco del tè, il tradizionale samovar. Prendevano il tè la sera: unica concessione fatta ai tempi nuovi. Ripetevano però tutti i giorni che la loro era una debolezza vera e propria, e che l'uso di quell'erba cinese era causa di un gran deperimento nel popolo.

In generale, si guardavano molto bene di condannare il presente e di elogiare il passato. Ammettevano volentieri che altri vivesse a suo talento, purchè non obbligasse loro a mutar sistema di vita.

Alle otto, Calliopic serviva da cena, con l'inevitabile ocroscka (che è come della carne in aceto), e alle nove, nei grandi letti di piuma un sonno pacifico non tardava a scender loro sulle ciglia. Cessava ogni rumore nella vecchia casetta; ardeva la lampada davanti le immagini, libravasi nell'aria un vago profumo di musco e di melissa, il grillo cantava, e la buona coppia innocente e comica dormiva in pace.

Ecco quel che erano i pazzi o, come Paclin li chiamava, i “pappagalletti inseparabili” che avean dato asilo alla sorella e in casa dei quali ei conduceva gli amici.

La sorella di Paclin era una ragazza intelligente, piuttosto graziosa – gli occhi soprattutto eran magnifici; – ma la disgraziata difformità le toglieva ogni libertà di movimento, ogni gaiezza, e la rendeva diffidente e poco men che cattiva.

Per giunta, aveva un nome assai strano: si chiamava Snandulia! Suo fratello avea tentato di mutarglielo in Sofia; ma ella s'era incaponita a conservare il vero nome, dicendo che quando si ha la disgrazia di portar la gobba, si merita anche di chiamarsi Snandulia.

Conosceva bene la musica e suonava discretamente il pianoforte.

— soleva dire non senza amarezza, —

I quattro amici arrivarono, quando i padroni di casa, svegliatisi dal loro sonnellino pomeridiano, sorbivano l'acqua di mortella.

— esclamò Paclin, varcando la soglia.

E infatti, si mostrò loro il settecento fin dall'anticamera sotto forma di un paraventino a fondo azzurro, sul quale erano incollati tanti figurini di dame o cavalieri incipriati.

Questi figurini, introdotti da Lavater, erano in gran voga in Russia verso il 1780.

L'improvvisa apparizione di così numerosa brigata produsse una profonda emozione nella casetta così di rado visitata. Si udì un viavai affaccendato di piedi nudi e calzati; passarono delle ombre; una porta sbatacchiò; suonò un confuso mormorìo di esclamazioni contenute, di chiamate, di risposte impazienti....

Finalmente Calliopic apparve col suo eterno camiciotto e, dopo aver spalancata la porta del salottino, gridò a gola spiegata:

I padroni si turbarono molto meno dei servi. Quella invasione inattesa li fece bensì stupire a bella prima; se non che Paclin li rassicurò immediatamente e, coi suoi motti abituali, presentò loro un dopo l'altro i tre nuovi venuti come persone pacifiche e niente affatto personaggi ufficiali.

I due coniugi nutrivano una speciale antipatia per tutti i rappresentanti, alti e bassi, del governo costituito.

Snandulia, chiamata dal fratello, fece la sua apparizione: era molto più agitata e impacciata dei vecchi Subocew. Costoro, ad una voce e con le stesse parole, invitarono quei signori a sedere e domandarono loro quel che preferissero: tè, cioccolatte, gassosa, paste. Ma, saputo che quei signori non desideravano prender nulla, poichè aveano appunto fatto colazione da un tal Goluschine e doveano anche tornarvi a pranzo, non insistettero oltre, e incrociate le braccia allo stesso modo, intavolarono la conversazione.

Sulle prime, fu questa un po' languida, ma di lì a poco si animò. Paclin fece sbellicar dalle risa i due vecchietti, narrando il noto aneddoto di Gogol a proposito di un sindaco e di un pasticcio: il sindaco era facilmente penetrato in una chiesa zeppa come un uovo, per la semplice ragione di essere un sindaco; e il pasticcio, non meno sindaco del sindaco, era entrato in uno stomaco non meno pieno della chiesa.

L'aneddoto li fece ridere fino alle lagrime. Il loro riso, come tutto il resto, era simile, una specie di miagolio, un guaito a sbalzi, che si chiudeva con un accesso di tosse, un arrossire di tutto il viso e un sudore abbondante.

Paclin avea fatto l'osservazione che le persone della specie dei Subocew hanno un'impressione vivissima, quasi spasmodica, dalle citazioni di Gogol; ma poichè aveva in mente non tanto di divertire i due vecchietti quanto di mostrarli ai suoi compagni, cambiò subito le sue batterie e manovrò con tanta accortezza che di lì a poco la coppia prese coraggio e si lasciò andare.

Tommaso cavò di tasca e mostrò agli ospiti graditi la sua tabacchiera di legno intagliato, sulla quale si contavano una volta fino a trentasei figure umane variamente atteggiate; il tempo le avea con l'attrito pressochè fatte sparire; ma Tommaso le vedeva sempre, le contava una dopo l'altra, le segnava a dito, le descriveva.

— diceva, —

E il punto ch'egli indicava con la punta del dito grasso e corto non era meno liscio di tutto il resto del coperchio.

Invitò poi i visitatori ad osservare un quadro ad olio attaccato alla parete, proprio sopra al posto dov'era seduto. Rappresentava un cacciatore visto di profilo, sopra un cavallo sauro anche di profilo, che traversava di gran carriera una pianura coperta di neve. Questo cacciatore portava un gran berretto bianco di pelle di montone col pennacchio azzurro, una tunica di pelo di cammello orlata di velluto e stretta da una cintura di metallo dorato; un guanto ricamato di seta era ficcato nella cintura stessa con accanto un pugnale dall'impugnatura cesellata. Giovane e ben pasciuto, il cacciatore teneva con una mano un corno gigantesco ornato di fiocchi rossi; con l'altra, le redini e uno scudiscio. Tutti e quattro i piedi del cavallo eran per aria, e l'artista avea minuziosamente dipinti i quattro ferri, senza nemmeno dimenticare i chiodi.

— diceva il vecchietto indicando quattro macchie circolari sul fondo della neve, —

Perchè quelle impronte non erano che quattro? Perchè non se ne vedevano altre più indietro?... Era questo un punto oscuro, che Tommaso passava sotto silenzio.

— soggiunse dopo un momento di esitazione, con un sorriso pudico e soddisfatto.

— esclamò Nejdanow, —

— esclamò di botto la moglie. —

Aprì, così dicendo, un piccolo bonheur du jour: così chiamavasi un canterano dai piedi ritorti e dal coperchio panciuto che si alzava scorrendo in una scanalatura: e ne tirò fuori una miniatura ovale in cornicetta di bronzo. La miniatura rappresentava un bambino di quattro anni, intieramente nudo, con un turcasso sulla schiena, un nastro azzurro sul petto, e che provava col dito la punta d'una freccia. Il bambino, molto ricciuto, era un pochino losco e sorrideva. Eufemia mostrò la miniatura ai suoi ospiti.

— disse.

I visitatori lodarono il lavoro dell'artista.

Paclin trovò perfino che il ritratto era ancora abbastanza somigliante.

A questo proposito il marito parlò dei francesi odierni, e disse che probabilmente erano divenuti molto cattivi.

— gli fu domandato.

S'informò pure dell'attuale sovrano di Francia; e saputo che era Napoleone, esclamò in un impeto di doloroso stupore:

Poi troncò a mezzo la frase e si guardò intorno molto turbato.

Non conosceva il francese e non avea letto Voltaire che tradotto (teneva sotto il cuscino una copia manoscritta di Candido); ma a momenti gli sfuggivano delle espressioni, come faux parquet nel senso di cosa dubbia, cosa sospetta, espressione, della quale molto tempo si rise, fino a che un dotto francese non ebbe spiegato esser quella una vecchia frase parlamentare, adoperata nel suo paese prima del 1789.

Profittando della piega della conversazione, Eufemia si decise a chiarire un dubbio che l'avea sempre tormentata. Volea prima interrogar Marchelow, ma lo vedeva così accigliato! Solomine le facea meno paura, ma le sembrava troppo alla buona; epperò – pensava – non deve sapere il francese. Si volse dunque a Nejdanow.

— cominciò, —

Eufemia stette un momento sopra pensiero, e poi fece un gesto di rassegnazione.

— disse alla fine, —

Paclin pregò in seguito i due vecchietti di cantare una piccola romanza.... Si misero a ridere tutti e due e stupirono che gli fosse venuto in testa un'idea simile. Ma non si fecero pregare a lungo, mettendo solo per condizione che Snandulia dovesse accompagnare al cembalo.... quella cosa che già sapeva.

In un cantuccio del salottino era un clavicembalo, che i visitatori non avevano osservato. Snandulia prese posto e accennò qualche accordo. Tremolarono per l'aria certi suoni poveri, stridenti, lamentosi, stentati; ma i due vecchietti intonarono subito la loro romanza, ritti di qua e di là ai fianchi della suonatrice.

Tommaso incominciò:

Perchè ognora la cupa tristezza
Si disposi alla gioia d'amor,
Accessibile ad ogni dolcezza
S'ebbe il dono fatale del cor!

Eufemia continuò:

Forse esiste nel mondo un sol core
Che sereno d'amor palpitò!
Un amor che non abbia dolore?

E Tommaso rispose:

Ahi no, no! non esiste! no, no!

Mentre Eufemia faceva subito eco:

Ahi no, no! non esiste! no, no!

Poi, tutti e due insieme:

L'amor non vive che di dolor;
Ognora, ognor! ognora, ognor!

E Tommaso ripetette a solo:

Ognora, ognor! ognora, ognor!

— esclamò con impeto Paclin; —

— rispose Tommaso; —

— lo rassicurò Snandulia. —

Tommaso incominciò:

C'è qui al mondo un sol core costante
Che abbia amato ignorando il soffrir?
Dov'è mai, dov'è l'anima amante
Che le lagrime ignori e i sospir?

Ed Eufemia:

Se a sparir nel dolore è dannato
Come lieve barchetta nel mar
Perchè mai questo cor ci fu dato?...

E Tommaso di rimando:

Per penar, per penar, per penar!

Poi si fermò, per dar tempo a Snandulia di eseguire il suo trillo. Dopo di che, Eufemia ripetette:

Per penar, per penar, per penar!

E tutti e due all'unisono:

Se dannato è l'amore al dolor,
Riprendetevi, o Numi, il mio cor!

E la strofa fu coronata da un nuovo e più lungo trillo.

— esclamarono tutti, ad eccezione di Marchelow, battendo palma a palma.

Mentre gli applausi a poco a poco si andavano calmando, Nejdanow pensava:

Guidato da questo pensiero, si profuse in complimenti, ai quali i due vecchietti risposero con profonde riverenze, senza però alzarsi dalle loro poltrone.

A questo punto, la porta della camera contigua – camera da letto o della servitù, dalla quale udivasi un certo bisbiglio – si aprì di botto e diè passaggio alla nana Pufca accompagnata dalla vecchia governante Vassilevna. La nana incominciò a guaire e far dei versacci, mentre la governante ora la tratteneva, ora l'eccitava.

Marchelow, che già da un pezzo dava dei segni d'impazienza (Solomine, per conto suo, si contentava di sorridere più del solito), si volse ad un tratto verso Tommaso.

— esclamò, —

Ma qui, ricordandosi che la sorella di Paclin era gobba, si arrestò in tronco.

Tommaso si fece rosso come un gambero, si aggiustò in capo il berretto, e potè appena balbettare:

Ma qui Pufca fece una carica a fondo su Marchelow:

— esclamò con la sua voce stridula, —

E così dicendo, imitava con le dita i baffi di Marchelow.

Vassilevna si sganasciava dalle risa, mettendo in mostra la bocca sdentata, e dalla camera contigua altri scrosci di risa facevano eco.

— riprese Marchelow, indirizzandosi al padron di casa. —

A questo, Pufca cominciò a strillare come un'indemoniata. Non aveva afferrato una sola parola del discorso di Marchelow, ma capiva bene che lo straccione si permetteva di maltrattare i suoi padroni.... Insolente!

Anche Vassilevna borbottava e faceva il cipiglio. In quanto al vecchietto, egli aveva incrociato le braccia sul petto e, voltandosi alla moglie, gemette quasi singhiozzando:

Udendo questi lamenti, Pufca strillò più forte che mai, ed Eufemia, con gli occhi semichiusi, le labbra contratte, aspirò l'aria profondamente, preparandosi a metter fuori un gemito.

Chi sa dove la cosa sarebbe andata a finire, se Paclin non fosse intervenuto:

— gridò, agitando le braccia e ridendo. —

Eufemia diè un'occhiata al marito; e vistolo calmo, nel solito atteggiamento, non tardò anch'ella a calmarsi.

— disse; —

E così dicendo, prendeva dalle mani di Snandulia un vecchio mazzo di carte.

— esclamò Paclin, —

Eufemia cominciò a disporre le carte, ma tutto ad un tratto gettò via il mazzo sulla tavola.

— esclamò. — (e indicò Solomine) (e accennava col dito Marchelow) (Pufca fece un versaccio a Marchelow);

Mostrò a dito Nejdanow, ed ebbe un momento di titubanza.

— domandò egli. —

— disse lentamente Eufemia: —

Nejdanow trasalì.

Tutti tacquero e si guardarono l'un l'altro.

— esclamò Paclin. —

— dissero ad una voce i due coniugi.

Poi il marito intonò l'antifona:

— ripetette con voce di basso Calliopic, aprendo la porta.

E tutti e quattro si trovarono sulla via, davanti alla casetta panciuta, mentre Pufca gridava dalla finestra:

Paclin diè in uno scroscio di risa, ma non trovò chi gli facesse eco. Anzi Marchelow guardò l'un dopo l'altro i compagni, quasi ne aspettasse una parola d'indignazione.

Soltanto Solomine, secondo il solito, sorrideva.